Mario Lodi vola via come il suo Cipì

Breve ricordo di un maestro vero (*)    

Un grande maestro e non solo a scuola. Con la morte di Mario Lodi se ne va un pezzo dell’Italia migliore. Era «il testimone di una scuola dove i bambini sono protagonisti del loro apprendimento» scrive in rete Daniele Novara che con Lodi ha firmato il recente «Alice nel paese dei diritti».

Educatore, pedagogista ma anche scrittore: il suo «Cipì» – un uccellino diverso da tutti – è un capolavoro della letteratura infantile moderna, tradotto in mezzo mondo.

Il maestro elementare Lodi impara che nel contatto quotidiano con i bambini, attraverso la loro osservazione partecipe, si può ridisegnare la scuola. Il suo libro più famoso è «Il paese sbagliato». Anche se oggi è cenerentola (soprattutto per i governi) la scuola italiana vanta una bella storia: a inizio ‘900 Maria Montessori e dagli anni ’60 «Lettera a una professoressa» dei ragazzi di don Milani a Barbiana, la partecipazione e la contestazione studentesca, l’ingresso dei genitori nelle istituzioni, scuole dell’infanzia e nidi (almeno in certe parti d’Italia) fra i migliori del mondo, l’ottima legge (pur se poco applicata) per l’integrazione a scuola dei portatori di handicap. Dentro tutto questo le idee, le pratiche, a volte persino “i giochi” di Mario Lodi e del suo Movimento Cooperazione Educativa.

Un suo libro si intitolava «C’è speranza se questo accade al Vho» (si riferiva al quartiere di Piadena dove insegnava) ma oggi lo tradurremo in «c’è speranza se, nonostante tutto, questo continua ad accadere» in molte scuole.

 

(*) Questo mio ricordo di Mario Lodi è apparso ieri (al solito: parola più, parola meno) sul quotidiano «L’unione sarda». Moltissimo ci sarebbe da aggiungere e il blog ovviamente è aperto. In primo luogo segnalo www.casadelleartiedelgioco.it/; poi un commento di Marco Belpoliti su «La Stampa» di ieri che è stato molto ripreso in rete. Eccolo.

«Un profeta disarmato, questo è stato Mario Lodi, maestro elementare a Vho di Piadena. Come Danilo Dolci a Partinico, don Milani a Barbiana, Franco Basaglia a Trieste, è stato uno di quegli uomini che hanno dedicato la vita a un’unica missione: fare migliori gli italiani. Più maschi che donne, in verità, con l’eccezione di Maria Montessori, pedagogista come Lodi. Fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani, secondo il detto cavouriano, anche se ciascuno di questi educatori aveva un’idea tutta sua della crescita morale e sociale del Paese. Lodi, antifascista, è stato un militante di base, e dell’adesione al proprio luogo natio ha fatto una forza straordinaria, nella convinzione che, come s’intitola il suo primo libro, C’è speranza se questo accade a Vho. Da un luogo sconosciuto del Cremonese poteva venire un esempio diretto di scuola elementare, che sperimenta un modo diverso di stare insieme tra maestro e allievi, tra i ragazzi stessi, nella cultura. Un modo per educare, e educarsi, in una forma di “scuola attiva”. Nel clima postbellico, nel 1946, ci furono molte iniziative partite dal basso, dalle scuole rurali e dai doposcuola delle periferie, per ripensare il sistema scolastico dopo venti anni di conformismo e autoritarismo. Mentre Lodi assumeva l’incarico di maestro elementare nel suo paese, a Reggio Emilia Loris Malaguzzi, iniziava a rifondare la scuola materna, partendo da una carriola e da un mucchio di mattoni. Provinciali ma con un afflato internazionale, collegati ai movimenti pedagogici che andavano costituendosi alla fine degli anni 40 e l’inizio dei 50. L’educazione, come i diritti dei bambini, sembrò a Lodi uno spazio aperto entro cui sperimentare, fondandosi sull’osservazione e sulla ricerca continua. 92 anni di libertà mentale e disponibilità agli altri, parlando, scrivendo, ascoltando, rispondendo a tutti, per lettera o a voce».

Per finire questo post scriptum (lungo? Macché, troppo breve) ecco una frase di Lodi da «La scuola e i diritti del bambino» del 1983: «A scuola, il confronto delle diverse esperienze in una struttura di base fondata sulla parità, permette a ognuno di crescere “differente” e allo stesso tempo “uguale”. Ognuno sviluppa le sue possibilità e nessuno è più handicappato perché in una situazione dove la diversità è la norma non esiste una linea di demarcazione tra chi sa certe cose e chi non le sa».

 

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