Mia città, tu che arresti i poeti – di Mark Adin

Telegramma alla amata Sibilla: “Arrestato a Novara vieni a vedermi”. E’ l’undici settembre millenovecentodiciassette. (Dino Campana, “Opere e contributi”, vol. II, Vallecchi)

Il grandissimo del secolo scorso, poeta d’impeto, precursore dei beat, alfiere barbaro e fervente sacerdote della lingua più sonora, fermato e rinchiuso perché privo di documenti. Sans papier. Imprigionato perché di identità incerta. Clandestino.

Fare violenza a un poeta è un esercizio di autentica inciviltà e di suprema vigliaccheria, perchè il poeta è fragile e disarmato per definizione, e la poesia è amore.

Harper Lee, ne “Il buio oltre la siepe”, avrebbe detto “to kill a mockingbird”, sparare a un usignolo.

Eppure Dino regala versi, nella sua “La dolce Lombardia coi suoi giardini”, a questa cittadina e alla sua cupola distintiva: Ma la Torre di S.Gaudenzio /Instaura un  panteon aereo/ Di archi dorici di marmo. Una città che ha un rapporto tanto difficile con i poeti forse non meritava un simile omaggio.

Dante, nella “Commedia”  (Inferno canto XXVIII, vv 54-60), fissa per sempre il Novarese nella memoria collettiva quale persecutore dell’eretico Fra Dolcino, e se ne augura la sconfitta nel verso non rechi la vittoria al Noarese.  L’eresiarca verrà torturato e messo al rogo insieme alla compagna Margherita , il suo piccolo esercito battuto e disperso. E’ proprio il braccare la coppia di amanti che aggiunge buio alla vicenda, che le attribuisce una sfumatura ancor più sinistra. Si racconta che lei fosse particolarmente bella e incarnasse, nella percezione popolare, la libertà sessuale. Imperdonabile. Allo sventurato amante fu strappato con tenaglie roventi  il membro virile: celebrato in modo cruento l’eterno sadismo degli impotenti.

Carducci la nomina, nella sua “Piemonte”,  legandola alla bruma, dunque all’umidità e alla nebbia, e alla abdicazione di Carlo Alberto in seguito alla battaglia dalla quale esce sconfitto. Un ancoraggio sfigato quello con la disfatta, per la brumal Novara. E dall’umidità alla muffa il passo è breve.

Infatti Ernesto Ragazzoni, poeta minore – ma non per questo mi è meno caro – bolla il mio suolo natìo come la città della muffa e viene per ciò licenziato in tronco dalla proprietà del giornale. Era direttore della Gazzetta di Novara e, nel suo editoriale dal medesimo titolo, febbraio millenovecentouno,  aveva così stigmatizzato il comportamento della buona società locale: E’ il regno della burocrazia, l’acqua morta degli uffici, il mondo degli impiegati; tutta la malsana esalazione che vien su da quel sistema di apparecchi amministrativi i quali non sembrano avere altro scopo che quello……di volgere in muffa…  La sanzione è immediata.

Tra i contemporanei, Peter Handke – nella raccolta “Il mondo interno dell’esterno dell’interno” (Feltrinelli 1980), nella sua non esattamente memorabile poesia di tipo elencativo  “Le parole irritanti”, come suggerisce il titolo, inventaria una litania di termini a lui antipatici, fissando spietatamente l’ultimo della serie molesta, il più conclusivo in: Novara. (pag.87)

E che dire di Guido Ceronetti, dal multiforme ingegno, letterato e poeta, che cita in modo inequivocabile, nel suo “La pazienza dell’arrostito”, (Adelphi 1990, pag.97) l’aria che tira: lo stomaco ringrazia per non essersi riempito di materia triste in una città così perversamente tetra.

Non c’è proprio feeling con i poeti. La ridente cittadina ai piedi del Monte Rosa non sembra adatta a loro. Colpisce l’attualità di quel vecchio articolo della Gazzetta di Novara; Ernesto Ragazzoni, al quale è stata intitolata la bellissima piazzetta di Orta S.Giulio, lo chiude così: questa mediocrità, vera muffa sociale, protetta dalla sua stessa bassezza, vegeta, trionfa, si distende ed il lezzo del suo respiro ammorba, avvelena ogni attività ed ogni vita, senza riparo, irremissibilmente.

Dolorosamente, a distanza di un secolo, mi associo.

Eppure non riesco a non amare i sassi incolpevoli, i vicoli, i tetti di coppi, le vecchie case stanche del centro storico, pur con le ristrutturazioni volgari e le pretenziose pulsantiere di ottone che riportano nomenclature ordinarie. Amo le sue dolenti periferie e i protervi schiamazzi, i binari del treno, gli ultimi circoli operai. Vedo, senza pretenderne ragione, le trasformazioni ineluttabili, i cambi di passo, l’avvento dei gabbiani che galleggiano sui canali, le nutrie in risaia, il proliferare dei ratti e degli affaristi. Non importa. Accetto l’inimicizia e l’ingratitudine, l’inospitalità e la miserabile spocchia, la trivialità e il parassitismo della sua borghesia retriva,  l’invidia dei tristi, persino l’impermeabilità alla poesia e alla bellezza. In fondo, ogni figlio riconosce la madre, anche fosse una turpe assassina, un cervo volante o una cagna, e non può fare altro, suo malgrado, che amarla.

Mark Adin

 

 

 

 

 

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Un commento

  • il detto: “ogni scarrafone è bello a mamma sua” diventa così reversibile. Novara non è poi così repellente. Sarà che ci sono nato…

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