«Metti l’aquila a dormire» di Marge Piercy
di Giuliano Spagnul – Libri da recuperare: 25esima puntata (*)
Marge Piercy ha conosciuto la notorietà con Cybergolem, edito da Eleuthera che ha pubblicato anche Sul filo del tempo (entrambi fuori catalogo e al momento – sembra – lontani da una possibile ristampa). Solamente altri due suoi romanzi sono stati tradotti in italiano e anche questi mai più ristampati: I giorni dell’odio da Sperling & Kupfer e Metti l’aquila a dormire da Garzanti. Quest’ultimo è uscito nell’edizione originale nel 1970 ed è stato tradotto da Attilio Veraldi e pubblicato nel 1972, giusto cinquant’anni fa nell’America che vedeva l’esaurirsi della sua grande rivolta giovanile e nell’Italia che si apriva invece al secondo decennio di lotte sociali (dopo quello degli anni Sessanta culminato nel ’68) con «uno sforzo enorme per elaborare una concezione alternativa della modernità, una concezione che si opponeva in profondità al modello del capitalismo consumista del dopoguerra e in definitiva dell’intrinseca e formidabile efficienza del modello gerarchico fordista-taylorista». (1)
Il romanzo, anche se ambientato in un prossimo futuro, non può essere classificato nel genere fantascientifico come invece nelle poche scarne recensioni accade. È la storia di un’ipotetica rivolta giovanile portata alle sue più estreme conseguenze. Questo grande sogno collettivo di mettere a dormire la grande aquila coi bicipiti “americana” si scontrerà infine con la dura realtà della disparità delle armi in campo e il conseguente bagno di sangue di un’intera generazione ribelle. Qui le due anime, quella controculturale e quella politica, si ritroveranno in un infausto destino comune, condannati insieme per aver tentato l’impossibile “assalto al sole”. I primi cercando uno spazio liberato, fuori dal sistema, nella vana speranza di essere ignorati; i secondi lasciandosi inebriare dalle loro stesse parole d’ordine, giocando «con le parole e i simboli, convinti che in qualche modo questi ultimi si sarebbero trasformati magicamente, al momento del bisogno, in potere reale».
Anche per chi non conoscesse bene la storia dell’America alternativa di quegli anni quest’opera ha il grande pregio di parlare a tutte quelle esperienze similari di tutti i Paesi del mondo e, ancor più, forse, proprio al nostro. Data la durata eccezionale del sogno della rivoluzione che ha vissuto l’Italia – probabilmente per la coincidenza di un ritardato sviluppo industriale – i temi, gli eventi e i drammi descritti in modo così esasperato si rinfrangono come attraverso un caleidoscopio nei nostri vissuti singoli e collettivi di allora.
Difficile non ritrovarsi in quel sentirsi tribù: «noi siamo in qualcosa che è al di fuori di tutto questo. Al di fuori della coppia. Al di fuori del nucleo familiare che funziona tanto bene come fonte di nevrosi. Al di fuori dei boy scout e dei circoli e dei partiti e dei sindacati. Noi siamo una tribù». E viene quasi da sorridere (mestamente) quando vediamo citato di seguito McLuhan che dice «siamo tutti tribali. Forse perché ci mangiamo a vicenda», pensando a quanto, negli anni successivi – quelli della restaurazione e ristrutturazione del potere – il cannibalismo nell’immaginario sia diventato lo stigma dell’inumano assoluto, nemico letale di quell’unico nucleo protettivo dell’umano che è la famiglia.
Sembrano passati secoli da quell’ibrido esplosivo di sogni, desideri e rabbia, tanto appaiono estranei all’oggi quell’insieme di aspettative a un mondo diverso che, in un modo o nell’altro, sembrava potesse compiersi. Ma a differenza di tutte quelle esperienze di rivolta del passato, impregnate del religioso, come quelle contadine – ma anche quelle servili della Roma antica (2) – e perfino quella ateistica bolscevica che nascondeva un substrato profondamente teologico, qui si palesa una rivolta i cui tratti, pur non scevri del tutto dalla dimensione del trascendente, riescono a mettere in causa il proprio vivere e sentirsi rivoluzionari indipendentemente dal doverlo essere come motivazione che si autogiustifica da sé come causa, appunto, trascendente. Abbiamo quindi la consapevolezza che essersi allontanati dal sistema non voleva dire essere estranei alle «cose affascinanti che la società aveva sempre usato per plasmarli» e quindi che «non stavano creando una loro cultura. Erano ancora inseriti nello spettacolo. Non erano liberi. Non erano indiani». E nessun orizzonte rivoluzionario avrebbe potuto farli diventare realmente “indiani” – nel senso dei nativi americani – con una cultura altra.
È l’emergere di una nuova coscienza, un (per quanto labile) affiorare di germi nuovi e fecondi in mezzo al deposito della storia dei secoli passati, di una storia che ha fatto il suo corso ed esaurito le sue motivazioni. Una nuova coscienza che intuiva – forse non per la prima volta ma certamente con una nuova forza – la possibilità di fare una storia nuova non partendo da quella vecchia ma usando quelli che un tempo sono stati considerati errori o deviazioni ma che alla luce dei nuovi tempi rivelano potenzialità inaspettate. Perché imparare «a immaginare come doveva essere la condizione dell’umano in una società dove la gente aspirava al bene comune invece che al privilegio dei pochi» è molto più difficile che immaginare come abbattere un tale sistema. Perché il potere ha il vizio letale di richiedere «una vittima per manifestarsi. Il potere implica un soggetto e un oggetto» e «ogni volta che l’equilibrio del potere era instabile c’era uno che guidava e uno che veniva guidato». E allora l’obbedienza, anche rivoluzionaria, rivela sempre una delle tante facce del potere. Averne coscienza è già un passo in avanti.
Uno dei principali problemi in cui ci si trova nel recensire un libro come questo, così ricco di problematiche tanto determinati anche per l’oggi, sta nella capacità di fermarsi e rinunciare a evidenziarle tutte. Questioni come quelle sulla violenza come «proprietà dello Stato» che serve il «meccanismo per il quale coloro che posseggono tutto ci costringono a obbedirgli» e che può essere affrontato solo nei termini di un divenire umani attraverso la riconquista della volontà che si aveva – volontariamente o meno – ceduto, ad esempio. O quello del giudizio, del potere giudicante che pervade tutti, forse perché «la società li aveva talmente abituati a pensare in termini di biasimo e punizione e a usare il potere per reprimere, da essersi tirati dietro questa tendenza» anche nelle nuove pratiche che si volevano alternative e rivoluzionarie.
Ma adesso occorre fermarsi e aspettare che qualche editore possa e voglia riproporci questo terribile e splendido testo e – chissà, se mai accadrà – qualche altro dei numerosi inediti in Italia di questa grande, da noi troppo trascurata, autrice ribelle.
Nota 1: Primo Moroni, prefazione alla nuova edizione di L’orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni, Feltrinelli, Milano, 1997, pag 6.
Nota 2: https://www.labottegadelbarbieri.org/protesta-e-integrazione-nella-roma-antica/
(*) L’idea di questa rubrica è di Giuliano Spagnul: «… una serie di recensioni per spingere alla ristampa (o verso una nuova casa editrice) di libri fuori catalogo, preziosi, da recuperare». Ecco l’elenco:
1 – Gunther Anders: «Essere o non essere» (2 aprile) di Giuliano Spagnul
2 – L’epica latina: Daniel Chavarrì a (14 aprile) di Pierluigi Pedretti
3 – «Poema pedagogico» di Anton Makarenko (30 aprile) di Raffaele Mantegazza
4 – «Il signore della fattoria» di Tristan Egolf (12 maggio) di Francesco Masala
5- «Chiese e rivoluzione in America latina» (26 maggio) di David Lifodi
6 – «Teatro come differenza» di Antonio Attisani (9 giugno) ancora di Giuliano Spagnul
7 – «Dizionario della paura» di Marcello Venturoli e Ruggero Zangrandi (23 giugno) di Giorgio Ferrari
8 – «Arrivano i nostri» di Dario Paccino (il 7 luglio) di Giorgio Stern
9 – «Un debole per quasi tutto» di Aldo Buzzi (21 luglio) di Pierluigi Pedretti
10 – «Protesta e integrazione nella Roma antica» (4 agosto) di Giuliano Spagnul
11 – Athos Lisa: «Memorie» (18 agosto) di Gian Marco Martignoni
12 – «Le donne del millennio»: un’antologia con… (1 settembre) di Giulia Abbate
13 – «Gli antichi Greci» di Moses Finley (15 settembre) di Lella De Marco
14 – «La vita è sovversiva» di Ernesto Cardenal (29 settembre) di David Lifodi
15 – «Il cammino dell’umanità» di Angelo Brelich (13 ottobre) di Giuliano Spagnul
16 – «325mila franchi» di Roger Vailland (27 ottobre) di db
17 – «La favolosa Hollywood» di Otto Friedrich (10 novembre) ancora di Spagnul
18 – «Coscienze di mulini a vento» di Flavio Almerighi (24 novembre) di Lucia Triolo
19 – Charles Bettelheim: «Le lotte di classe in Urss» (8 dicembre) di Mauro Antonio Miglieruolo
20 – «Le note, vol. 2» di Ludwig Hohl (22 dicembre) di Francesco Masala
21- «Plotone di esecuzione» di Enzo Forcella e Alberto Monticone (5 gennaio) di Daniele Barbieri
22- «I giorni» di Taha Hussein, con un occhio ad… (19 gennaio) di Karim Metref
23 –«America latina: l’arretramento de los de arriba» (2 febbraio) di David Lifodi
24 – «Sardigna ruja» (e non solo) di Gianfranco Pintore (16 febbraio) di Francesco Masala
Questo post mi ha talmente attirato che ho appena acquistato il libro usato su eBay… Anche perché di recente ho letto “City of darkness, city of light” di Marge Piercy, mai tradotto in italiano: il più bel romanzo che abbia mai letto sulla rivoluzione francese.
Probabilmente necessiterebbe di una nuova traduzione…