Marco Peressi – Cani e canaglie

Io sono Tina, la cagnetta del Luisòn, il facchino, e sia chiaro da subito che non porto un nome di donna.
Tina viene da Rin-Tin-Tina, e mi è stato imposto per il mio conclamato coraggio. Ma non rispondo al richiamo “Yuhùuu… Rinti…”  del ragazzino del telefilm, piuttosto a cose come: ” Cià chì… vegna chì, scarusa… toh chì’…”. Ecco, io sono un tipico can da pajè, un meticcio di pelo marrone, con gambe tozze e corte e due focature chiare sugli occhi vivaci, come due sopracciglia, che mi danno maggiore espressività, e le grandi orecchie, sproporzionate, sempre dritte sulla testa.  Scorazzo per i cortili delle vecchie case dando la caccia ai gatti, mangiando topi e lucertole e, quando il padrone si ricorda, pane inzuppato d’acqua e spruzzato di vino rosso rimasto in fondo al bicchiere. Ma  soprattutto sono imbattibile nel  prendere al volo le mosche, serrando fulmineamente le fauci e producendo quel rumore nell’atto repentino: Clapp! Quando corro sulle strade ghiacciate, le zampe posteriori slittano e vanno verso l’esterno. Spesso sono occupata in puntigliose tolette, mordendomi  la pancia per bene, per mondarmi da pulci e parassiti tutto intorno alle mammelle, perché io ci tengo a essere pulita.
Mentre il Luisòn pedala in bicicletta, salto abbaiando e tormentandogli l’orlo dei calzoni. Luisòn è ancora abbastanza giovane, dotato di una forza straordinaria, con certe braccia che sembrano travi. A vederci assieme, lui grande e grosso e io piccolina, forse siamo un pochino ridicoli, ma siamo una coppia affiatata. Il mio padrone parla poco, fuma quel mezzo toscano che anni dopo, tanti anni dopo, avrebbero cominciato a tener tra le labbra  commercialisti e  architetti delle balle, ma senza fumarlo davvero perché sono delle fighette. Una volta  ho provato a mangiarne, ma ho vomitato, ci vuole proprio il fisico per il mezzo toscano!
Luisòn tratta qualsiasi tipo di trasporto e trasloco, dove c’è da faticare chiamano lui, da solo fa il lavoro di due persone; e per il prezzo capita a volte che, alla richiesta del committente, risponda con il suo vocione sommesso: “Faga lù, facci lei”. Ma Luisòn è un facchino specializzato, trasporta  pianoforti, e io ne vado orgogliosa. Il Luisòn li carica su uno speciale triciclo con le ruote grosse, dal pianale molto basso per permettere di caricare più agevolmente, e con questo va dovunque a portare i pianoforti, finanche a Milano.  E io con lui. Mi siedo sul pianoforte, avvolto in coperte militari, quelle grigie con le bande bianche, assicurato da corde di canapa e cinghie, che amo rosicchiare facendo incazzare il padrone che, quando se ne accorge, batte il pugno sul triciclo facendolo tremare tutto, e io abbasso le orecchie e mi acquatto.
Luisòn trascorre il tempo o al lavoro o all’ osteria, dove c’è il mio beneamato ganzo: è Fredo, il cane del Cerutti, il vinaio che si definisce “oste della prima ora”. E’ un navigato setter da punta, bello e cacciatore , grande esperto di risaia e frequentatore delle cascine, dove è temuto e rispettato da tutti. Quando porta le cagnette più puttanelle nel retro della osteria, diventa irresistibile. E io mi arrabbio molto per questo, ma so che Fredo non cambierà mai perchè è un farfallone. Poi quando  vado in calore io, e il sesso mi si gonfia sembrando una prugna,  allora  sì che non ce n’è più per nessuno; diventiamo amanti inseparabili, anzi una volta per separarci ci hanno tirato addosso un secchio di acqua gelata. Spesso Fredo viene coinvolto in risse con altri cani,  lui non si tira mai indietro. Gira per città segnando il suo territorio con precisi spruzzi di orina, e osserva tutto. 
Dovete capire che il punto di vista di un cane è diverso da quello di un uomo: noi vediamo la parte bassa delle cose. Bisogna sapere che nel mondo tutto ciò che si trova in basso è mediamente più sporco di ciò che si trova più in alto. Prendiamo ad esempio le scarpe: quelle del notaio, che se le fa lustrare dalla Rosina, sono marroni e alla moda, e hanno un odore strano, perché a volte calpestano lacrime; quelle del prete, che se le fa lucidare dalla perpetua, sono nere e sanno di incenso e di cimitero; quelle del Piero hanno  certi buchi così; quelle del Pino, che aveva esclamato “Inco l‘è buna”, avevano appena pestato una merda, e così via. Quelle del meccanico erano sporche di grasso, e parimenti sporche di grasso erano quelle col tacco alto della signora Federica, forse perchè gli faceva spesso visita in officina. Una volta l’avevo perfino vista fare l’amore, la signora, proprio come lo facciamo noi cani, porgendogli il culo e facendo alla svelta, però sul cofano di una Simca 1000. Robe da matti.
E che crudeltà lo zolfo che mettono i commercianti davanti ai negozi per non farci pisciare: ma lasciateci in pace!
E invece no. Anche lo spazzino con la lunga ramazza di saggina e il triciclo col  bidone di lamiera zincata, quando trovava qualcosa di nostro sul marciapiede, si incazzava sempre. E giù parole, e giù calci.  Come se il mondo fosse solo degli uomini…
Ma torniamo a noi. L’osteria è un universo pieno di gente. C’è il Savunèta, il Piero, il Giusepp, metà di loro ha già il fegato in carpione, come si usa dire. C’è il Padella e Al Capone. C’è perfino un avvocato che ha smesso col Foro e adesso lavora in comune, quando non è ciucco. Dicono faccia il capo di gabinetto, questo sarebbe il nome della funzione, ma lo chiamano tutti “ capo DEL gabinetto”, e gli fanno le pernacchie. E di tanto in tanto passa pure lo Stufaro che, per la precisione, ama definirsi Fumista. Dovete sapere che tanto, tanto tempo fa si festeggiava una festa pagana, detta del Primo Maggio, dove c’era la banda che suonava una canzone che non si ricorda più nessuno, detta dell’Internazionale. In testa al corteo, che si snodava per la città,  prendeva posto lo Stufaro, con paglietta e giannettina, il bastone di bambù, con la camicia immancabilmente ornata dal grande fiocco nero degli anarchici, e la bandiera della C.N.T. che aveva fatto la guerra di Spagna. Il fumista era anarchico, e si era fratturato la mascella entrando al bar Mombaruzzo nell’intento di eliminare un avversario politico, spianando ben due pistole; ma non essendosi accorto di uno scalino all’ingresso, vi era inciampato, cadendo in avanti e provocandosi il trauma che gli avrebbe segnato per sempre la ghigna. Me lo diceva la Stella, che non era più nel fiore degli anni, che mi prendeva sulle ginocchia e mi parlava a bassa voce, come fossi la sua bambina. Mi diceva: Vedi Tina, qui mi scherzano tutti perché io parlo con te che sei una bestia e credono che tu non capisca, ma io lo so che mi capisci, mi basta guardarti negli occhi. Ed era vero. Certo che capivo. Sono un animale, non sono mica una scema. E mi piaceva stare lì, attenta e interessata a ogni fase del racconto. Quello che mi piaceva di più, perché Stella aveva sempre lo stesso repertorio, era il racconto di quell’inverno del 44, durante il quale era capitata in Piazza Cavour e aveva visto quello spettacolo tremendo. Spesso si fermava per la commozione, si toglieva il cappello che sembrava un buffo colbacco, e con la manica del vestito lucidava la sua stella rossa, che portava con fierezza. “Li avevano fucilati contro il muro, dopo averli prelevati dalla prigione. Erano quattro ragazzi”. Quattro cuccioli, pensavo io. “Le guardie non facevano avvicinare nessuno, e non lasciavano portar via i corpi alle famiglie. Pioveva a dirotto come Dio la mandava, e l’acqua pian piano portava via il sangue e lavava i cadaveri. Hai capito, Tina, li han ‘mazzati come cani!” Ma cosa c’entriamo noi cani? Perché “Li hanno ammazzati come cani”?
Eh già, io lo so come si ammazzano i cani.
Quando la Tina qui fa i cuccioli, glieli portano sempre via…
E resto lì con le tette gonfie e il magone, senza abbaiare, mi rassegno a vederli sparire sotto il mantello del Luisòn.
Anche quella volta che me ne era rimasto vivo soltanto uno, anche quella volta sapevo che il padrone me lo avrebbe portato via. Sapevo  che lo avrebbe portato  a morire, gettato in un canale là dove si interseca con l’altro corso d’acqua, formando una croce, verso la Barabìna. E così è stato. Eppure il mio padrone non è cattivo, lo dice anche la Stella. Certo, a volte si ubriaca e diventa un po’ violento, ma appena appena; una volta con un calcio mi ha spaccato due costine, ma lui non se ne è neanche accorto.
D’altronde, non la chiamano forse vita da cani? E allora!…
Ma il dolore più grosso lo provai quando Attila, il cane del signor  Notaio, fece quello che fece.

Avevano incominciato a litigare per una cazzata. Attila non voleva che Fredo passasse davanti allo studio del signor Notaio. Attila era un cane di grossa taglia, un cane pastore, e per giunta era tedesco. Aveva messo bene in chiaro le cose, intonando i latrati di avvertimento, e ringhiando ritualmente e ripetutamente, con rabbia, inequivocabilmente mostrando i denti, affilati come baionette della Wermacht, ma Fredo passava lo stesso con il suo passo di bellimbusto, pisciando con dispetto sulle bocce di pietra situate ai lati del sontuoso ingresso. Il mio fidanzato era di quelli che “fottevano e sfottevano”, non so se mi spiego. Passava e ripassava davanti al cancello alzando bene la coda per mostrargli culo e coglioni, ma soprattutto i coglioni, che sporgevano in fuori uno sull’altro. E questo era decisamente troppo oltraggioso. Sembrava volesse dirgli: Facia da cu da can da cacia l’è pusè bel al mè cu da la tò facia. Mentre Attila schiumava, Fredo gli si sdraiava beato proprio lì davanti, noncurante del furore che stava esplodendo, lui ci godeva… Gli dava occhiate di scherno in cui l’altro non poteva che riflettere il suo senso di impotenza. Del resto il lupo non poteva uscire dal cortile. Ma quella mattina, approfittando del varco che aveva lasciato incautamente il postino, il pastore tedesco uscì, eccome se uscì. Fredo scattò in piedi, ma non indietreggiò di un passo, abbassò la testa e lo guardò negli occhi, e il pelo gli si alzò dritto sulla schiena, scoperse i denti e ringhiò all’avversario che era pronto. Si presero subito.
Il combattimento durò una manciata di terribili minuti, durante i quali il postino cercò invano un manico di scopa per dividere le bestie, inutilmente, e cominciò ad urlare “si ammazzano, si ammazzano!”
Il tedesco squarciò la gola di Fredo, ne bevve il sangue e lo tenne sotto, spietato, finchè non diede più segni di vita.
Ma dopo una decina di giorni, dopo una brutta agonia, morì anche Attila, per le ferite inferte dal mio Fredo. E io non potei fare altro che piangere la scomparsa del mio amore, e per vendetta pisciare e cacare tutte le volte che fu possibile davanti allo studio di quel porco di Notaio.
Un giorno, eravamo sotto Natale, il prete disse al padrone che aveva bisogno di lui. Doveva spostare una quantità di cose nella chiesa di S.Marco, quella vicino a casa del Luisòn. C’era da costruire una specie di soppalco con grandi assi di legno, rivestirlo con drappi e portare le pesanti statue del presepe. Luisòn  trasportò dunque le assi per allestire il palco, poi sistemò Giuseppe e Maria, il bue e l’asino, i pastori, e infine gli angeli, che erano i più pesanti per via delle ali. Il mio padrone, come tutti  i facchini è un uomo un po’ rude, ma quando si trattò di sistemare il Bambino, almeno per una volta lo vidi far piano, deponendolo con l’unica delicatezza che abbiano mai conosciuto le sue mani grosse come badili, nella piccola mangiatoia. Siccome il Luisòn non ha fatto le scuole e non conosce le buone maniere, bestemmia come un facchino, appunto,  e dice male parole. Allora  Don Giuseppe lo rimprovera e dice che è una bestia, e io ne sono contenta e guardo il padrone con ammirazione fraterna. Don Giuseppe dice anche che Dio vede e ascolta tutti. Sarà!…  Certo sarebbe bello avere un dio che ascoltasse anche me. Ci deve pur essere anche un dio per i cani. Così un giorno, non vista, sono sgattaiolata in chiesa. Avevo già osservato come facevano gli altri: mi sono messa seduta composta e ho incominciato a pregare rivolgendomi, così come fanno gli uomini a un dio an-tro-po-mor-fo, cioè che ha le sembianze di un uomo, così, ingenuamente e col cuore, da cane mi sono rivolta, allo stesso modo,  al mio dio, pregandolo così:

Dio cane!
Tu che mi hai fatto nascere bastarda… che mi hai insegnato, attraverso i tanti calci che ho preso, come va il mondo… che mi hai dato di che sfamarmi con i miseri avanzi del padrone… che troppo  poco hai lasciato qui sulla terra Fredo, che è padre dei miei cuccioli e a cui ho voluto bene,  anche se mi ha sempre montata  come un animale…  fammi una grazia una magra volta.
Dio bestia!
dillo al Dio  uomo, anche se forse qualche volta ti prende a calci anche lui, diglielo tu che l’unica cosa che mi interessa davvero è  che vorrei tanto poter tenere, almeno una volta,  i miei cuccioli… Come dici?  Come? Che cosa? Anche al Dio  uomo hanno portato via il figlio e glielo hanno ucciso?…

Scattò ritta sulle zampe, le orecchie dritte, i muscoli pronti. Perfino al loro Dio questi stronzi di uomini hanno portato via il figlio? Proprio come fanno con la Tina?

O porco Giuda! Come? L’hanno inchiodato su due assi di legno incrociate? 

Non disse nemmeno un amen,  e senza pensarci  sopra  cercò un buon nascondiglio e aspettò con pazienza che la gente uscisse dalla messa di mezzanotte.
Tina questa volta non l’avrebbe permesso, stavolta no. Avrebbe vegliato lei sul Cucciolo del Signore, nessuno gli avrebbe fatto del  male.
Tina si mise  davanti al presepe, con un salto ci salì e si accucciò sui piedi  del Bambino, lo scaldò tutta notte col suo piccolo corpo, e al mattinò digrignò i denti a quel pirla del sacrestano che la voleva cacciare. Quando il sacrista arrivò a tiro, affondò i suoi denti, caìni e canini, in un polpaccio bianco come il marmo, lacerando le vene varicose bluastre, e gli resistette, resistette ai calci e lo morse ancora alla caviglia facendolo urlare di dolore e bestemmiare proprio il giorno di  Natale, lì nel tempio di Dio. 
Difese il Bambino come una furia, abbaiando e mordendo e ringhiando,  fino a che a bastonate fu tramortita e gettata fuori, al gelo della strada.
Ma Tina, forse per le troppe botte, non sentiva freddo, ormai non sentiva più niente; ma si sarebbe pure rialzata, caparbiamente, per tornare a proteggere il Cucciolo indifeso del Signore, al quale  verso Pasqua gli uomini avrebbero fatto la festa.
E le bestie saremmo noi, avrebbe detto la Tina, se non fosse morta così, senza rendersene conto, lì sulla neve, con un occhio aperto e l’altro semichiuso, prima di essere messa nel bidone dell’ immondizia dallo spazzino, dura come un sasso, eroica e stecchita come la bella fiammiferaia.
Luisòn cercò invano, per molti giorni, la Tina, e da quella notte invecchiò più in fretta, divenendo sempre più solo.
E visse infelice e scontento.
Buon Natale a tutti…

 

 

clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo       – onig1@libero.it

Clelia

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