Messico: minacce e discriminazioni contro le giornaliste

di David Lifodin-a8-eu060816-5_drupal-main-image-var_1470459875

In Messico gli episodi di violenza nei confronti delle giornaliste sono cresciuti del 70% nel biennio 2014-2015: è questo il dato più allarmante del recente rapporto divulgato dal Centro Cimac (Comunicación e información de la Mujer), a cui hanno lavorato alcune tra le periodistas più coraggiose del paese, tra cui Lydia Cacho, Gloria Muñoz Ramírez, Maite Azuela, Lucía Lagunes e Fabiola González.

Il lavoro del Cimac testimonia almeno 147 attacchi alla libertà d’espressione contro giornaliste donne ed è inquietante il fatto che il documento non prenda in considerazione il 2016 e i primi due mesi del 2017, in cui la situazione potrebbe essere ulteriormente peggiorata, visto il contesto messicano caratterizzato da violenze di ogni tipo. Inoltre, il numero di aggressioni è sensibilmente cresciuto rispetto al biennio 2012-2013, quando erano stati registrati 61 casi. Gli stati più pericolosi per le giornaliste sono quelli di Veracruz, Mexico e Guerrero. Ancora qualche dato. Il 70% delle giornaliste aggredite si occupava di temi politici al momento dell’aggressione, il 21,7% copriva notizie legate alle proteste per la violazione dei diritti umani e l’8,1% lavorava sugli aspetti legati alla sicurezza. Il Cimac segnala anche i frequenti (e assai facili) licenziamenti per le giornaliste impegnate in inchieste scomode e l’obbligo, per le periodistas, di tenere un basso profilo per evitare di perdere il posto di lavoro. “La sistematica discriminazione contro le giornaliste è quella che si riflette nella società messicana”, spiega Lydia Cacho, la quale aggiunge che se una posizione o un’opinione politica vengono espresse da un giornalista uomo è suo pieno diritto farlo, ma se lo stesso comportamento lo tiene una donna viene subito definita come attivista e non più come giornalista. Direttrice della testata on line di controinformazione Desinformémonos, editorialista del quotidiano La Jornada e autrice di numerosi libri dedicati allo zapatismo, Gloria Muñoz Ramírez sottolinea che mai come adesso le giornaliste sono vulnerabili, nemmeno negli anni della guerra condotta dall’esercito e dallo Stato messicano contro l’Ezln la situazione era così grave. Gloria Muñoz Ramírez condivide con Lydia Cacho e Maite Azuela, analista politica del sito di informazione on line SinEmbargo, le minacce dovute al suo lavoro. Quest’ultima racconta che per lei ha cominciato a tirare una brutta aria da quando, nel 2014, si occupò del caso di Francisco Kuykendall, un manifestante ucciso dalle forze armate messicane in occasione delle proteste di piazza avvenute contro l’insediamento di Enrique Peña Nieto alla presidenza del paese. Fu a seguito dei suoi articoli di denuncia che la polizia fece più volte irruzione nella sua casa finché decise, a malincuore, di abbandonare il caso pensando alla sua famiglia, ai suoi genitori e a sua figlia.

Cimac ha lavorato in questi anni per creare una rete di donne giornaliste in grado di offrire aiuto e salvare vite, soprattutto nei casi in cui le giornaliste si trovino in una situazione difficile e, al tempo stesso, ha cercato di sostenere il giornalismo con una prospettiva di genere e le analisi di approfondimento delle disuguaglianze. Sempre il Cimac ha incoraggiato una nuova generazione di giornaliste sotto ai 30 anni che finora non si è fatta piegare dal machismo imperante anche nelle redazioni dei giornali, come è accaduto a Lydia Cacho che, il 29 settembre 2014, scrisse il suo ultimo articolo per il quotidiano El Universal sui traffici di droga degli Zetas (il più importante e spietato gruppo di narcos del Messico) nello stato di Quintana Roo con la complicità di alti vertici dello Stato, alludendo anche alla compravendita dei voti di Peña Nieto per diventare presidente. In quella occasione, Lydia Cacho fece capire che aveva subito forti pressioni, fino alla censura, dalla direzione del giornale, e salutò i lettori nel suo ultimo articolo, significativamente intitolato El sureste peligroso. In precedenza, un altro articolo di Lydia Cacho sempre su El Universal, che smascherava i traffici del governatore del Quintana Roo Roberto Borge, aveva provocato la furiosa quanto minacciosa reazione dell’uomo politico che, dal suo account twitter, si era rivolto alla giornalista sostenendo che “avere una pena in mano non dà diritto alla critica”. Premesso che il Messico, in generale, è uno dei paesi più pericolosi al mondo per coloro che intendono svolgere il lavoro di giornalisti in maniera indipendente e libera da condizionamenti, Cimac evidenzia come gli attestati di solidarietà per i giornalisti uomini in situazioni di difficoltà non si fanno attendere, mentre lo stesso non accade per le donne.

Ciò che manca, nel giornalismo messicano (e non solo) è una prospettiva di genere e l’aumento dei casi di aggressione contro le giornaliste, ma anche la connivenza tra gli editori dei quotidiani e i poteri forti del paese, fanno capire ancora una volta che il Messico non è un paese per donne, ancor meno se si tratta di giornaliste.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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