«Miden» di Veronica Raimo

Distopia? Un esame delle relazioni d’amore? Una storia contro «il realismo inadeguato»? Le domande di Bianca Menichelli

Abbigliato gaiamente,

un leggiadro cavaliere,

con la luce e con le ombre,

da gran tempo ormai viaggiava

e cantava una canzone,

per cercare l’Eldorado.

 

Ma successe che invecchiava,

un tal prode cavaliere,

e sul cuore un’ombra scese

perché egli non trovava

nessun luogo della terra

ch’era come l’Eldorado.

 

E così quando alla fine

gli mancarono le forze

in un’ombra pellegrina

s’imbatté e le chiese: «Ombra

dove mai si può trovare

questa terra d’Eldorado?»

 

«Laggiù oltre le montagne

della luna, sù cavalca

per la valle delle ombre,

oh mio prode, sù cavalca»

Così l’ombra gli rispose

«Se tu cerchi l’Eldorado!»

Edgar Allan Poe – «Eldorado» (da «Il corvo e altre poesie» a cura di Silvana Colonna e Maurizio Cucchi, Oscar Poesia)

Cosa unisce «Miden» di Veronica Raimo (Mondadori, 2018) ai versi di Edgar Allan Poe?

Lei e lui, i protagonisti, cercano un’altra possibilità, un Eldorado dove vivere liberi, in pace, in armonia con la comunità e con la natura, fuori dal loro Paese, un Paese «che si poteva solo lasciare», dopo il Crollo quando «contavano gli emigranti come sfollati, recintavano i superstiti».

Questa terra promessa è Miden. Più che una possibilità, un sistema filosofico concretizzatosi in persone e stili di vita.

«Al primo posto per: Qualità della vita. Fiducia nel futuro. Uguaglianza sociale. Diritti umani. Soddisfazione professionale. Emancipazione della donna. Se sommi tutti i fattori fai bingo e viene fuori quello che cerchi: al primo posto per Felicità».

Gli abitanti di Miden pensano che la perfetta struttura sociale che hanno organizzato dipenda dal loro DNA: «Una struttura genetica particolarmente virtuosa e creativa… Si sentono i discendenti del Mito».

Eldorado trovato? Libertà acquisita? Felicità assicurata?

E vissero per sempre felici e contenti?

No. Perché la vita non è una favola. Se lo fosse, sarebbe una favola nera.

In questo paradiso c’è in agguato la tentazione, la mela avvelenata, rappresentata da lui, lo straniero che si autodefinisce come «uno che si conserva le mutande sporche». In tutti i sensi.

Mentre lei, incinta e incerta sulla vaghezza dei suoi impegni in quel mondo perfetto («Perché bisogna sempre ragionare sugli eventi e trarne le conclusioni?») cerca la giustificazione del suo vivere a Miden, lui – professore di filosofia – deve sottoporsi al giudizio della Commissione preposta: la studentessa con la quale due anni prima ha avuto una relazione lo ha denunciato, convintasi di non essere stata consenziente, ma di avere subìto violenza. La commissione dovrà decidere se egli potrà continuare ad essere membro della comunità.

Da qui parte il romanzo, dipanandosi in capitoli brevi, di scrittura essenziale, non numerati, ma contrapposti con i titoli «La compagna» che inizia (e termina) e «Il compagno» con l’esposizione e la disamina spesso brutale del proprio vissuto; prima, durante e dopo.

Nei ragionamenti-ricordi-desideri dell’una e dell’altro si inserisce la terza protagonista, la studentessa, senza che a quest’ultima sia concesso di parlare in prima persona; vive solo nelle parole degli altri due. Forzatamente i suoi pensieri e le sue azioni sono rappresentati come in uno specchio frantumato, secondo lo stato d’animo e l’interpretazione arbitraria che l’una e l’altro ne fanno.

Procedendo nella lettura, viene spontaneo chiedersi: di quanti livelli è composto questo romanzo?

Il più facile di questi tempi è definirlo una distopia, parola che fino a un paio di anni fa conoscevano solo i ristretti circoli di lettori di speculative fiction (ex fantascienza).

Ma se si penetra sotto la superficie si incontra la denuncia di uno Stato “troppo” perfetto; gli abitanti vivono in un mondo in bilico tra l’Arcadia e un regime totalitario.

Gli abitanti non hanno nome, hanno solo le qualifiche nelle Commissioni che regolano la loro vita. «Se sei cittadino di Miden sei membro di una Commissione, se non vuoi sceglierla ti viene assegnata».

A Miden ci sono soltanto bambini e adulti. I vecchi sono confinati nel Giardino per la Terza Età, dove raccolgono ciliegie. «A Miden non crescono alberi da frutta… Credo che gli operatori mettessero le ciliegie sopra agli alberi. In effetti erano abeti».

Completamente uniformati – pur nelle consuetudini che si ritrovano nella vita quotidiana di chiunque in qualsiasi altro posto della terra – gli abitanti di Miden assomigliano ad automi che seguano “le tre leggi della robotica” di Isaac Asimov; gli umani sono gli stranieri che arrivano, sempre che non superino le quote decise dalla Commissione Accoglienza e che si adeguino alle regole cittadine.

A Miden tutto si svolge in un clima di assoluto rispetto; non esistono cittadini indegni, se il verdetto finale è di colpevolezza si viene espulsi perché la violenza che si può annidare nell’individuo potrebbe compromettere la tenuta sociale. E che ci pensino là fuori a curare la recrudescenza di una malattia ormai sconfitta a Miden.

Poi però prende sempre più sostanza l’aspetto delle relazioni d’amore; lei si interroga non solo sul perché della sua scelta di trasferirsi in quel paradiso ma soprattutto su cosa l’abbia spinta a pensare che quello che l’ha legata al compagno sia stato amore.

E’ una lenta discesa agli inferi, come si dice in questi casi: una relazione iniziata con la passione in una vacanza estiva diventa inesorabilmente una trappola per entrambi, nella quale si inserisce anche la gravidanza. Non si dice se voluta o imposta ma sembra piuttosto subìta, quasi come la violenza denunciata dalla ragazza di Miden.

La vita di entrambi nel tempo che precede il giudizio finale del procedimento contro di lui diventa un gioco al massacro e comporta il disvelamento progressivo che porta inesorabilmente fino alla nudità intellettuale di fronte a se stessi.

Ultimo ma non meno importante l’aspetto di genere: la figura maschile è meschina, cialtrona, egoista e autoreferenziale. Di contro, la figura femminile non primeggia per dignità tuttavia c’è una introspezione diversa che la fa diventare sempre più consapevole del proprio stato, fino ad uniformarsi a quello che non si era ancora accettato, concedendosi una vittoria forse fallace.

Un romanzo che è conformato su diversi piani; è opportuno farli interagire perché nella complessità si possono vedere i nodi e l’opportunità di scioglierli.

Non offre soluzioni né lo vorrebbe; fondamentale è scavare a fondo per conoscere i propri demoni interiori, perché non ci si arrenda ma si continui a cercare non la perfezione ma il rispetto reciproco e la volontà di vivere con i propri simili in una società che non faccia sentire automi né delinquenti. Ma che faccia tutte/i umani.

Ho conosciuto Veronica Raimo attraverso l’antologia «Le visionarie» (*) da lei curata nell’edizione italiana assieme a Claudia Durastanti.

Voglio chiudere con una loro frase in postfazione: «… un certo tipo di realismo – chirurgico, analitico, rigoroso – aveva smesso di incuriosirci e stimolarci. Non soltanto da lettrici, ma anche in fase di scrittura… Il filtro del realismo sembrava generare un senso di inadeguatezza nel raccontare le storie che volevamo raccontare».

Continuate a raccontare le storie che volete raccontare, grazie.

(*) cfr «Le visionarie» cioè “sorelle della rivoluzione”

Redazione
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