Melkam Amlak

di Gabriella Ghermandi

Certe volte la mattina mi sveglio e mi fanno male tutti i dolori. Mi rannicchio sotto le coperte e attendo. Nella speranza che si attenuino. Ma loro mi avvolgono come una guaina troppo stretta, troppo stretta. Che non si allenta.

Certe volte la mattina mi sveglio e mi va stretta tutta la stanza. Non c’è spazio per me in questa terra Tilian. Non c’è spazio se non per un urlo soffocato che solo io posso percepire.

Sottovoce mi metto a cantilenare «Aisosh nebsè bie aha, melkam wogegn allen», «Coraggio ti dico anima mia, abbiamo comunque un benevolo alleato». E’ così che acquieto la mia anima dolente. Lei smette l’urlo soffocato e si accocola accanto a me come un piccolo feto e io l’accarezzo con una mano. «Aisoch nebsè biè aha, melkam wogegn allen» continuo a cantare e lei si apre, quel tanto che basta per farsi raggiungere. Chiudo gli occhi e lascio le mie dita percorrere le sue forme. I polpastrelli passano veloci, la sfiorano come un soffio, vanno qua e là, attendendo di sentire la ruvidezza di quei segni, dove iniziano i sottili fili neri, il dedalo di tracce, la ragnatela asimmetrica. E’ la mia mappa, la mappa delle incrinature, residuo di vecchie fratture ricomposte malamente. Una mappa che somiglia ai segni su un piatto di porcellana bianca, andato in pezzi e risistemato da un apprendista restauratore.

 

Certe volte la mattina mi sveglio e so già che mi attende l’angoscia perchè ho smarrito il silenzio. Eppure un tempo l’avevo. Dove l’ho messo? Forse è finito sotto lo stridio dell’incrinatura più grande? E’ lei quella da cui si dipanano tutte le altre. La madre dei miei dolori. La prima frattura malamente ricomposta.

 

Mi sono rotta per la prima volta quel giorno della morte di papà.

 

Avevo 5 anni e papà mi aveva portato alla pasticceria Enrico a prendere una millefoglie con la crema. La mia pasta preferita. Avevo insistito tanto, ma tanto.

Lui mi aveva lasciato con i camerieri. Mi conoscevano tutti, mi chiamavano «Guncie», «guanciotte mie» per il mio viso pienotto. Stavo assaporando la mia pasta quando hanno iniziato a sparare per strada. La parete era di vetro e vidi tutto. C’erano dei militari con il kalashnikov che sparavano a papà. Il suo corpo ballava sostenuto in aria dalle raffiche di mitra. Ogni colpo faceva sorgere dal suo corpo un fiotto di sangue. Ballava e ballava con il sangue che usciva come l’acqua da un rubinetto. E io guardavo, al centro della pasticceria, attraverso la parete di vetro. E lui ballava al ritmo di quella musica assurda, a pochi passi da me.

I camerieri si erano buttati tutti per terra e io ero rimasta l’unica in piedi. In mezzo alla sala, con la pasta tra le mani e i miei quattro codini in testa legati con gli elastici con le palle grosse, che mi piacevano tanto. Ero rimasta in piedi e non capivo.

Qualcuno urlò «Guncie» e mi trascinò per terra. Caddi schiacciando la pasta, e la crema fuoriuscì dalla sfoglia come il sangue dal corpo di papà.

Non so quanto durò e quando smisero di sparare mi misi a piangere e non sapevo se piangere per la pasta spappolata sul pavimento o per papà. Ero così confusa che non capivo cosa faceva più male.

 

Papà è morto quel giorno, ma solo dopo alcuni anni seppi che era stato ammazzato perchè era uno dei capi del Fronte di liberazione eritreo. Lo seppi quando mamma ci disse che andavamo via da Addis Abeba, andavamo ad Asmara e lasciavamo gli Amhara che avevano sostenuto l’anima della mamma quando papà era morto. Gli Amhara che avevano pianto al suo fianco per quaranta giorni per diluire con le loro lacrime il suo dolore. Lasciavamo la nostra terra per andare in una che avrebbe dovuto essere ancora più nostra. Una cosa strana che non compresi bene. Io sapevo che non poteva esserci un’altra casa se non la nostra con il falso banano nel cortile e Haptamu, il mio amico, con tutta la sua famiglia di sorelle grandi che mi insegnavano le canzoni guraghe.

 

Siamo partiti comunque, anche se non volevo. Io e Haptamu abbiamo pianto sulla porta di casa e mentre mi allontanavo lui mi cantava le canzoni dei nostri giochi.


«E’ piccola – dicevano gli amici a mia madre e ai miei fratelli grandi – scorderà presto». Non mi sono scordata però dopo qualche anno di Eritrea sono tornata ad essere felice. E’ bella l’Eritrea: Asmara, il corso principale contornato da palme, con i giochi di luce dei raggi che filtrano tra le fronde, e Massawa, la perla del nostro mare. Bianca di pareti merlettate da antiche architetture arabe, case d’archi per creare correnti di vento, a rendere sopportabile il caldo e l’aria, densa come un solido che ostruisce la gola quando respiri. Keren con il girofiori, poi Nefasit, la ventosa, così è chiamata la città di mamma.
La prima volta che l’ho vista ho pensato fosse magica e abitata da spiriti. Solo gli spiriti potevano essere tanto leggeri da non fare precipitare a valle un paese appoggiato in bilico su un colle. Nefasit la bella, con le finestre di ogni casa rivolte verso la piana che porta a Massawa, al mare, con il vento che la batte regolando l’umore degli abitanti: gioioso, umido, forte di temporale arrabbiato… .


Quando siamo diventati indipendenti ormai l’Eritrea era diventata casa per me. Sono scesa anche io nel corso principale di Asmara a festeggiare i guerriglieri e mi sono commossa sentendo le nostre anziane ripetere battendosi il petto «Te haguisè», «mi sono felicitata» e baciare i guerriglieri come fossero figli dei loro ventri.

 

Non pensavo più alla mia prima frattura quando è arrivata la seconda.

Mamma è morta. Non so neppure perché. E’ morta è basta.

In ospedale mi ha serrato la mano, come per dirmi «Aisosh!» e poi l’ha lasciata andare e non c’era più.
Ci siamo stretti io e i miei fratelli. L’uno all’altro. Non c’erano i vicini Amhara come in Etiopia, a mantenere in piedi le nostre anime.
Dovevamo fare da soli. Lo diceva sempre mamma, come gli Amhara non c’è nessuno. Loro sanno condividere il dolore della gente e stanno con le famiglie dei morti per quaranta giorni. Da noi solo tre giorni e in un modo così diverso che ti fa restare il vuoto dentro.

Da quella seconda rottura ce n’è stata una terza, una quarta, una quinta fino a che la mia anima non è diventata una mappa di fratture malsistemate.


Poi c’è stata quella che mi ha fatto scappare e venire qui, in Italia.

Era un’alba del ’99 quando hanno cominciato ad arrivare camion di ragazzi, di famiglie, di bambini e anziani. Erano eritrei d’Etiopia, cacciati perchè tra i nostri due Paesi, due Paesi che un tempo erano stati uno e che la storia, Menelik e gli italiani, si erano divertiti a separare, tra i nostri due Paesi, figli della stessa madre, si preparava la guerra.

 

Sono partiti in tanti per quel servizio militare, che portava dritti al fronte dopo solo due mesi di addestramento. Anche quelli che erano arrivati dall’Etiopia ci andarono. Io credevo di restarne fuori ma poi in una retata di reclutamente sono finita in mezzo pure io, come un pesce che non ha alcun pregio per il palato, ma già che è finito nella rete tanto vale mangiarlo.

 

Dice la canzone: «i hedal I metal fikir inde sew, wustu mai melles ke mot biccianow», «l’amore viene e va, come le persone. Ciò che non torna è solo la vita, dentro, dopo la morte» e io non volevo finire in quel non ritorno, ma i nostri guerriglieri, quelli che avevano combattuto tanti anni per liberare il Paese, ci addestravano ricordandoci che eravamo tutti in debito con loro e con il nostro giovane Paese, ed era arrivato il momento di saldare il conto.

Due mesi di addestramento al campo di Sawa e sono finita in trincea. Un budello scavato nella terra, a poche centinaia di metri da un altro budello, con dentro i ragazzi etiopi. Poteva esserci qualcosa di più assurdo?

 

Quando sono arrivata era un periodo di tregua, a volte capitava. Qualche giorno senza spararsi, e in quelle pause di vita che si intrufola nel tessuto della morte succedeva una cosa incredibile: ci si scriveva, tra le due trincee. Eravamo tutti ragazzi, eravamo figli di fratelli, parenti, popolo con lo stesso nome. Era normale scriversi. «Da voi quanti ne sono morti? Da noi due e tre feriti gravi». «Come sta la vostra Helen, l’hanno portata in ospedale?». «Mia madre mi ha mandato un pacco con il Thini, vi mando la metà».

Poi quella cosa terribile. Un giorno un messaggio che recava una firma: Haptamu. Arrivò al tramonto, quando non c’era più tempo per rimandare un messaggio e chiedere «Haptamu chi? Sei forse il mio Haptamu?», era possibile che fosse lui? Oddio, stavamo uno contro l’altro e potevo correre il rischio di ammazzarlo o di farmi ammazzare da lui. Avrei voluto urlare le canzoni guraghe che non avevo mai scordato, per vedere se mi avrebbe risposto. Ma non potevo. Il buio era già avanzato.

 

Sono scappata quella stessa notte con davanti ai miei occhi i tratti di tutti i bambini della mia infanzia ad Addis Abeba. Non vi è peccato peggiore che ammazzarsi tra fratelli. Non lo aveva forse già detto Dio quando era morto Abele?

Sono scappata con altri quattro decisi come me a non commettere quel peccato. Abbiamo camminato per giorni, verso il mare, ci siamo uniti a una carovana di Afar e siamo giunti a Massawa, dove ci siamo nascosti, a Ushti Batszi, da una mia zia. Lei si è messa in contatto con le famiglie dei ragazzi e ha recuperato soldi, poi abbiamo preso una barca di pescatori e siamo finiti in Yemen, da lì un volo per Khartoum, a Khartoum un fuoristrada per la Libia… .

Come sono arrivata fin qui? A volte ho sentito i vostri vecchi raccontare del ritorno dalla Russia… Ecco, così sono arrivata fin qui, come loro, spinta dal desiderio di vivere che ha vinto su tutto. E’ stato quello più dei piedi, delle barche, dei gommoni, degli aerei che mi ha portato fin qui. Come fu un tempo per i vostri vecchi.

 

Certe volte la mattina mi sveglio e non apro gli occhi. Cosa li apro a fare? che tanto non ho ancora incontrato nessuno del vostro Paese disposto a guardarvi dentro e scoprire la mappa delle mie incrinature.

Mi sono anche fatta fare le trecce, sottili sottili come i fili neri della mia mappa. A volte scuoto la testa sperando che le trecce si dispongano nell’aria ricreando la mappa. Magari qualcuno si incuriosisce. Per ora non è ancora successo. Continuano tutti a vedermi attraverso i loro pensieri già costituiti. La signora a cui bado la madre, mentre rigiro sua madre nel letto mi dice ridendo «Certo che voi qui avete trovato l’albero della cuccagna», io sorrido e non rispondo. Poi esco dal lavoro e qualche uomo mi chiede quanto voglio, maschi in macchina, in compagnia di donne, mi sfanalano, donne anziane di ritorno dalla spesa si stringono la borsetta, e le persone che vogliono essere gentili mi chiedono come si vive da donna musulmana. Non conta che io porti una visibile croce al collo.

E mi ritrovo senza parole, e non so perchè ma mi viene da ripetere «Ecco l’albero della cuccagna!».

 

Certe volte la mattina mi sveglio e mi viene da ridere. Mi succede in queste ultime mattine perchè presto arriverà il Natale. Qualcuno mi ha detto che il Natale è in realtà una festa pagana che festeggia il ritorno della luce nella notte più lunga dell’anno. E io rido, magari la luce torna anche per me.

Ma poi mi viene una grande tristezza. Vivo il Natale in questa terra dove la gente ne ha smarrito il senso. Urlano tutti «Siamo cristiani» ma Cristo lo hanno ripudiato già da tempo, e a me non resta che una unica consolazione, cantare la mia vecchia canzone

«Se una curva si trasforma in un crepaccio, se una disgrazia improvvisa mi getta nella disperazione, se mi ritrovo assetata e senz’acqua, se coloro che mi hanno generato non ci sono più, se arriva un buio che non arretra ti dico “Coraggio anima mia, ci resta comunque un benevolo alleato. Ci resta comunque Melkam Amlak”».

BREVE NOTA

Questo racconto di Gabriella Ghermandi è stata pubblicato nel 2008 sul quotidiano «il manifesto». Non mi stanco di dire che il suo «Regina di perle e di fiori» (ne ho parlato qui in blog un paio di volte) è uno dei romanzi più belli degli ultimi anni ma ripeto anche l’invito ad ascoltarla dal vivo con il suo intreccio di voce e canto, le storie che si aggrovigliano per poi sciogliersi a riempire il cielo, le teste, i cuori. (db)

 

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