Mary e la politica

di Mary Madiga (traduzione di Maria G. Di Rienzo)

Ho cominciato a interessarmi di politica a 14 anni. Ero in terza media, allora, in un collegio gestito dal governo. Ogni volta che facevo visita al mio villaggio, dove subivamo l’ostracismo degli altri perché siamo cristiani, la gente mi puntava il dito addosso e diceva: «Ecco la ragazza intoccabile che vuole diventare una pundit» (una studiosa o un’esperta, soprattutto in temi religiosi).

A casa vedevo i miei genitori soffrire per guadagnare il cibo quotidiano e andavo a lavorare a giornata con loro. Fu allora che pensai: «Se sono grande abbastanza per lavorare, sono grande abbastanza per essere un’attivista politica». Diventai membro del partito pro-Dalit e cominciai a occuparmi delle questioni relative ai giovani, come le proteste degli studenti Dalit contro gli insegnanti che somministravano loro punizioni corporali per errori minori, o contro la polizia che molestava la gioventù Dalit senza ragione. Essere parte di queste proteste mi ha aiutata a trovare la mia voce.

A 17 anni ho incontrato un ragazzo non-Dalit e mi sono innamorata di lui. Due anni dopo eravamo sposati. E’ stato un momento d’orgoglio, per me: ero la prima ragazza Dalit che attraversava le barriere di casta e sposava qualcuno al di fuori della propria comunità. Mi sembrava di aver conquistato qualcosa. Tuttavia, l’orgoglio svanì nove mesi più tardi, quando mio marito abbandonò me e il nostro bimbo appena nato e fuggì a Mumbai. La sua famiglia era rimasta oltraggiata dallo scoprire che il figlio aveva sposato una “intoccabile” e gli chiese di scegliere fra loro e sua moglie. Lui scelse la sua famiglia. Poco dopo la sua fuga, i suoi parenti mi denunciarono, accusandomi di averlo costretto a sposarmi con l’intimidazione. Con un neonato di cui prendermi cura, nessuna entrata e il mio corpo ancora debole dopo il parto, fronteggiavo il momento più difficile della mia vita.

Durante questo periodo incontrai diversi membri del Gruppo Guerra del Popolo (un’organizzazione comunista militante e armata, come ne esistono parecchie in India) che mi offrirono il loro aiuto. Ma io rifiutai e andai invece alla stazione di polizia, denunciai mio marito per frode e chiesi gli alimenti. Mi rimisi in contatto con gli studenti che ora facevano parte di svariati movimenti sociali. Con il loro sostegno, fui in grado di vincere la causa contro i miei parenti acquisiti e ottenni gli alimenti. Infine, trovai lavoro presso un’organizzazione non governativa.

Oggi spesso mi si chiede perché ho detto di no al Gruppo Guerra del Popolo. E la mia risposta è: perché la democrazia è importante. Mi fossi unita a loro, avrebbero puntato i fucili contro i membri della famiglia di mio marito per far loro ritirare la denuncia e avrebbero costretto mio marito a tornare a vivere con me, ma questo sarebbe andato a beneficio, forse, di una sola persona e non della comunità intera.

Noi, i Dalit, stiamo lottando contro un sistema di esclusione economico e sociale che ha radici profonde ed è vecchio di secoli. Per cambiarlo, bisogna far sentire la propria voce dall’interno. Io non credo nei cambiamenti repentini, quelli che avvengono senza che la gente si sia parlata e si sia capita: non durano a lungo. La democrazia mi permette di parlare con le persone che mi stanno intorno e di cambiare il modo in cui pensiamo e percepiamo gli altri. Per questo motivo la democrazia non ha vere alternative, specialmente per me e per la mia gente.

Redazione
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