Messico: non è un paese per donne

di David Lifodi

Nonostante le alertas de género siano derivate dai femminicidi di Ciudad Juárez come modalità per mettere in guardia le donne, i casi di violenza sono tutt’altro che diminuiti. In Messico avvengono circa 120 mila violenze sessuali all’anno, il 65% delle quali sono commesse nei confronti di ragazze tra i 10 e i 20 anni, ma non si salvano nemmeno le bambine inferiori ai dieci anni di età. Gran parte delle violenze avviene nello stesso contesto sociale e familiare delle vittime, ma soprattutto, quasi il 40% delle donne messicane dichiara di essere stata vittima di una qualche forma di violenza almeno una volta nel corso della propria vita.

Pochi mesi fa l’Observatorio Nacional Ciudadano ha scritto a Miguel Ángel Osorio, Secretario de Gobernación ed uomo vicinissimo al presidente Peña Nieto, rimproverandolo per una sua dichiarazione in cui sosteneva che i femminicidi erano scesi del 25%. In Messico, dal 2007, esiste la Ley general de Acceso de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia, ma solo 20 dei 32 stati della federazione l’hanno ratificata, senza però porre in essere le misure necessarie per farla rispettare. Inoltre, a preoccupare l’Observatorio Nacional Ciudadano, è la mentalità diffusa nel paese secondo la quale le donne che subiscono violenza sono responsabili in prima persona per averla provocata. Un episodio che ha suscitato grande scalpore nel paese è avvenuto lo scorso 8 marzo. Proprio nel giorno internazionale della donna, aspetto non casuale, la giornalista statunitense Andrea Noel è stata vittima di violenza sessuale nel quartiere Condesa di Città del Messico, uno dei più cosmopoliti della capitale. Sui social la donna ha ottenuto più insulti che solidarietà e dopo circa un mese ha deciso di fare ritorno al suo paese mentre l’uomo responsabile della violenza non è stato nemmeno indagato. Episodi come questo in Messico rappresentano la normalità, e le intimidazioni e i maltrattamenti compiuti dagli uomini raramente vengono indagati dalle autorità. Un altro caso significativo, accaduto all’inizio del 2016, ha coinvolto Daphne Fernández, una diciassettenne violentata da quattro giovani nello stato di Veracruz. Dalle indagini è emerso che la banda dei quattro, autodenominatasi “Los Porkys”, era composta da Enrique Capitaine Marín, figlio di un ex sindaco che aveva militato sia nel Pri (Partido Revolucionario Institucional) sia nel Pan (Partido de Acción Nacional), mentre l’altro, Gerardo Rodríguez, apparteneva ad una famiglia fortemente legata allo stesso Partido Revolucionario Institucional di Veracruz. Gli altri due componenti della banda, Jorge Cotaita Cabrales e Diego Cruz Alonso, in un video dichiararono il loro pentimento, ma la giustizia non si è mai adoperata per condannarli. Sta di fatto che adesso Capitaine Marín si trova a Houston e Diego Cruz Alonso a Bilbao, cioè a migliaia di chilometri dai tribunali messicani. Il padre di Capitaine Marín ha dichiarato più volte che il figlio tornerà solo in base alle “circostanze” (una modalità furba per dichiarare, tra le righe, che prenderà un aereo per il Messico solo se avrà la certezza di non essere arrestato), mentre in Spagna, a Madrid, si è svolta una manifestazione contro la presenza nel paese di Diego Cruz Alonso, salutato con l’eloquente striscione “puedes huir, pero no te puedes esconder”. Tuttavia, nonostante le manifestazioni all’insegna dello slogan #vivasnosqueremos contro il machismo, la violenza di genere e la complicità della giustizia con i “figli del potere”, come avvenuto nel caso dei “Los Porkys”, le violenze sessuali sono tutt’altro che diminuite. Un rapporto di Amnesty International ha evidenziato come la violenza sessuale sia utilizzata come pratica di tortura nelle carceri per estorcere confessioni e dimostrare l’efficacia delle attività di contrasto nei confronti del crimine organizzato. Ritenute dalle autorità un bersaglio facile da incarcerare al posto dei veri boss del narcotraffico, le donne incontrate da Amnesty International hanno denunciato di essere state picchiate, colpite da scariche elettriche e molestate sia durante la loro permanenza in carcere sia durante gli interrogatori. “Nella stragrande maggioranza dei casi”, denuncia Amnesty, “ queste donne sono accusate di far parte del crimine organizzato o di reati di droga. Molte sono presentate alla stampa come <<criminali>> subito dopo che erano state costrette a <<confessare>>. Si tratta quasi sempre di persone dal reddito assai basso, che difficilmente possono permettersi un’adeguata assistenza legale”. La dichiarazione provocatoria di Miguel Ángel Osorio, che si è intestardito nel sostenere che in Messico i casi di femminicidio sono diminuiti, rappresenta l’estremo tentativo di far cadere nel silenzio le migliaia di denunce per casi di violenza e maltrattamento. Lo stesso esercito messicano, in una nota, ha tenuto a far sapere che tra il 2010 e il 2015 nessun soldato era stato sospeso per casi di stupro o violenza sessuale tra il 2010 e il 2015.

E allora come mai, viene da chiederci, l’Onu ha definito la violenza di genere in Messico come una pandemia?

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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