Madagascar: il primo caso di land grabbing contro un’azienda italiana

Riguarda le coltivazioni della Tozzi Green in Madagascar. Ecco su cosa si basa, quali effetti potrebbe generare e come la multinazionale risponde alle accuse.

di Gianluca Schinaia (*)

Comprare vasti terreni per sfruttare le risorse naturali e minerali che hanno da offrire. E di conseguenza cacciare le persone autoctone, oppure limitare o alterare profondamente l’uso che fanno delle terre in cui abitano da decenni o secoli.
In inglese, questa pratica predatoria si chiama land grabbing, letteralmente “accaparramento di terre”. Il 13 ottobre scorso è stato avviato il primo contenzioso in Italia di questo genere che coinvolge una multinazionale italiana in un Paese in via di sviluppo.
Il caso coinvolge la filiale malgascia dell’azienda italiana Jtf Tozzi Green: in particolare le sue coltivazioni in Madagascar. “Va detto subito che questa pratica non è un reato: il tipo di contenzioso attivato non può essere assimilato ad un giudizio penale, quanto piuttosto ad un illecito civilistico”, spiega a Wired l’avvocato Luca Saltalamacchia dello Studio Dini-Saltalamacchia che assiste una comunità malgascia, sostenuta dalla ong belga Entraide et Fraternité, e ActionAid Italia. Queste parti hanno presentato un’istanza specifica all’Ocse per far cessare la condotta a loro dire illecita dell’azienda italiana.

Il caso di land grabbing in Madagascar

Attraverso la sua filiale Jatropha Technology Farm Madagascar (Jtf-Madagascar Sarl) da oltre 10 anni l’azienda italiana Tozzi Green coltiva 11mila ettari di terreno nella regione di Ihorombe, nella parte centro-meridionale del Madagascar.
La comunità locale contesta le tipologie produttive, ovvero monocolture di mais per gli allevamenti e piantagioni di geranio in oli per l’esportazione: attività agroindustriali che a detta degli istanti comportano effetti negativi per la popolazione e l’ambiente circostante. A portare avanti il procedimento e coinvolgere lo studio legale Dini-Saltalamacchia è stato il Collectif Tany, che ha poi costruito una coalizione fatta anche da altre associazioni malgasce e italiane.
Nel mirino dei ricorrenti non c’è solo la multinazionale italiana: anche il governo belga è indirettamente interessato da questa istanza, dato che nel 2020 Tozzi Green ha ricevuto un prestito di 3,5 milioni di euro dalla banca d’investimento governativa belga Bio, che dovrebbe sostenere lo sviluppo locale, la sicurezza alimentare e il rispetto dei diritti umani e ambientali.

Perché una causa se il land grabbing non è illegale?

Come specifica Saltalamacchia, in questo caso non si contesta una pratica illegale.
Il land grabbing infatti consiste nell’accaparramento di terre, in genere occupate e utilizzate da comunità locali, sulla base di contratti di locazione o provvedimenti concessori comunque validi. “L’occupazione delle terre in genere trova la base legale in atti perfettamente validi e leciti, perché rispettosi delle norme nazionali – segue l’avvocato -. Tuttavia questa occupazione, pur essendo valida, può essere sostanzialmente ingiusta e violare altre norme (come quelle poste a tutela dei diritti fondamentali al cibo ed all’acqua, oppure alla casa o alla identità ed alla cultura di un popolo indigeno) perché molto spesso lo schema legale che lo giustifica non è rispettoso di tutti i diritti in gioco”.
Il land grabbing rappresenta lo scontro culturale tra consuetudine e diritto, tra tradizione ancestrale e sviluppo moderno. “Siccome occupare militarmente un paese non è più accettato, meglio occuparlo ‘economicamente’. E meglio ancora se possiamo sottrarre le risorse in modo legale”, aggiunge l’avvocato.

Le popolazioni indigene non hanno spesso cognizioni legali come la “proprietà” e l’occupazione ancestrale di terre da parte di una comunità indigena non è quasi mai consacrata da un titolo legale. “Una comunità indigena che occupa un terreno in modo collettivo (e questo è il modo tipico di gestire gli spazi da parte di molte comunità indigene) o che comunque lo occupa da secoli, non ha quasi mai la possibilità di dimostrare di avere un titolo di proprietà. Anche perché è lo stesso concetto di “proprietà” che spesso è sconosciuto in queste culture, dove le terre sono di tutti. O, meglio, ciò che per noi occidentali è una “res” suscettibile di essere posseduta (il terreno, il bosco, il corso d’acqua), per molte culture indigene è una entità vivente (la Pacha Mama) di cui l’uomo fa parte”.
Per questo si crea il paradosso per cui molto spesso le terre occupate dalle comunità locali risultano formalmente di nessuno, mentre di fatto appartengono alle comunità locali che le occupano e utilizzano da secoli. Per usare un rimando storico noto a tutti, oggi però i conquistadores spagnoli non potrebbero saccheggiare l’America latina e occuparla militarmente: la legittimità ad abitare queste terre, in virtù dell’antica presenza, è da tempo protetta dal diritto internazionale. Soprattutto, nei confronti dei massicci investimenti di grandi aziende che troppo spesso sfruttano i territori per fini commerciali, senza curarsi delle esternalità negative che generano per l’ambiente e i suoi abitanti.

La nuova procedura Ocse

Nel 2022 sono stati oltre 260mila i chilometri quadrati di territorio acquistati nei paesi del Sud del mondo da multinazionali: una superficie grande quasi come quella dell’Italia. E negli ultimi 20 anni nel mondo sono stati sottratti alle comunità locali complessivamente 1.148mila chilometri quadrati di terreni: un’estensione pari a più del doppio della Francia. Sono i dati pubblicati ad ottobre scorso dal VI Rapporto I padroni della terra curato della Focsiv. Un fenomeno crescente, pericoloso per la tenuta sociale dei paesi più poveri, e troppo spesso odioso per le conseguenze che genera. Per fronteggiarlo, nel 2011 l’Ocse ha approvato le linee guida destinate alle imprese multinazionali (aggiornate proprio quest’anno). Si tratta di raccomandazioni rivolte dai governi alle grandi aziende che operano in paesi diversi.

Come si legge nella loro prefazione, “le linee guida enunciano principi e standard volontari per un comportamento responsabile nella conduzione delle attività imprenditoriali, conforme alle leggi vigenti e alle norme riconosciute a livello internazionale. Tuttavia, i paesi aderenti alle inee guida si impegnano in modo vincolante ad attuarle secondo la decisione del Consiglio dell’Ocse sulle inee guida destinate alle imprese multinazionali”. Attraverso le linee guida è istituito un organismo di controllo, chiamato Punto di contatto nazionale (Pcn), che è possibile attivare nella ipotesi in cui si ritiene che un’impresa abbia violato le regole. I Pcn dell’Ocse hanno un ruolo di mediazione con l’autorità di portare le parti in un tavolo comune e, dove possibile, eliminare la problematica o ridurne gli effetti. La procedura inizia con il deposito di una “istanza specifica” (una sorta di ricorso) presso uno di questi punti: in Italia, il Pcn è istituito presso il ministero delle Imprese e del made in Italy.
Le parti non sono vincolate a partecipare alla mediazione, né alle proposte di soluzione: se non si raggiunge un accordo, il Pcn pubblica un report e spiega i motivi. Ma allora perché intraprendere un percorso di questo genere?“L’utilità di questa procedura è che è gratuita e l’impresa deve affrontare un rischio reputazionale nella ipotesi in cui non collabori in modo efficace e costruttivo”, spiega il legale.
In relazione a questo caso, lo studio Dini-Saltalamacchia ha presentato una istanza specifica al Pcn italiano – perché in Italia si trova la sede principale dell’azienda – al fine di far cessare la condotta illecita. Ed è la prima volta che si presenta un’istanza sul land grabbing al Pcn circa la condotta di un’azienda nostrana in un Paese in via di sviluppo.

La risposta di Tozzi Green

Wired ha interpellato l’azienda italiana coinvolta in questo procedimento. La risposta di Tozzi Green è stata rapida e dettagliata. Attraverso le parole di Grazia Ramponi, a capo del segmento risorse umane, servizi generali e comunicazione dell’azienda, la multinazionale chiarisce che “senza voler scendere nel merito di una questione che, ad oggi, non è nemmeno in discussione, l’attività del gruppo Tozzi in Madagascar è contraddistinta dal massimo (oltre che necessario) rispetto delle comunità locali, attività che si caratterizza per un ampio processo partecipativo (si svolgono periodicamente consultazioni pubbliche a tutti i livelli, creazione di posti di lavoro per gli abitanti delle regioni interessate dai vari progetti), per l’impegno a sviluppare politiche di promozione sociale in collaborazione con gli enti locali (per esempio, il sostegno alle attività locali di natura sportiva e culturale) nonché per una politica aziendale, che sul lato alimentare, è volta a favorirne la sussistenza e lo sviluppo a beneficio delle popolazioni locali (un esempio su tutti: la produzione di mais in Madagascar non è soggetta ad esportazioni visto che è riservata esclusivamente alle aziende locali che producono mangimi avicoli e al World Food Programme)”.

Il riferimento iniziale di Ramponi va al fatto che sarà il Pcn a valutare se dare seguito o meno a questa procedura e che se il Pcn ritenesse di dover proseguire con l’istruttoria dell’istanza, “il Gruppo Tozzi si impegnerà senz’altro a fornire la sua massima collaborazione e a presentare tutte le sue osservazioni al fine di dimostrare, ancora una volta, la totale infondatezza delle accuse mosse”. In ogni caso, “tutte le aree che sono attualmente impiegate sono state ottenute nel pieno rispetto e in conformità alle leggi malgasce e con la partecipazione attiva dello Stato, delle comunità locali e dei proprietari di tali terreni”.

Cosa sperano di ottenere i ricorrenti

Il mediatore entro tre mesi dalla presentazione dell’istanza avanzata a ottobre dovrebbe emettere una valutazione iniziale per stabilire se l’istanza specifica non sia manifestamente infondata e sia ammissibile. “In realtà il Pcn italiano ci mette un pò più di tempo – spiega Saltalamacchia – in ogni caso, le richieste alla Tozzi Green sono chiare: che cessi le sue attività e lasci la regione di Ihorombe, restituendo le terre accaparrate alle comunità locali attraverso un processo che sia trasparente, efficiente e partecipativo; che corrisponda un risarcimento dei danni con le modalità da determinarsi in modo da assicurarsi che gli importi saranno utilizzati per promuovere progetti comunitari”.

Qualora il ricorso fosse ammissibile, l’azienda non sarebbe vincolata né a partecipare al tavolo, né ad accettare la soluzione che sarà proposta dal Pcn. Eppure, per quanto sembri davvero un risultato lontano e difficile da raggiungere, dal 2011 ad oggi sono state presentate 62 cause nei Pcn Ocse sparsi per il mondo a proposito del land grabbing.
Segno che la sensibilità sul tema sta crescendo. Tanto è vero che a giugno è stata votata una direttiva in materia di diritti umani e ambiente del Parlamento europeo, adesso in fase conclusiva di negoziazione.
Uno strumento legale che se fosse approvato richiederebbe alle grandi aziende di dotarsi di strumenti di rilevazione dei rischi di diritti umani ed ambiente (due diligence) lungo l’intera filiera. Per essere chiari, il caso della Tozzi Green non rientrerebbe per dimensione e giro di affari tra la aziende obbligate dalla direttiva a dotarsi di una due diligence.
Ma come scrive Action Aid Italia, “casi come questo fanno meglio comprendere l’importanza di questo strumento e la necessità di una norma giuridica vincolante che intervenga a sostituire i molteplici impegni di natura non vincolante spesso poco efficaci”. In particolare, proprio sul tema del land grabbing.

(*) Tratto da Wired.
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alexik

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