Messico: accordo capestro con gli Stati uniti

Trump ha utilizzato i negoziati commerciali come merce di scambio per risolvere la questione migratoria. Amlo ha accettato le condizioni trasformando il suo Paese nel cortile di casa degli Usa.

di David Lifodi (*)

“Ti metto a scelta: o riduci fortemente il flusso migratorio dall’America centrale e latina verso gli Stati uniti oppure applicherò delle pesanti sanzioni doganali”. Deve essere stato più o meno così che Donald Trump, con il suo stile tradizionalmente diretto, ha minacciato Andrés Manuel López Obrador, il presidente messicano, nel confronto della scorsa settimana, da molti definito come una autentica catastrofe diplomatica, economica e politica per Los Pinos. Astutamente, Trump ha utilizzato l’arma del ricatto per mettere all’angolo il suo omonimo messicano, trasformando la questione migratoria come conditio sine qua non per venire incontro (e nemmeno poi così tanto) al paese vicino in ambito economico.

Obrador, almeno a parole molto sensibile al dramma della migrazione, non poteva mettere a rischio la stabilità economica del paese e, come il più sottomesso dei vassalli, si è dovuto arrendere di fronte alla prepotenza degli Stati uniti. Tuttavia, in molti si aspettavano che Amlo avesse almeno provato a combattere, ma invece ha ceduto subito e in maniera fin troppo arrendevole. La peraltro già contestata Guardia nazionale, creata dal governo messicano ufficialmente per combattere la delinquenza e il crimine organizzato, avrà come funzione principale, con circa seimila uomini, quella di impedire il passaggio dei migranti dal Messico agli Stati uniti.

Se è vero che il pragmatismo di López Obrador finora ha permesso al Messico di barcamenarsi e che sei mesi di presidenza sono davvero pochi per giudicare Amlo, risulta difficile da digerire la descrizione dell’incontro con Trump propagandata da Los Pinos, secondo la quale l’accordo sarebbe da considerare una difesa del paese nel contesto della tutela dei confini rispetto al crescente arrivo dei migranti centroamericani. Lo stesso appello del presidente all’unità nazionale lascia quantomeno perplessi, soprattutto se pensiamo a quella classe imprenditoriale che ha plaudito all’accordo (o forse sarebbe meglio chiamarla imposizione) a seguito del quale Obrador è stato obbligato a chinare la testa di fronte a Trump.

Di certo, non beneficeranno dell’apertura delle frontiere messicane ai prodotti statunitensi le migliaia di lavoratori delle campagne sfruttati e sottopagati. Inoltre, se il Messico non porterà dei progressi concreti nel respingimento dei migranti, trasformandosi una volta di più nel gendarme degli Stati uniti, dopo 45 giorni gli Usa potrebbero applicare nei confronti del paese confinante delle misure punitive, soprattutto in tema di dazi doganali. Purtroppo, lo sporco ricatto di Trump verso Andrés Manuel López Obrador si è concretizzato nonostante le dichiarazioni amichevoli di Amlo di fronte alle costanti provocazioni e spacconate della Casa Bianca. Le mani tese del Messico verso gli Stati uniti e la solida amicizia tra i due paesi, come amava ripetere Obrador, sono state spazzate via da Washington con il beneplacito del capitalismo messicano, del panismo e del priismo, anche se l’ultimo suo presidente, Enrique Peña Nieto, è stato più volte preso a calci, metaforicamente parlando, dallo stesso Trump.

L’unico “risultato” ottenuto da Amlo, peraltro condizionato dal suo effettivo contrasto dei migranti, ha riguardato la sospensione della tassa del 5% sulle esportazioni messicane verso gli Stati uniti. Per il resto, chi si aspettava una chiamata alla mobilitazione di Obrador contro l’accordo capestro che trasforma il Messico in una sorta di colonia degli Usa, è rimasto deluso. Contemporaneamente, Trump ha ottenuto ciò che voleva: aver mutato il Messico nel proprio cortile di casa. In pratica, il presidente statunitense si è impadronito sia del Messico, militarizzando la frontiera con gli Stati uniti all’insegna del motto America first, sia dei confini tra Guatemala e Messico, in modo tale da creare una doppia barriera per i migranti in transito. Jimmy Morales, presidente ormai uscente del Guatemala (si voterà il 16 giugno), ha acconsentito infatti alla presenza di militari Usa alla frontiera tra il suo paese e il Messico.

Utilizzando i negoziati commerciali come merce di scambio per risolvere la questione migratoria, Trump ha obbligato Amlo ad accettare le sue condizioni, sapendo di poter far leva sulle difficoltà dell’economia messicana, sul crescente indebitamento dell’impresa petrolifera statale Pemex e su quella insicurezza che finora il presidente messicano non è riuscito ad arginare. In pratica, Trump ha avuto buon gioco nell’approfittare delle difficoltà e delle contraddizioni della politica obradorista. L’arrendevolezza di Amlo costerà molto cara ai migranti, ai lavoratori messicani e a tutta quella popolazione che si trova in una situazione di miseria, oppressione e violenza che va dal Triángulo Norte fino agli Stati uniti.

La minaccia dei dazi doganali è servita a Trump per erigere, a costo zero e senza sparare un colpo, un muro militare al confine tra i due paesi e, al tempo stesso, ha dato una lezione ad un Messico che, dall’avvento di Obrador, si era avvicinato, seppur timidamente al Venezuela. È per queste motivazioni che l’accordo tra Trump e Amlo non può essere definito in altro modo se non disastroso.

(*) articolo tratto da Peacelink – 13 giugno 2019

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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