Mark Adin: Requiem per lo shopper

Il primo giorno del 2011 è andato in pensione un oggetto da maledire: la busta di polietilene, il cosiddetto “shopper”.

Trovo sul web che gli Italiani ne consumano 24 miliardi di pezzi all’anno, ma forse è una balla ambientalista. Infatti sullo stesso sito, GreenMe, altra sezione, diventano subito 20 miliardi. Quattro miliardi in meno, bazzecole. Sì ma caspita, fossero pure 10 miliardi sarebbe comunque follia. Dove andranno a finire, quanto ci vorrà perché le viscere dell’inferno se le riprendano in pancia? Quando finiremo di scorgerne lembi da ogni mucchio di spazzatura, su ogni ciglio di strada?

Leggo che molte di queste buste, radunate dalle correnti, galleggiano formando insieme ad altri detriti enormi occhi, roteanti per effetto dei flutti, in luoghi perduti degli oceani, silenziosi gorghi di indistruttibili sacchetti colorati. Occhi di mostro allampanati nella disperata agonia di chi non può morire.

Dibbì diceva se non sbaglio, in un vecchio articolo che mi ronza in testa, che erano un simbolo dei ’70. Vero, erano comode per chi andava in ospedale o per chi usciva di galera, usate per contenere indumenti e oggetti personali, recipienti la vita del vagabondo, le toilette del dimesso dal manicomio, il povero corredo del migrante. Non è forse, il familiare sacchetto, la versione moderna della bisaccia del pellegrino, del camminante?

Toh?! Le si rinviene in pancia a balene morte, stroncate dall’indistruttibilità di questi imprevisti boli alimentari. Ma ve lo immaginate il povero Achab, animaccia nera, come ci resta pensando che ad aver ragione di Moby Dick è stata non la sacralità del gesto di scagliare il rampone ma l’empietà di uno straccio di plastica, la miseria antimitica del rifiuto industriale?

Spunta dal becco di una tartaruga, è attorno al collo di un cormorano. Emerge al largo di uno splendido e incontaminato atollo corallino, dall’azzurrità del mare di Sardegna. E’ sulle nevi perenni, con grave scorno di Messner, è nella tana della marmotta nell’incontaminato parco naturale, abbandonata in riva al fiume, gettata nell’incantevole bosco. Negli anni, in una trentina d’anni, le buste di plastica hanno impestato i mari e le terre.

Con esse sono stati persino compiuti efferati omicidi, per soffocamento, sono state usate sciaguratamente in luogo di strumenti di tortura, al pari dei tratti di corda e dello stivaletto malese. Dannate loro. Una piaga d’Egitto propagata nell’oggi. Ora a questa piaga biblica si vuole dare lo stop, ha fatto il suo tempo, ha già fatto i suoi danni. Bene, bravi, era ora. Sollievo. Fino alla prossima maledizione generata dalla orgasmica creatività di un ricercatore scientifico.

La silloge alla fine di un ciclo la vedrei nel controverso suicidio, durante tangentopoli, di Gabriele Cagliari, manager dell’industria chimica italiana – industria creatrice della famigerata busta – il cui cadavere a S.Vittore viene rinvenuto nelle docce: ha il capo chiuso in un sacchetto di questi. Significativo, profetico, efficacissimo e pur drammatico contrappasso. Nemesi e corto circuito.

Trovo davvero brutto, incivile, a volte odioso, il vezzo di applaudire ai funerali, ma se il morto è lo “shopper” farei una eccezione. Applaudiamo pure alle esequie. Questa volta è permesso, questa volta ci sta. Requiescat in pace.

 

 

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