Mark Adin: “Fine pena mai”

La retorica sugli anni di piombo mi sembra un ostacolo alla comprensione (dunque al superamento di un indubbio trauma collettivo) di un pezzo di storia. Parlo di ciò che passa, prevalentemente in tv, ma in generale in molta pubblicistica, ogni qualvolta un ex terrorista esce di prigione o dice pubblicamente qualcosa. La “retorica della vittima”, così la chiamerei, straborda e diventa censura, impedendo ogni approfondimento.

Posto il fatto che nessuno può negare al parente di un morto ammazzato il diritto a odiare l’assassino, per fatto privato, trovo davvero strumentale l’intervistare una vittima, che per definizione è la persona emotivamente più coinvolta, ben sapendo che l’emozione e il dolore sono le grandi nemiche dell’obbiettività.

Ma c’è un altro aspetto che pesa: quanto è lontano dal diritto, quanto è primitivo ritenere che sia la vittima a giudicare il proprio carnefice? Non c’è forse un sistema giudiziario a far valere il diritto? Secondo leggi che tutelino le parti per addivenire a un equo giudizio? Quanto può essere serena e giusta la vittima se potesse ergersi a giudice? Come si potrebbe difendere il presunto colpevole se fosse un parente della vittima a giudicarlo? Non saremmo, in tal modo, vicini al rito ancestrale del linciaggio? Alla vendetta piuttosto che alla giustizia?

Il parente della vittima di gravi fatti di sangue, dentro di sé, potrà mai considerarsi completamente soddisfatto della pena inflitta al suo carnefice? Ecco che gli intervistati (figli, mogli, genitori) proclamano la loro indignazione per il fine pena. Viene da chiedersi: se la pena è stata comminata da un tribunale, e secondo legge interamente scontata, è giusto dichiararsi insoddisfatti e quindi vittime per la seconda volta? Forse per un congiunto è comprensibile, vista la ridondanza del suo dolore, ma non è sbagliato veicolare al pubblico tali punti di vista? Pare ci siano cittadini più colpevoli di altri, ci sono crimini cosiddetti “particolarmente odiosi”; risiede in questo avverbio – “particolarmente” – il germe della diversità di trattamento. E se c’è differenza davanti alla legge, allora c’è ingiustizia.

Dietro questo atteggiamento c’è la volontà, nel caso del cosiddetto terrorismo, di non voler fare giustizia, di tenere aperta una ferita con il preciso scopo di non superare una fase della nostra storia, di renderla ostaggio, di non risolverla ma forse anche di non volerla scrivere. Una volta scontata la pena, il cittadino non ha forse il diritto di ricominciare la sua vita di uomo libero? E quindi perché non dovrebbe poter parlare in pubblico, scrivere, rendere testimonianza, emettere un giudizio storico, esprimere una opinione? Capisco perfettamente il congiunto della vittima che protesta, il suo coinvolgimento affettivo/emotivo è alto, ma la vittima non può essere un ostacolo al raggiungimento di una verità storica, né può rappresentare un grado di giudizio più alto di un tribunale, per lo meno in uno Stato di diritto.

Si potrà pensare che giustizia non sia stata fatta, certo. Ma allora bisogna chiedere un nuovo processo se si hanno nuove ragioni, altre prove, testimonianze mai accolte prima: la legge lo prevede. Ma se i fatti sono stati acclarati e portati in dibattimento, se la legge prevede una pena che è stata regolarmente comminata al termine di un processo in tre gradi di giudizio e interamente scontata, e se non sussistono i motivi di cui sopra per la riapertura del dibattimento, perché il “fine pena mai”?

Nè si può circoscrivere questo trattamento mediatico ai soli terroristi, si può estendere anche ai “comuni”. Mi ha colpito molto l’insorgere di una parte di opinione pubblica contro la scarcerazione, dopo trentanove (!) anni di carcere di Vallanzasca. La retorica delle vittime ha colpito ancora, duramente. I figli e le mogli dei poliziotti uccisi negli scontri a fuoco con la banda si sono indignati e hanno gridato alla ingiustizia. La pena non è stata congrua? Trentanove anni di carcere non sono sufficienti? Tutto questo artificioso affannarsi a intervistare i congiunti delle vittime – riunite in associazioni, lobbies del dolore – ha portato, nel frattempo, a silurare la distribuzione di un film, a danneggiare l’uscita di un libro, perchè non solo non si vuole che Renato Vallanzasca esca di galera ma si desidera che non si parli più di lui, nella più classica delle damnatio memoriae.

Non interessa la verità dei fatti, alla quale, come è noto, ci si avvicina valutando più di un punto di vista, semplicemente lo si vuole morto. Perché ha ucciso mio padre, mio fratello, mio figlio. Vendetta, non giustizia.

Un trattamento ben diverso va ai collaboratori di giustizia, ai cosiddetti “pentiti”. Alle vittime di questi si dà molto meno spazio, chissà perché. Eppure le vittime non mancano. Si pensi a gente come Michele Viscardi, terrorista e autore di una ventina di omicidi, di cui non si sente più parlare da tempo, chissà perché, e delle cui vittime mai si è sentita una intervista. Nuova identità, protezione, passaporto, soldi: a un assassino. Ma di questi personaggi non si parla, non si dà voce nemmeno alle loro vittime. In perfetta malaFede.

UNA PICCOLA NOTA

Su temi assai spinosi (il passato “italiano” che non si vuole far passare e la strumentalizzazione politica del dolore) debutta su codesto blog Mark Adin. Che sia il vero nome di un esule armeno o lo pseudonimo di un amante di Orson Welles… spero di riaverlo presto qui. (db)



Redazione
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4 commenti

  • Anch’io lo spero, e che sia presto.
    Condivido in toto il contenuto di questo post.
    Grazie, Daniele!

    clelia

  • Anche a me è piaciuto l’equilibrio di quest’articolo. Per quanto mi riguarda la “malafede” che Adin sottolinea è nient’altro che la precisa volontà di non far rimarginare la ferita in modo tale da poter usare questo passato come strumento efficacissimo per criminalizzare preventivamente il dissenso di sinistra del futuro. In pratica ogni anticapitalista e antifascista può essere considerato un potenziale terrorista. E’ un po’ l’uso strumentale che gli israeliani fanno dell’olocausto: chiunque difende i palestinesi è un antisemita, “come i nazisti di 70 anni fa”. Ma noi sappiamo che nessuno è più nazifascista di un convinto sionista…

  • condiviso l’intervento di Adin, mentre non ho capito l’associazione palestinesi-israeliani-nazisti-antisemiti-nazifasciti-sionisti di ginodicostanzo… però vabbè… non tutto si può capire.
    Shalom
    A

  • Mi spiego meglio. Dietro la mancanza di volontà politica nel metabolizzare gli anni di piombo c’è un uso strumentale di quelle ferite per criminalizzare il dissenso politico e sociale che si prepara, a mio avviso. Fin qui nulla di oscuro, credo, nella mia opinione. Poi ho fatto un parallelo con l’uso strumentale che gli israeliani fanno dell’olocausto, che non è una semplice e doverosa operazione sulla memoria. Esso, purtroppo, serve a giustificare non solo tutta una serie di atrocità commesse ai danni del popolo palestinese i cui territori sono invasi ed occupati militarmente, ma anche e soprattutto a tappare ogni voce di dissenso tacciandola di antisemitismo. Un giochetto abbastanza scoperto, del resto. La mia associazione riguardava l’uso strumentale di immani ferite del passato per giustificare nefandezze presenti e future. Anche i rom hanno subito un olocausto nei campi nazisti, eppure non ci facciamo scrupolo di cacciarli via da tutta Europa, pur non avendo essi massacrato e deportato decine di migliaia di palestinesi nella pulizia etnica della Palestina. Come si vede, è l’uso che si fa della storia che può nascondere intenzioni criminali, anche quando è una storia dimostrata ed accettata da tutti. Ciao

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