Migrando

analisi, immagini e parole: grazie a Dilem, il disegnatore algerino che ha creato le vignette

 

Cronache estive – Erri De Luca

Due reticolati paralleli, sei metri di altezza, lame affilate in cima: sono stati saliti e scavalcati da più di seicento giovani, scattati tutti insieme, una di queste notti di luglio. A torso nudo, per evitare che la maglietta s’impigli.
È l’atletica leggera dei tempi correnti, lo scavalco di muri, mari, monti.
È l’atletica pesante di chi solleva il proprio peso fino al bordo dello sbarramento, lasciando sulle lame il pedaggio del sangue.
Sono giovani, nel pieno della disperazione delle forze, spese nel viaggio e sull’ostacolo. Hanno smesso di sperare, per darsi allo sbaraglio. Ognuno sente l’energia sovrumana del numero, moltiplicatore di coraggio, quello che ammette di farsi decimare.
La massa critica di centinaia di giovani in una notte di luglio, senza colonna sonora di discoteche, si lancia nella peggiore gara a ostacoli dove non conta arrivare primi, ma in molti.
Imparo da loro che il futuro sta nella loro indifferenza a qualunque ferita, morte inclusa.
Quando da una spiaggia notturna una madre sale con il suo bambino su un canotto stracarico e sgonfio, ho il fotogramma dell’inesorabile. Quando l’istinto materno è sopraffatto da superiore urgenza, imparo cosa sia dover andare.

Da un’altra parte, a Roma, si sgombera di forza un campo di zingari. Le ragioni sono igieniche e sanitarie. È vero. La Giunta locale ha prima demolito container con i gabinetti, poi ha interrotto la fornitura di acqua e chiuso l’allaccio a fogne.
Sono cronache estive di militi ignoti, atleti dell’accanito allenamento al peggio, storie di persone costrette a essere eroiche.
Perché ne scrivo, perché ne riferisco? Senza intenzione di suggerire rimedio, non so guardare da un’altra parte. Non so imparare da altri esempi le virtù della specie alla quale intendo continuare a appartenere.

http://fondazionerrideluca.com/web/cronache-estive/

Senza nome e dimenticati, la sorte dei migranti annegati – Ottavia Ampuero Villagran

 [Traduzione a cura di Elena Intra dall’articolo originale di Ottavia Ampuero Villagran pubblicato su Open Democracy]

Vi siete mai fermati a considerare cosa succede ai corpi dei migranti privi di documenti quando muoiono in mare cercando di raggiungere le coste dell’Europa? Chi sono, chi piange la loro perdita, dove e come sono sepolti?

I corpi senza nome e incompianti dei migranti privi di documenti sono ormai una triste realtà per le città costiere del Mediterraneo, il triangolo che collega Tripoli, Zouara e Lampedusa è infatti stato soprannominato la zona nera dalla gente del posto a causa degli innumerevoli cadaveri galleggianti tutt’intorno. Tuttavia, quegli stessi corpi sono vistosamente assenti dalla più ampia narrativa sulla migrazione e dalla retorica di molti attori influenti coinvolti nella politica, nel mondo accademico e nei media. Questo punto cieco è inquietante. I responsabili politici devono urgentemente affrontare la questione dell’identificazione dei corpi dei migranti privi di documenti dal punto di vista dei diritti umani e devono risolvere le carenze degli attuali sforzi di gestione e identificazione attuati nei Paesi europei.

Il “Progetto Missing Migrants” dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni stima che dal 2014 ci siano stati 16.003 morti e scomparse di migranti nel Mediterraneo. Come per le stime sui migranti, vivi, senza documenti, il numero reale è probabilmente molto più alto a causa delle difficoltà nel rintracciare coloro che non vogliono essere rintracciati e nel contare i corpi che sono affondati sotto la superficie delle onde. La maggior parte di questi corpi probabilmente non sarà mai trovata.

Anche coloro che vengono recuperati probabilmente non saranno identificati. Ciò è in parte dovuto alle intrinseche difficoltà di identificazione in questo contesto: non ci sono informazioni immediatamente disponibili sulla nazionalità, sulla rotta o sulle relazioni familiari del migrante; eventuali oggetti personali o documenti di identificazione possono essere rovinati o resi illeggibili dall’acqua e i corpi che sono annegati vengono di solito ritrovati mentre riemergono dal fondo del mare in fase di decomposizione, rendendo a quel punto difficile un eventuale riconoscimento.

L’identificazione è inoltre ostacolata dalla mancanza di disposizioni giuridiche nazionali mirate ad affrontare i decessi dei migranti – e le questioni che ne derivano riguardo finanziamenti, mandati sovrapposti e politiche incoerenti – il che significa che attualmente non esiste una raccolta o archiviazione sistematica di informazioni che potrebbe essere utile per futuri sforzi.

Identificare questi corpi comporta quindi molte sfide, ma non è certamente impossibile, come è stato dimostrato dal successo delle attività di identificazione delle autorità italiane a seguito di tre naufragi al largo di Lampedusa. Nel caso di uno di questi naufragi, il Commissario straordinario per le persone scomparse e il suo team hanno ottenuto un impressionante tasso di identificazione del 58,5% seguendo rigorosamente le pratiche più idonee al trattamento dei deceduti, impegnandosi in un processo multilaterale che combinava una serie di approcci scientifici e sfruttando la società diplomatica e civile per contattare le famiglie delle vittime per informazioni ante mortem.

In un altro caso, gli scienziati forensi e gli antropologi sono riusciti ad identificare i corpi che erano rimasti per un anno immersi all’interno di una nave, dimostrando così che con la tecnologia del DNA l’identificazione è possibile anche nelle fasi di decadimento avanzato o di scheletrizzazione della decomposizione. “Con un po’ di soldi, molta buona volontà e duro lavoro“, ha detto Vittorio Piscitelli, a capo del Commissario straordinario del governo, “si può assolutamente fare“. Il passo logico successivo è quello di fornire questo servizio al maggior numero possibile di migranti morti, non solo a quelli su relitti che ricevono maggiore attenzione politica e mediatica.

Gli Stati europei hanno la burocrazia specializzata e le capacità tecnologiche necessarie per migliorare i loro tentativi nell’identificare i corpi dei migranti. Hanno anche i soldi, considerando che il bilancio dell’UE per la gestione delle frontiere esterne, della migrazione e dell’asilo passerà da 13 miliardi di euro a 34,9 miliardi di euro nei prossimi anni.

Gli esperti raccomandano prima di tutto di creare una banca dati centralizzata per raccogliere le informazioni rilevanti (fotografie, genere, nazionalità, DNA, luoghi di sepoltura) e standardizzare le procedure per la gestione e l’identificazione del corpo. La fattibilità dell’identificazione rafforza ulteriormente l’idea che tentare in modo adeguato di identificare i corpi dei migranti sia un diritto umano da garantire per il bene degli individui, delle famiglie e degli Stati coinvolti.

 

Diritti dopo la morte

Il diritto ad essere identificati dopo la morte è universalmente riconosciuto nel diritto nazionale e internazionale. A partire dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, sono stati sviluppati una serie di quadri internazionali per trattare l’identificazione dopo la morte, tra cui l’Handbook of Vital Statistics Methods del 1956 dell’ONU, le Linee guida per la ricerca di persone scomparse della Croce Rossa e lIdentificazione delle vittime di disastri redatta dall’Interpol.

L’imperativo comune di questi quadri normativi è che identità e identificazione sono un diritto umano che si estende oltre la morte. Ma il riconoscimento da parte degli Stati di questo diritto umano sembra dipendere dalle circostanze. La morte di immigrati “regolari” (turisti, studenti, uomini d’affari) in incidenti e disastri incontra infatti risposte internazionali su vasta scala che includono attrezzature tecnologiche avanzate e squadre specializzate, mentre la morte di immigrati “irregolari” incontra ambiguità burocratiche e inerzia amministrativa.

Il contrasto è evidente e sottolinea le differenze di valore che le società attribuiscono alle vite umane. Un migrante privo di documenti è implicitamente considerato, come diceva Judith Butler, “una vita irrecuperabile, una che non può essere compianta perché … non ha mai contato come una vita“.

Sforzi più sistematici e concertati per l’identificazione dei migranti privi di documenti porteranno rimedio allo stato di invisibilità a cui molti sono stati sottoposti durante il loro viaggio, ripristinando il nome, la storia e l’umanità di cui erano stati precedentemente privati. La denominazione che deriva dagli sforzi di identificazione potrebbe anche respingere la normalizzazione della morte dei migranti privi di documenti e la narrativa di securizzazione che li circonda.

Il diritto al lutto

Gli sforzi di identificazione ripristinerebbero anche i legami dei migranti morti con le loro famiglie e comunità e assicurerebbero la possibilità di dare l’estremo saluto a coloro che gli erano vicini. Le famiglie devono vivere ogni giorno senza conoscere il destino dei loro cari scomparsi, e questo spesso porta a problemi psicologici o psicosociali, oltre a complicazioni economiche e amministrative relative ad accordi funebri, matrimoni, successioni, tutele e proprietà terriere.

Tenendo conto di questi numerosi oneri, sembra fondamentale includere le famiglie nella narrativa della morte dei migranti e del processo di identificazione di coloro che sono privi di documenti. Ciò faciliterebbe l’accesso alle informazioni pratiche e riconoscerebbe la componente emotiva inerente al trapasso di una persona cara. Migliorerebbe anche la visibilità delle famiglie, le quali raramente sono in grado di esercitare pressioni politiche per esigere responsabilità, giustizia e commemorazione.

L’impegno degli Stati in materia di diritti umani

Anche gli Stati coinvolti nella gestione di migranti privi di documenti possono trarre vantaggio dalla promozione di questi sforzi. L’attuale vuoto politico nel trattare i corpi dei migranti ha creato una dissonanza tra i valori dichiarati dagli Stati e le azioni che adottano per sostenerli. Questa dissonanza ha implicazioni sui diritti umani in quanto compromette costantemente i diritti  alla dignità umana, alla libertà e all’uguaglianza dei migranti deceduti.

Con gli Stati che scelgono di inquadrare le morti di migranti privi di documenti come incidenti piuttosto che come conseguenze dirette dell’intensificazione delle loro politiche di controllo dei confini, non c’è da meravigliarsi se alcuni critici siano arrivati ​​a definire il Mediterraneo il “cimitero dei valori europei”.Sviluppare e attuare politiche specializzate per l’identificazione dei migranti privi di documenti fornirebbe latanto necessaria coerenza agli approcci degli Stati alla migrazione, oltre a facilitare l’inclusione sociale dimostrando ai migranti che stanno ospitando che le loro vite valgono come quelle dei loro stessi cittadini.

Fino ad ora, la questione dell’identificazione dei migranti privi di documenti si è persa nella vasta e complessa narrativa della migrazione. Ma è importante iniziare a considerare le implicazioni a livello di diritti umani quando si ignora questo argomento, nonché il valore intrinseco delle politiche di attuazione che facilitano l’identificazione.

Ci sono diritti umani nella vita e nella morte per tutti gli esseri umani, e la costante negazione dell’identità di questi migranti – del loro nome, della loro famiglia e della vita per cui hanno combattuto così tanto – attraverso sistemi di identificazione inadeguati dovrebbe essere considerata una violazione dei diritti umani. Per il bene degli individui, delle loro famiglie e per la credibilità del progetto europeo, si può, e si deve, fare di più.

https://vociglobali.it/2018/07/02/senza-nome-e-dimenticati-la-sorte-dei-migranti-annegati/

 

un po’ di numeri da tenere ben presenti

scrive Fabrizio Gatti:

Basterebbe invece chiedere a ciascun governo di rispondere a una sola domanda: perché povertà e conflitti colpiscono soprattutto Paesi ricchi di risorse naturali utili alla nostra società? La fuga di centinaia di migliaia di persone verso la Libia non è la causa, ma la conseguenza della risposta a questa domanda. Della Francia abbiamo già detto. Ma le responsabilità su cui suddividere gli oneri riguardano anche l’Italia. Da inizio 2018 al 31 maggio sono sbarcati: 2.734 tunisini, 2.211 eritrei, 916 nigeriani. Sono le tre nazionalità in testa alla classifica. La Tunisia è una democrazia di appena undici milioni di abitanti, poco più della Lombardia. L’Eritrea è una ex colonia italiana di cinque milioni di abitanti, tanti quanti la Sicilia. Queste sono le vere dimensioni della crisi migratoria. Dal 2001 gli eritrei sono dominati da una feroce dittatura che costringe i giovani a fuggire e che però imprenditori italiani, esponenti politici di destra, di sinistra e del sindacato hanno continuato a sostenere.

La Nigeria è la potenza energetica africana e lo Stato extraeuropeo dove l’italiana Eni ha più personale: 1.177 dipendenti. I vertici della società petrolifera con i colleghi dell’olandese Shell, che comunque respingono le imputazioni, sono sotto processo a Milano per corruzione internazionale con l’accusa aver autorizzato il pagamento di una tangente di un miliardo e 92 milioni di dollari (936 milioni di euro) in cambio di concessioni petrolifere: «Un fiume di soldi destinati in teoria allo Stato nigeriano ma in realtà intascati interamente da ex ministri, politici e faccendieri legati all’ex presidente Goodluck Jonathan», ha scritto Paolo Biondani nella sua inchiesta.

Se spesi diversamente, quanti posti lavoro si sarebbero potuti creare e quante persone si sarebbero potute trattenere in Africa con un miliardo di dollari? Nel 2015 avevamo provato a fare un calcolo, proprio dal Niger, Paese confinante con la Nigeria, dove ora Salvini e Bruxelles vorrebbero costruire campi di detenzione: con un investimento di venticinquemila euro si può avviare una piccola impresa di venti dipendenti nel settore della trasformazione alimentare. Ovviamente è un calcolo grossolano, ma rende l’idea dell’esproprio di risorse: la presunta corruzione Eni-Shell equivale così a ben 748.800 posti di lavoro. Moltiplicando per sette, che è la media di componenti di un nucleo familiare, fa un totale di oltre cinque milioni e duecentoquarantamila persone: quelle a cui la tangente ha letteralmente tolto il pane di bocca.

da qui

 

 

Una tomba d’acqua: tutte le nostre inchieste sul soccorso in mare – Marina Petrillo

Nell’ultimo anno e mezzo, mentre la percezione dell’opinione pubblica sulla solidarietà in mare si rovesciava, abbiamo costruito una mappa di indagini e storie per raccontarvi come avviene il soccorso nel Mediterraneo, chi se ne occupa, chi lo coordina, cosa fanno le Ong, cosa dicono le leggi, e decifrando man mano anche fascicoli giudiziari e iniziative politiche. Vi proponiamo i nostri approfondimenti qui tutti insieme in ordine cronologico.

Un anno e mezzo di lavoro sul soccorso in mare, il ruolo italiano e il coinvolgimento delle navi delle Ong si è in parte necessariamente incrociato con i nostri approfondimenti sulla Libia e la Guardia Costiera libica, che trovate invece riuniti qui.

 

  1. I numeri degli arrivi via mare nel 2014, 2015 e 2016

A fine gennaio 2017, mentre si parlava di “record di sbarchi in Italia”, abbiamo analizzato i dati degli arrivi del 2016, comparati a quelli dei due anni precedenti, con le nostre infografiche.

  1. Più di 8 mila salvati a Pasqua – diario di bordo

A Pasqua del 2017, con un mare tempestoso, è stato messo in mare dai trafficanti in Libia un numero molto alto di imbarcazioni tutte insieme, che hanno richiesto il salvataggio di 8.300 mila persone in pochi giorni. Mentre alcuni media ed esponenti politici riprendevano le generiche accuse del procuratore di Catania Zuccaro alle Ong di costituire un “fattore di attrazione” per il flusso di migranti, e di essere conniventi con gli scafisti, Giulia Bertoluzzi era a bordo della nave di soccorso Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet, e scriveva per noi un diario di viaggio dei salvataggi di quei giorni.

 

  1. Cosa c’è di falso o sviante nelle accuse alle Ong

Pochi giorni dopo, il 10 maggio 2017, Francesco Floris e Lorenzo Bagnoli pubblicavano per noi un’indagine, dati e documenti alla mano, dimostrando punto per punto cosa non tornava nelle generiche accuse lanciate alle Ong: la questione del “pull factor”, le contraddizioni di Frontex, le smentite della Guardia Costiera, la natura della Guardia Costiera libica, il ruolo di Malta, la questione dei transponder.

 

  1. Chi sono, come lavorano e come si finanziano le Ong in mare

A maggio 2017, Giacomo Zandonini ha creato per noi un identikit delle navi di soccorso delle Ong presenti in quel momento in mare di supporto a navi militari e mercantili, dalla più grande alla più piccola: chi erano, come si finanziavano, come si chiamavano le barche, di chi erano le barche, le differenze di capacità, quanto costavano a ogni Ong le operazioni, le dimensioni degli equipaggi, la fisionomia dei loro uffici a terra.

 

  1. Il rapporto Blaming The Rescuersdi Forensic Oceanography

Il 10 giugno 2017, a fronte di più di 1.800 persone tratte in salvo, sette cadaveri recuperati e 27 dispersi, la Marina libica sostiene di avere intercettazioni che dimostrerebbero che le Ong ricevono informazioni in anticipo sulle partenze dei gommoni; intima loro di stare fuori dalle acque territoriali libiche e respinge verso la Libia 570 persone. Soltanto 24 ore prima veniva presentato a Roma un rapporto investigativo dettagliato, “Blaming the rescuers”, che argomenta una volta per tutte che non solo le accuse alle Ong sono infondate, ma che servono a oscurare precise responsabilità dell’Europa.

 

  1. Cosa dice l’insieme di leggi sul soccorso in mare

A luglio 2017, la Coalizione per le Libertà e i Diritti Civili pubblica una guida fondamentale al soccorso in mare, che ricostruisce attraverso l’evoluzione del diritto marittimo e delle convenzioni internazionali la storia della solidarietà con chi è in difficoltà nel Mediterraneo e gli obblighi che questa comporta per tutti.

 

  1. Dalle accuse di Zuccaro al “codice di condotta”

Durante l’estate 2017, la campagna denigratoria nei confronti delle Ong – inaugurata dalle dichiarazioni del Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro prima che fosse aperto alcun fascicolo – rovescia completamente l’atteggiamento dell’opinione pubblica italiana, la stessa che nel 2013 aveva salutato con grande solidarietà l’inaugurazione dell’operazione Mare Nostrum. In parallelo, fra aprile e agosto del 2017 l’accordo fra Italia e Libia stravolge lo scenario nel Mediterraneo. In questo sommario del 28 luglio 2017 vi raccontavamo quali fossero le cose nuove da sapere, fra cui la presenza di navi militari italiane in acque libiche, e le continue morti in mare mentre si imponeva alle Ong, da sempre coordinate dalla Guardia Costiera italiana, un cosiddetto “codice di condotta”.

 

  1. La Libia annuncia unilateralmente la creazione della propria Sar

Il 10 agosto 2017, la Marina libica annuncia da Tripoli di voler allargare il divieto di ingresso alle Ong di decine di chilometri oltre le canoniche 12 miglia nautiche nazionali, quindi in acque internazionali, istituendo una propria zona di “Search and rescue” per intercettare e riportare i migranti in Libia. Si presume si tratti del ripristino della zona Sar imposta a suo tempo da Muammar Gheddafi – una decisione unilaterale la cui legalità è dubbia. La Guardia Costiera italiana chiede alle Ong di arretrare le operazioni per la loro incolumità.

Nancy Porsia è stata la prima giornalista a ricostruire le figure dei trafficanti libici più coinvolti nel traffico di persone, a denunciarne i legami con quella stessa Guardia Costiera libica con cui l’Italia stava facendo accordi, e a raccontare dalla Libia la complessità dell’impatto dei fondi europei e italiani su uno scenario polverizzato in fazioni e afflitto – nonostante l’abbondanza di risorse – da una disperante povertà. Il giorno dopo l’annuncio di Tripoli le abbiamo chiesto di rispondere a quattro domande per noi cruciali.

 

  1. Perché Msf non firma il “codice di condotta”

Il 1° agosto 2017, in una concitata giornata di mediazioni con il Viminale, Medici senza frontiere spiega in questa intervista a Open Migration perché ha deciso, insieme ad altre Ong impegnate in mare, di non firmare il cosiddetto “codice di condotta”.

 

  1. Gefira e gli Identitari di Defend Europe

A Cipro come a Catania viene fermata e respinta la C-Star, un’imbarcazione di Defend Europe che emula le Ong in mare “al contrario” dicendo di voler respingere i migranti. Intanto, il think tank Gefira e il movimento degli Identitari che hanno innescato la campagna contro le Ong vanno conosciuti più da vicino. Ad agosto 2017, Lorenzo Bagnoli ne ha ricostruito qui per noi la storia, le origini (molto distanti da dove si collocano adesso) e i legami politici – e ha intervistato per noi sia la Gefira vecchia e nuova sia gli italiani di Generazione Identitaria.

 

  1. Il sequestro della Iuventa e gli infiltrati sulla nave di Save The Children

L’Ong tedesca Jugend Rettet si vede sequestrare la nave di soccorso Iuventa dalle autorità italiane, che avevano messo agenti in borghese a bordo di alcune navi delle Ong per sorvegliarne l’operato (e, come poi si è scoperto nel caso della Von Hestia di Save The Children, per sorvegliare i sorveglianti). Un anno dopo, un’investigazione per favoreggiamento degli scafisti per l’equipaggio della Iuventa è ancora pendente – l’unico procedimento ancora aperto fra tutti quelli intentati contro le Ong. In queste due analisi vi raccontavamo in tempo reale cosa stava succedendo in mare con la presenza delle forze dell’ordine a bordo delle navi di soccorso, e cosa potevamo concludere dalla lettura completa e dall’analisi del fasciscolo sul sequestro della Iuventa.

 

  1. Meno gommoni dalla Libia, ma in mare si muore di più

È quello che conclude Francesca Romana Genoviva analizzando per noi a settembre 2017 i dati sulle partenze dalla Libia e sui naufragi nel Mediterraneo centrale.

 

  1. Soccorrere diventa sempre più pericoloso

Il 6 novembre 2017, Sea Watch denuncia uno scontro in mare con l’aggressivo equipaggio di un’unità della Guardia costiera libica, un episodio durante il quale annegano almeno 50 persone. Il 18 gennaio 2018 l’allora direttore dell’Ong tedesca Sea Watch Axel Grafmanns ci racconta in questa intervista il suo timore che soccorrere in mare stia diventando sempre più pericoloso.

 

  1. Diario dall’Aquarius in un gennaio letale

Nonostante d’inverno le partenze dalla Libia tendano sempre a diminuire, il gennaio del 2018 fa registrare un alto numero di morti. Federica Mameli si trova a bordo della nave Aquarius di SOS Méditerranée durante alcuni difficili salvataggi e un naufragio, e tiene un diario per noi.

 

  1. Il breve sequestro della nave spagnola Open Arms

A marzo scatta il sequestro della nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms, che si è rifiutata di consegnare alla Guardia Costiera libica 218 migranti salvati in mare. Capitano della nave, capo missione e direttore della Ong vengono accusati di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – dalla stessa procura che accusò le Ong prima che venisse bloccata la Iuventa. Nel giro di poche settimane, tutte le accuse cadranno, la nave verrà dissequestrata, l’inchiesta archiviata. Qui vi raccontavamo cosa dicevano le carte e su quali basi giuridiche poggiavano le accuse.

 

  1. Il secondo fascicolo su Open Arms e il fantasma di Malta

Ad aprile il Gip di Catania Nunzio Sarpietro conferma il sequestro della nave di soccorso spagnola Open Arms, mentre i nuovi dati dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni dicono che a fronte di un calo negli arrivi, in mare si muore il 75 per cento di più. E sono rimaste poche le navi di soccorso, costrette, come Aquarius in questi giorni, a negoziare con la Guardia Costiera libica il salvataggio di centinaia persone. Abbiamo analizzato le nuove, più dettagliate carte sulla Open Arms, e siamo andati a Malta per capire come mai, da molti anni, lì non si sbarca.

 

  1. Il ricorso a Strasburgo per il naufragio del 6 novembre

Alcuni parenti delle vittime del naufragio del 6 novembre 2017, legato al comportamento aggressivo di un’unità della Guardia costiera libica, hanno deciso di fare ricorso contro l’Italia presso la Corte europea di Strasburgo. Il nostro paese è di fatto accusato di delegare alla Guardia costiera libica il compito di effettuare respingimenti che sono vietati dalle convenzioni internazionali. Il 9 maggio 2018 Claudia Torrisi ricostruisce per noi come si è arrivati al processo e cosa hanno scoperto su quell’incidente in mare i ricercatori di Forensic Oceanography.

 

18.L’aeroplano che aiuta ad avvistare le barche in difficoltà

Marta Bellingreri e il fotografo Alessio Mamo sono stati con i piloti della Humanitarian Pilots Initiative a bordo di Moonbird, l’aeroplano che supporta i soccorsi nel Mediterraneo centrale e che ha partecipato alle contese operazioni dei primi di maggio 2018. Ci hanno raccontato in esclusiva la loro esperienza. Mentre scriviamo, Moonbird, come la nave Sea Watch 3, è bloccato a Malta senza spiegazioni.

 

  1. Nelle mani della Guardia costiera libica si muore di più

A fronte di un drastico calo negli arrivi dalla Libia rispetto al 2017, dai dati che ci ha comunicato Iom Libia a giugno 2018 emerge che si muore in proporzione di più, e sotto la nuova, rivendicata responsabilità della Guardia costiera libica. Subito dopo l’uscita di questa analisi realizzata da Laura Clarke il 28 giugno con le nostre infografiche, alla Libia viene ufficialmente riconosciuta la sua zona Sar esclusiva di ricerca e soccorso. In pochi giorni, si verificano tre nuovi naufragi.

da qui

 

Costruiamo insieme una nuova umanità – Mohamed Ba

Le persone migranti sono bersaglio di politiche ingiuste. A detrimento dei diritti universalmente riconosciuti ad ogni persona umana, queste mettono gli esseri umani gli uni contro gli altri attraverso strategie discriminatorie, basate sulla preferenza nazionale, l’appartenenza etnica, religiosa o di genere.

Tali politiche sono imposte da sistemi conservatori ed egemonici che per cercare di conservare i propri privilegi, sfruttano la forza di lavoro fisica ed intellettuale di migranti. A questo scopo, tali sistemi utilizzano le esorbitanti prerogative consentite dal potere arbitrario dello Stato-Nazione e dal sistema mondiale di dominazione ereditato dalla colonizzazione e dalla deportazione. Questo sistema è nel medesimo caduco, obsoleto e causa di crimini contro l’umanità. Per questo deve essere abolito.

Le politiche attuate dal sistema degli Stati-Nazione inducono a pensare che le migrazioni siano un problema ed una minaccia mentre costituiscono un fenomeno storico naturale, complesso certo ma che lungi dall’essere una calamità per i paesi di residenza, costituisce un contributo economico, sociale e culturale d’inestimabile valore.

L’immaginario collettivo ha bisogno di riconoscere nel migrante il lupo fautore di caos, instabilità ed insicurezza. Probabilmente questo giustifica che sia privati dei diritti civili basilari riconosciuti sul piano internazionale, meglio che rimanga imbavagliato ed apparire solo per colorare le pagine di cronaca nera.

Questo perverso e controproducente sistema non darà mai al cittadino gli strumenti giusti per stare nel mondo ma lo costringe a starne accanto. Cambiare questa prospettiva diventa necessario per una nuova rilettura del nostro metodo di gestione delle migrazioni, niente affatto impermeabile alle contaminazioni.

EUROPEO           AFRICANO
1- Lingua Dialetto
2- Espatriato         Immigrato
3- Monumento antico         Arte primitiva
4- Cervello in fuga Immigrato economico
5- Religione Superstizione
6- Nazionalismi Guerre tribali
7- Separatismi Tensioni interetniche
8- Naturopatia Stregoneria
9- Psicoterapeuta Ciarlatano
10- Esploratori Invasori

E’ tempo di cambiare, mutare ed accrescere la nostra prospettiva. Le parole sono il ponte, il nostro pensiero e coloro che guardiamo.

Occorre una nuova umanità capace di guardare e parlare all’umano che c’è in ciascuno di noi.

http://www.rrrquarrata.it/www/costruiamo-insieme-una-nuova-umanita-di-mohamed-ba/

 

NON NE POSSO PIÙ. A PROPOSITO DI “MAGLIETTE ROSSE” E DINTORNI – Angelo D’Orsi

 

Indosserò domani 7 luglio la maglietta rossa d’ordinanza, contro razzismo, sciovinismo, e salvinismo, ma mi si lasci dire che non ne posso più.

Non ne posso più della nostra impotenza.

Mi sono stufato, per esprimere la nostra opposizione (politica, sociale, culturale, etica) a magliette, scarpe, bandiere; mi sono stufato di assistere – inizialmente perplesso, poi attonito, infine sgomento –, alla trasformazione della lotta politica in mera simbologia, che sembra rinviare più alla moda che alla critica, frutto di passività e inerzia, più che segno di volontà di riscossa.

Mi sono stufato di imbattermi nella parola “populismo”, chiave di volta universale che ormai non apre più nessuna porta, concetto che non spiega nulla, così come viene declinato. Renzi era (è) meno populista di Salvini e Di Maio? Per non parlare di Berlusconi…

Mi sono stufato di sentirmi dire che i leghisti sono fascisti, ma senza mai che nessuno mi spieghi perché non soltanto il vituperato sottoproletariato e l’odiosa “vecchia piccola borghesia”, ma la stessa classe operaia li votino.

Mi sono stufato della ripetizione del grido “Razzisti!” rivolto agli stessi, ma poi nessuno mi fa capire perché al Sud ricoperto di ingiurie e minacce dagli stessi leghisti nel corso degli anni, proprio gli uomini e le donne di quel partito, vengano votati.

Mi sono stufato persino di vedere insulto Salvini (che fa schifo al punto che dovremmo smettere di dedicargli battute e disegni, che servono a noi da sfogatoio, mentre lui si compiace della popolarità che i social, oltre ai media, gli hanno costruito), quasi che la sua politica in fatto di migrazioni sia molto diversa da quella di Minniti, lessico, volgarità e sgangheratezze a parte.

Mi sono stufato di coloro che rispondono all’accusa stolta e meschina di “buonismo” (parola che nulla spiega e nulla dice) rivendicarla con orgoglio, invece di urlare che si tratta di una assoluta cretinata, degna della signora Santanché, e miserabili sodali.

Mi sono stufato di vedere rivendicare come repertorio politico la serie di parole consunte quali accoglienza, solidarietà, umanità eccetera: nella nostra bocca non suonano meno scontate e stonate che sulla bocca degli avversari; e soprattutto non ci fanno fare un passo avanti nella costruzione dell’alternativa radicale alla linea che ci ha condotto all’attuale Caporetto.

Mi sono stufato di legge che l’1,1% della lista “Potere al Popolo” il 4 marzo 2018 è stato un successo.

Non ne posso più di coloro che a sinistra spiegano la sconfitta con la cattiveria altrui, non ne posso più della rinuncia programmatica all’autocritica, non ne posso più di sentir dire che è colpa degli altri quando perdiamo.

Non ne posso più del silenzio sulla sconfitta epocale che la sinistra ha vissuto e sta vivendo da troppi anni.

Mi sono stufato della mancanza di analisi sulle cause interne di quella sconfitta, sui nostri deficit e sui nostri errori.

Mi sono stufato della faciloneria con cui vengono liquidati i vincitori di oggi (leghisti e cinquestelle), rinunciando persino a guardare da vicino i due movimenti, per la paura di sporcarsi le mani, rifiutandosi di distinguere, ma accontentandosi di condannare, in modo semplicistico, e alla fin fine, cretino

Mi sono stufato di leggere (e, ahimè, temo anche scrivere) testi nei quali si percepisce rabbia, sdegno, ribrezzo, persino, invece che analisi concrete e proposte realistiche; mi sono stufato delle ripetizioni pappagallesche e autoconsolatorie che nulla ci dicono del successo M5S e Lega, e della sconfitta di PaP, e di come uscire dal pelago in cui siamo finiti, e con noi l’Italia.

Mi sono stufato anche di vignette e barzellette. Sono il segno di una impotenza da cui non solo non sappiamo ma chissà, neppure vogliamo uscire. Sono il nostro “ius murmurandi”. In fondo questa impotenza è comoda e protettiva, e ci ritroviamo, sempre meno, ma persuasi che siamo i migliori, i più belli, i più intelligenti mentre gli altri, i nostri avversari, sono brutti sporchi e cattivi. E se vincono è colpa del popolo che nulla capisce, alla fin fine. Ma a quello stesso popolo noi ci appelliamo, e crediamo persino di conoscerlo meglio di coloro che fanno il pieno nelle piazze e nelle urne.

Indosserò la mia maglietta rossa d’ordinanza domani. Ma non ne posso più della nostra impotenza. Essa non è soltanto frutto del destino, ma innanzi tutto dei nostri errori.

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Troviamo il coraggio: parliamo di morti – Domenico Quirico

I morti: per favore, per una volta invece dei vivi, dei migranti vivi, quelli che ci ingombrano, che non sappiamo ripartire come armenti, dei flussi, degli utili e degli inutili, degli aventi diritto e dei clandestini, si abbia il pudore di non parlare. Contiamo gli altri, i morti, i migranti morti. Guardiamo il mare, un chioccolio di acque calme, l’acqua viva, qua e là, di chiazze iridescenti di petrolio. Uomini portano a riva piccoli cadaveri con vestiti colorati. Diciamo la verità: non sapremmo enumerarli tutti questi morti. Sono tanti, sono dappertutto, in ogni lembo del Mediterraneo, ieri davanti alla Libia e a Lampedusa e nelle acque delle isole greche. Se ci provassimo a contarli, i morti, quelli che rientrano nelle statistiche, ebbene ne dimenticheremmo sempre la metà. Forse di più, quelli che non sappiamo, i naufragi senza nome, di cui non abbiamo trovato i segni. Sì. Parliamo dei morti. Se ne abbiamo il coraggio.

Attenti. Ne avete chiacchierato amabilmente, mentre loro affogavano davanti alle tavole, imbandite dei vostri vertici. Così: numeri, piccole battaglie diplomatiche, la limatura geniale e grottesca di un aggettivo, volontario… non volontario, destini umani. Attenti perché i morti sono implacabili. Con i vivi si può essere avari: ma con i morti no.

Dove sono le vie di uscita per aggirarli, per far finta che non esistano? Dove li possiamo nascondere, in preda al comodo oblio, le storie di ciò che sono stati? Non basteranno gli occulti mattatoi degli anni, i ghirigori delle competenze, la carta bollata del tocca a te, la geografia dello scaricabarile diplomatico. I morti sono lì, implacabili, irrimediabili. Ci guardano. La solitudine c’è, forse, solo per i vivi. Rispetto ai morti non c’è solitudine, i morti sono sempre qui.

Quelli di ieri, e gli altri prima di loro, si insinueranno in ogni nostra singola ora. È il loro destino, la loro vendetta. Ci chiederanno conto: chi siete voi? La vita anche la mia, la nostra non è sacra per voi? Uccideranno, loro, le nostre bugie. Fino a quando ci scopriremo anche noi morti. Raccontano che i naufraghi sono rimasti a lungo in acqua aspettando i soccorsi, prima di affogare. Nascondiamo, per favore, almeno per oggi i vuoti documenti di Bruxelles, le millanterie, il falso vigore della chiacchiera. Parliamo soltanto di quel tempo che hanno passato in mare: quelle che sono le ore che contano tra la vita e la morte. Proviamo a immaginare qual era l’oggetto più prezioso che si erano portati dietro su quella barca dannata, l’ultimo frammento, si illudevano del loro viaggio infinito: un paio di scarpe, un telefonino, una foto del villaggio, di una madre? I naufragi dei migranti, la loro immondizia santificata dalla morte.

Non neghiamo nulla, non saltelliamo via. Salveremo ciò che siamo solo se sapremo guardare questi morti, immutabili, ormai lacerati dalla sofferenza, ma non sfigurati, caparbi, immortali.

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Ho perso un amico – Pierpaolo Capovilla

Ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente che mi circonda.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente tutta insomma.

Ciò che sto per dire è interamente vero, con l’unica eccezione del nome del mio amico, l’amico che fu, e che per pietà cambierò con uno di fantasia. Lo chiamerò Alvise, un nome adespota, senza il santo in calendario, ma fra i più diffusi nella mia città, Venezia, la cui storia è piena zeppa di patrizi e dogi che portarono questo nome. Cambierò anche il nome della sua ragazza, che comunque non ricordo.

Venerdì sera, a Venezia, appunto.
Sto preparando una cenetta che mi auguro deliziosa, per Elisa, la mia compagna, e per me, che adoro cucinare. Ceneremo molto tardi, come sempre. Vorrei servirla in terrazzino, al fresco della brezza serale, che già soffia decisa.
Vado al supermercato più vicino, quello in Salizada San Lio, giusto prima che chiuda, sono ormai le 21 e 30, a fare un’ultima spesa. Mi mancano il parmigiano, un po’ di mentuccia, e una bottiglia di Salice Salentino, il mio rosso preferito. Ritorno verso casa in tutta fretta, ma mi fermo un attimo in un pub irlandese, in Calle del Mondo Novo, giusto per un aperitivo, solitario y final, ma sopratutto per vedere chi sta vincendo fra Svizzera e Serbia.
La Serbia mi affascina, da sempre. Il prossimo viaggio che faremo, io ed Elisa, sarà a Belgrado. Se proprio devo fare il tifo, questa sera, tifo Serbia.
Nel pub incontro Alvise, un vecchio amico che non vedo da anni.

È strano, ma lo avevo pensato qualche giorno fa, il buon Alvise. Sarà la solita sincronicità.
Sotto lo sguardo un po’ torvo e un po’ stupito dei tanti svizzeri che gridano nel pub, Alvise, che è lì con Nadia, la sua ragazza, la stessa di sempre, si mette a gridare anche lui: Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via!.
Scoppio a ridere. Il vecchio compagno non è cambiato!
Mi vengono in mente le interminabili discussioni alla Letizia, l’osteria che frequentavamo, dalle parti di Rialto, sull’Unione Sovietica, l’internazionalismo, Berlinguer e l’eurocomunismo. Tutto perduto, nella notte dei tempi, come un mito lontano.
Lo inseguo immediatamente. Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via! Scenetta divertente.
A quel punto un bel signore, di una certa età, si avvicina e si aggiunge sorridente al nostro coretto provocatorio. È serbo, questo signore così magro, il volto affilato, gli occhi azzurrissimi. Un bel tipo. Come Alvise anche lui è ubriaco. Ci faccio due chiacchiere. È proprio di Belgrado, ed è qui a Venezia per lavoro.

Da quanto non ci vediamo?
Alvise ci pensa qualche secondo.
Saranno tre, quattro anni!
Ma sei stato via?
No, affatto. Sempre qui in città.
È strano. Malgrado Venezia sia così piccolina, a volte ci si perde di vista. Entrambi abbiamo cambiato casa e sestiere negli ultimi anni; qui a Venezia funziona così, ognuno si vive il suo pezzetto di città, si rintana nel proprio angolino, il più lontano possibile dai turisti, anche se ormai sono dappertutto, anche nei luoghi più nascosti, un tempo ignorati dai “foresti”. Google Maps e Airbnb hanno trasformato Venezia in un percorso guidato e in un immenso albergo; i croceristi scendono dalle navi, dalla porta del vicino sbucano fuori messicani, una mattina alle sei e mezza due corpulente americane ti chiedono se tu sia certo che la casa in cui vivi non sia quella che hanno prenotato. Ho dovuto mettere un avviso sulla porta di casa: “This is not a B&B”.

Alvise, che fa il gondoliere, s’è comprato un bell’appartamento, spazioso e confortevole, in un palazzo antico, dalle parti di Campo Santo Stefano. Io invece sto in un modesto appartamentino, un bilocale al piano terra, esente acqua alta, come si dice da noi, vicino a San Lorenzo.
Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e io inevitabilmente gli chiedo se tifi ancora per il Livorno. L’ho conosciuto così, Alvise, parlando di calcio, e quella volta se ne uscì con questa passione ‘amaranto’. Mai mi sarei aspettato che un gondoliere veneziano potesse essere un tifoso, un tifoso accanito, del Livorno. Singolare.

Ti fai ancora le trasferte?
Alvise mi dice che… No, ormai il Livorno non gli interessa più. È retrocesso in C, mi spiega. S’è pure stufato del calcio in genere. Ora preferisce il rugby.

Io non sono un tifoso, ma il calcio mi piace. Lo sport più bello del mondo, altroché. Mi piace perché conservo in me il ricordo di quel grand’uomo di Bearzot e della sua nazionale, campionessa del mondo. Di Zoff, Scirea, di quell’opportunista di Paolo Rossi, e poi Conti, Cabrini, Tardelli. E poi Pertini. Quanto era bello, Pertini. Avevo quattordici anni, e a quel tempo il calcio mi piaceva eccome. Mi entusiasmava. I ragazzini amano il calcio.
Ad un certo punto Alvise mi chiede: ti piace il biliardo?
Resto sorpreso. Un’altra sincronicità.
Io adoro il biliardo. Non sono bravo, non sono mai stato bravo in alcuno sport né in alcun gioco che preveda specifiche abilità motorie, lo ammetto. Ma mi piace davvero, e proprio in questi giorni stavo pensando di andare a passare una serata in quella sala che c’è a Mogliano, proprio dirimpetto alla stanza prove dove suono con One Dimensional Man. Ci andrei anche da solo, giusto per allenarmi un po’, e per vedere se ancora riesco a mettere qualche biglia in buca.

Alvise mi dice di avere un tavolo a casa.
Hai un tavolo a casa?
Si! Vieni a fare un paio di partite!
Ci penso su.
Ci vengo eccome!

In un battibaleno decido di lasciar perdere la cenetta in terrazzino.
Chiamo Elisa per dirle che farò un po’ tardi, ma sta ancora lavorando, e non mi risponde.
In dieci minuti sono a casa di Alvise e Nadia.
Nadia prepara delle bruschette, Alvise una canna d’erba, di quella super buona. A me affidano il compito di scegliere ed aprire una bottiglia di vino bianco. Trovo un Malvasia del Carso, eccezionale.
Tutto è eccezionale questa sera!
E fra poco… Lo sarà ancor di più.
Ci fiondiamo al tavolo. È di tipo americano, con le buche molto più larghe di quelle a cui ero abituato, e penso: meglio così, la mia figuraccia sarà meno penosa.

Alvise mi confida d’averlo comprato non soltanto per la passione per il biliardo, ma per invitare gli amici a casa, che quando capiscono di poter giocare a gratis, non ci pensano su due volte. Esattamente quel che ho appena fatto io.
È soddisfatto, felice di compiacermi. E sono felice anch’io.

La prima partita, giochiamo a palla otto, la stravince Alvise. E ci credo. Però io non sono così male. Alvise osserva la mia postura, e mi dice: ma allora sai giocare!
Sono inorgoglito.
Nella seconda partita do il meglio di me, e con un po’ di fortuna passo in vantaggio. Complice una spaccata favorevole le biglie si distribuiscono propizie, scelgo le piene, e ne metto in buca tre di fila.
Poi Nadia ci chiama in cucina per le bruschette.
Nadia è una donna buona e gentile. Sembra un po’ svampita, come se vivesse in un mondo tutto suo, e mi sembra di riconoscere in lei quei classici aspetti di chi fa uso di psicofarmaci. Niente di strano, penso. Le benzodiazepine sono fra i farmaci più venduti al mondo. Quel che non mi piace di lei, è la sua arrendevolezza. Alvise la tratta in modo un po’ rude, un po’ padronale, patriarcale. Incomincia a non piacermi neanche lui.
A tavola beviamo e fumiamo ancora. Ormai sono alticcio pure io, mentre Alvise è decisamente su di giri. La cosa non mi preoccupa neanche un po’ perché è sempre stato così, il buon Alvise. Un vero alcolista, uno di quelli che ci danno dentro tutto il giorno.

Gli chiedo cosa ne pensa del nuovo governo.
“Na manega de stronsi”, mi dice in perfetto veneziano, non veneto o mestrino, ma veneziano DOC. “No cambia mai na sboraa”. Questa è una di quelle locuzioni vergognose che si usano a Venezia, la parola “sboraa” significa “sborrata”, e molti qui la usano in continuazione, intercalandola in ogni dove.
“Però Salvini no xe mae!”…
Perché, ti piace quel fascista?
“No xe fascista! È un p-r-a-g-m-a-t-i-c-o”.
Incomincia una discussione che avrei preferito non dover fare mai.

Ma insomma. Un ministro dell’Interno appena insediato che si scaglia come un cane rabbioso contro gli immigrati, contro gli oppositori politici, contro i Rom, ma fammi il piacere Alvise! Ma non hai capito di che pasta è fatto quell’individuo? Non lo vedi come parla, ogni santo giorno, come se fosse ancora in piena campagna elettorale. Io lo trovo indecente, altro che pragmatico. E poi scusa, che vuol dire pragmatico? Uno che vorrebbe che la gente si armasse per sparare ai ladri, come in America, santiddio, lo chiami pragmatico.

Siamo ubriachi, tutt’e due. In Vino Veritas.
Ma a questo punto scopro qualcosa che non avrei voluto scoprire.
Alvise odia gli zingari.
Li odia con rancore, con livore, con astio. Un risentimento profondo, come se avesse subito un torto grave.
Non lavorano, mi dice.
Trovami uno zingaro che abbia mai lavorato!
Non lavorano e rubano, rubano i bambini, ‘sti porsei!
Alvise… Ma che diavolo dici.

Non sono certo tutti uguali. Ce n’è che lavorano. Gli zingari sono degli amanuensi straordinari, e sono dei musicisti straordinari. Se non lavorano è perché la gente ha paura di loro, una paura ancestrale. Se vivi in un campo Rom, e non hai neanche l’acqua per lavarti, chi vuoi che ti dia un lavoro. È un cortocircuito, è evidente. Più ti spingono verso i margini, e più verrai emarginato. E poi, diciamocelo, che problema potranno mai rappresentare duecentomila zingari in un paese di sessanta milioni d’abitanti. Sai cos’è che ti fa incazzare? Il fatto che siano poveri, ma che ce la facciano ugualmente. In barba a tutti. Sono i più poveri di tutti. E proprio per questo stanno insieme, in piccole o grandi comunità, perché quando sei povero, anzi misero, se sei da solo crepi, se stai in una comunità sopravvivi. Che male c’è?

Ma ne hai mai conosciuto uno? Gli hai mai stretto la mano? Prova a stringere la mano ad uno zingaro. Prova a fargli un sorriso, a fargli capire che non gli sei nemico. Prova ad abbracciarlo! A me è successo, più di una volta. E ho visto negli occhi di quel mio fratello, come dire, … Amore. Un amore improvviso, repentino, e sorpreso. Sorpreso, si, anzi stupefatto.

Nessuno li avvicina, tutti gli stanno lontano almeno due metri, manco fossero bestie fuggite dallo zoo: se gli dai un sorriso, una moneta magari, ma non guardando dall’altra parte, guardandolo negli occhi, con un briciolo di cristiana compassione, scatta in loro subito un moto d’amore, una sorta di complicità umana, umanissima. Li trovo bellissimi.

Aò, gli faccio in romanesco, a Roma n’ho incontrati de spaventevoli, e ‘mo me so allontanato pur’io!
Te ne potrei raccontare un paio di interessanti. Una volta, a Roma, ero con Federico, che c’aveva un rolex esagerato e …

Ucciderli tutti, bisognerebbe, dice Alvise.
Ucciderli?
Tutti e duecentomila?
Si. Tutti.

A questo punto incomincio a incazzarmi. Mi prendo una pausa di riflessione.
Penso che Alvise non poteva sapere della mia passione per questa gente e per la loro cultura. L’avversione per gli zingari è ormai cosa comune, dev’esserci cascato anche lui. E poi è sbronzo. A volte da sbronzi si dicono stupidaggini gigantesche.

Lo guardo, Alvise, negli occhi.
Anche lui mi guarda, con aria di sfida.
Ma non eri un compagno, Alvise? Che ti succede?
Compagno? E che vuol dire compagno?
Vuol dire comunista, Alvise. E cos’altro, altrimenti?

I comunisti, Paolo, possono esistere solo in un paese comunista. Che senso ha oggi, in Italia, essere comunisti. È un controsenso.
Ma che diavolo dici! Essere comunista vuol dire stare dalla parte degli ultimi, o no? Tanto mi basta. Vuol dire credere nella grandezza del cuore umano, come direbbe Majakovskij, ma vuol dire anche combattere i nostri egoismi, quelli che ci portiamo appresso ogni giorno, per paura e per aridità, come diceva Pasolini. Insomma, io posso essere comunista anche qui in Italia, in questo momento storico. E infatti, lo sono. E lo eri anche tu.
Alvise è stordito ormai. Troppe birre a doppio malto al pub, troppo vino a casa, quella canna troppo forte, e per di più Capovilla e i suoi poeti e le sue interminabili citazioni. Io, di colpo, mi sento più sobrio che mai.

Alvise, amico mio. Sei cambiato, vedo.
Ma che t’hanno fatto gli zingari, per odiarli tanto.
“A mi? Gnente, diocan! Che i ghe prova!”

Ma se non t’hanno fatto niente, da dove ti viene tutto questo odio nei loro confronti? Perché ne parli come se… T’avessero ammazzato un parente. Non lavorano? E ci credo, nessuno offre loro un lavoro. Ma in realtà non è vero. Anche loro lavorano, fanno quel che possono. Io ne conosco uno, si chiama Vasco, è un mio caro amico, ed è un pittore straordinario.
Pittore! Un artista… Quello non è un lavoro, mi dice Alvise.

Vedi Alvise, gli zingari, come tu li chiami, non godono di “riconoscimento sociale”. È una definizione che si usa in sociologia. Un extracomunitario, socialmente, lo riconosciamo, è un immigrato. Lo zingaro invece, non è nessuno. Ma non è sempre stato così. Trent’anni fa non avevamo un rapporto così ostile con loro. Persino nella musica! Pensaci. Te le ricordi le canzoni? “Zingara”, era Bobby Solo. Bobby Solo! Vinse a San Remo! E va beh… Era il sessantanove, noi eravamo appena nati, ma la canzone ce la ricordiamo! E poi, negli anni ottanta, Umberto Tozzi! Si! Tozzi. Non te la ricordi quella canzone? Io la so quasi a memoria… “Zingaro, voglio vivere come te, andare dove mi pare, non come me…”. Umberto Tozzi! Non so perché, ma mi è sempre piaciuto. Che resti fra me e te. E che dire di quel capolavoro di Lolli, “Ho visto anche degli zingari felici”, te la ricordi? È bellissima, è commovente, è vera, è una canzone stupenda, dai…

Alvise mi guarda stupito, ma continua a subirmi. La canna mi ha reso loquace.
Io non ho cambiato idea. Non cambio le mie idee. Ho preso una decisione, tanti anni fa, ed è una decisione “politica”, che più “politica” non si può. Io sto dalla parte degli ultimi. E sto dalla parte dei Romanì. Si chiamano così, Alvise. Romanì, non zingari. Li abbiamo disumanizzati, per ridurli nella più cupa emarginazione. Dovremmo fare un bell’esame di coscienza, tutti quanti. Una democrazia la si riconosce quando rispetta le minoranze. E ci vuole rispetto per il popolo Romanì. Altroché! L’unico popolo al mondo a non aver mai mosso guerra a un altro popolo. Sempre scacciati via. Sempre esclusi e perseguitati, ecco perché sono diventati nomadi. Gli unici ad aver tentato una rivolta in un campo di sterminio, proprio ad Auschwitz, dove tennero sotto scacco le SS per mesi, e ne uccisero pure un po’. Poi furono tutti massacrati e bruciati, a migliaia. Ci vuole rispetto per questa gente, per Dio!

Alvise sembra non credere a ciò che sta ascoltando.
Sbarra gli occhi imputriditi di rabbia.
Mi fissa.
Attende qualche secondo, concentrato.
In un perfetto italiano questa volta, con calma, una calma terrificante, alzando la voce e scandendole bene, mi dice queste parole. E che dio mi perdoni.
“Se anche fosse una ragazzina quindicenne incinta. Se la trovassi a scassinare la mia porta. Le infilerei un coltello in pancia. E ucciderei il bambino, per primo”.

Sono pietrificato.

Nadia gli dice… Beh… Non ti sembra di esagerare un po’.
Cerco le forze. Dove sono, le mie forze?
Non so se sprofondare o se alzarmi di scatto e tirargli un cazzotto in faccia.
Cerco di rimanere calmo.
Mi metto una mano sul petto, e tiro un respiro profondo.
Mi sento desolato. Mortificato. Un soffio di morte, lo sento, nei polmoni.

Prova a ripetere ciò che hai detto, se ne hai il coraggio.
Alvise si alza, mi si avvicina flemmatico e porta il suo viso vicino al mio.
E le ripete.
Lentamente.
Uguali a prima.
Se anche fosse una ragazzina incinta…
Poi si allontana, con un ghigno ebbro e avvinto. Si avvia verso il salotto, e si siede. Si accende una sigaretta.

Guardo Nadia. La guardo negli occhi.
È dispiaciuta. È imbarazzata.
Non ci diciamo niente.
Restiamo in silenzio per un paio di minuti.
Decido di andarmene.
Il corridoio è buio.
Non ricordo dov’è l’uscita di casa.
Osservo Alvise per un ultimo istante, seduto su quel bel divano di pelle nera.
Ha l’aria smarrita.
Credo si senta colpevole di qualcosa.
Me ne vado Alvise. Giocheremo un’altra volta.
Alvise si alza, e mi accompagna alla porta.
È affranto, si vede.
“Ho soltanto espresso francamente il mio pensiero”.
Poi aggiunge, “mi dispiace”.
Lo guardo negli occhi, l’antico amico.
Il compagno.
Di bisbocce e sbronze, di sovietiche discussioni.

E mi viene in mente quella sera di tanti anni or sono, alla Letizia, quando due fasci di Forza Nuova, durante un dibattito di bestemmie, impaurirono allo sguardo furioso di Alvise, e se ne andarono alla chetichella, senza proferire una sillaba.
Ora Alvise non fa paura più a nessuno.
Il suo sguardo è rassegnato, si è chiuso in se stesso, in quell’odio primigenio, quella cosa abominevole che chiamiamo razzismo.
Con un po’ d’assurdo amore, gli rispondo.
Dispiace anche a me.
Non sai quanto.

Venerdì sera ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente.
Il popolo del Paese in cui vivo sta diventando un mostro.

da qui

 

 

I nostri militari: “Illegale riportare in Libia i migranti”

Ho deciso di pubblicare interamente questo servizio davvero meritorio di Francesco Floris dell’AGENZIA REDATTORE SOCIALE, che è andato a rivedere tutto quello che i nostri generali e i nostri ammiragli hanno dichiarato in sedi ufficiali negli anni scorsi, a cominciare dalle audizioni in Parlamento. “E’ illegale riportare in Libia i migranti”, “Il diritto del mare non vieta alle Ong di entrare in acque libiche”, “Se c’è pericolo, un’operazione di polizia diventa soccorso”. Tutto questo, all’attenzione del ministro dell’Interno Matteo Salvini e di chi la pensa come lui.

MILANO – “Il diritto del mare non vieta ad eventuali imbarcazioni delle organizzazioni non governative di prestare soccorso anche in acque Ecco quanto emerge dalle audizioni in Parlamento e dai documenti degli ultimi anni. Melone (Guardia Costiera): “Illegale riportare in Libia i migranti”. Credendino (Eunavfor Med): “Il diritto del mare non vieta alle ong di entrare in acque libiche”. Screpanti (GdF): “Se c’è pericolo, operazione di polizia diventa soccorso” territoriali libiche” dice, il 6 aprile 2017, l’ammiraglio Enrico Credendino, capo in comando di “Sophia”, l’operazione di contrasto ai trafficanti nel Mediterraneo, gestita dal dispositivo militare europeo Eunavfor. Lo dichiara di fronte alla commissione Difesa del Senato che lo incalza sul tema delle ong in mare. “Ma la presenza di navi, civili e militari, nei pressi delle acque territoriali libiche non fa aumentare le partenze?”, domandano numerosi senatori di diversi schieramenti politici. “Un’ipotesi che non appare credibile” la definisce Credendino, che sulla base di quanto riferitogli dagli ambasciatori di cinque Paesi del Sahel afferma: “I migranti risultano consapevoli dei rischi che corrono e ciò nonostante preferiscono affrontarli piuttosto che rimanere nei Paesi d’origine: i loro cittadini sono perfettamente a conoscenza del fatto che è molto alto il rischio di morire nel deserto o in mare, e che le donne vengono sistematicamente stuprate”. Nelle settimane in cui si assiste a un aspro dibattito sul tema dell’immigrazione e del soccorso in mare, è interessante rileggere cosa dicono e scrivono i militari e gli uomini delle forze dell’ordine quando vengono ascoltati nelle sedi ufficiali.

Il problema dei “fattori di attrazione” che portano i migranti a partire era già stato trattato da Credendino un anno prima che scoppiasse la polemica. L’ammiraglio italiano a capo della missione Ue aveva già risposto alla stessa domanda il 4 febbraio 2016, nella commissione congiunta Camera-Senato, spiegando che “quanto al pull factor, cioè al fatto che, in qualche modo, noi contribuiamo ad attirare i migranti, faccio presente che ogni giorno nell’area circa 20-22 mercantili vanno e vengono dalla Libia e decine e decine di mercantili vi circolano. Pertanto, se non ci fossero le navi militari i migranti verrebbero comunque salvati da altre imbarcazioni”.

Passiamo dalla marina militare alle Fiamme Gialle. “La stessa operazione di polizia, quando assume profili di pericolosità, diventa un’operazione di soccorso”. Parole del Generale di Divisione Stefano Screpanti, capo del III Reparto Operazioni del Comando Generale della Guardia di Finanza. È il 20 marzo 2015 quando Screpanti spiega, durante una tavola rotonda organizzata nella sede romana di Confitarma (la principale associazione italiana che riunisce armatori e imprese della navigazione), come in presenza di pericolo per persone e natanti, le operazioni di polizia cessino per dare priorità a quelle di soccorso. E aggiunge: “Anche nelle operazioni di contrasto all’immigrazione clandestina la salvaguardia della vita è un obiettivo centrale”. E ancora ribadisce: “È necessario mettere in atto ogni soluzione operativa che possa supportare l’acquisizione di elementi utili per approfondimenti investigativi e d’intelligence” ma “senza interferire sulle priorità attività di recupero e soccorso dei migranti”.

Cos’è allora un’operazione di soccorso e quando finisce? “L’obbligo di prestare soccorso non si esaurisce nell’obbligo di assistenza in mare ma comporta anche quello accessorio di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro”. È quanto dice a Palazzo Madama il 4 maggio del 2017, l’ammiraglio Vincenzo Melone, Comandante generale del Corpo di Capitaneria di Porto, poi congedato l’11 febbraio del 2018. Che risponde anche ai dubbi su cos’è un luogo sicuro? “Nel caso di salvataggio in mare di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in situazione irregolare, la nozione di ‘luogo sicuro’ non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone, comprendendo necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali”. Rispetto dei diritti che, aggiunge Melone, “impone agli Stati, pena la violazione della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiati del 1951 e della Convezione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di astenersi dal ricorrere a qualsiasi pratica che possa essere assimilata a un respingimento diretto o indiretto e di considerare ‘luogo sicuro’ un luogo che possa rispondere alle necessità delle persone sbarcate e che non metta in alcun modo a rischio i loro diritti fondamentali”.

Passa meno di una settimana da quell’audizione e l’ammiraglio Melone viene ascoltato una seconda volta, l’11 maggio 2017. Il senatore Alicata di Forza Italia gli domanda quanto l’operato della Guardia costiera sia influenzato dall’indirizzo politico del Governo Gentiloni. Risposta: “Il Corpo delle capitanerie di porto obbedisce alle convenzioni internazionali, a prescindere dagli orientamenti politici del governo pro-tempore”. Gli viene anche chiesto se le ong spengano i transponder per non farsi vedere dalle autorità. Perché in quei mesi il dibattito è incentrato su possibili collusioni fra ong e trafficanti. Melone risponde che quelle “apparecchiature operano su frequenze VHF e che trasmettono il segnale in linea retta senza seguire la curvatura del globo terrestre”. Questo comporta “una portata limitata – dice l’ammiraglio –. Se non c’è una nave militare in zona, eventuali unità, incluse quelle delle ong, potrebbero non essere visibili”. E chiude spiegando che comunque “alla Guardia costiera non risultano casi in cui dei battelli operanti per le ong abbiano spento le loro apparecchiature”.

È curioso notare che mentre la politica accusava le ong di spegnere i transponder, l’operazione “Sophia” scriveva il contrario nei propri documenti: nel novembre 2016 la missione invia dal quartier generale romano di via Centocelle un report semestrale a Bruxelles sulle proprie attività. A pagina 8 si legge che “i trafficanti sembrano essere consapevoli di dove trovare gli assetti navali di salvataggio, in particolare le ong che trasmettono le loro posizioni attraverso l’Automatic Identification System (AIS)”. L’Ais, cioè il sistema di tracciamento e identificazione automatica che le navi sono obbligate a montare, in ausilio ai sistemi radar, per evitare le collisioni. È su questi segnali che per esempio funzionano diversi siti internet che monitorano il traffico marittimo in tutto il mondo.

Da ultimo, quando il senatore Paolo Romani domanda all’ammiraglio se i migranti soccorsi in acque libiche potrebbero essere riaccompagnati in Libia, con l’ausilio della Guardia costiera italiana, Melone risponde che “ciò non è possibile in quanto contrario al principio di non respingimento”. Visto che “la Libia è un Paese connotato da grave instabilità interna e che non ha recepito la convenzione di Ginevra” allora per Melone “ciò comporta l’impossibilità per qualsiasi autorità, italiana o europea, che gestisca i soccorsi di riportare in Libia le persone soccorse”.
Toni diversi rispetto a quelli del dibattito politico attuale sulle migrazioni africane e via mare. Frasi che fanno specie, soprattutto se si pensa che tutti gli ufficiali e i militari citati sono a vario titolo sostenitori dell’addestramento della Guardia costiera libica e di accordi con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti.
(Francesco Floris, AGENZIA REDATTORE SOCIALE)

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– “È l’ordine più infame che abbia mai eseguito. Non ci ho dormito, al solo pensiero di quei disgraziati”, dice uno degli esecutori del “respingimento”. “Dopo aver capito di essere stati riportati in Libia – aggiunge – ci urlavano: “Fratelli aiutateci”. Ma non potevamo fare nulla, gli ordini erano quelli di accompagnarli in Libia e l’abbiamo fatto. Non racconterò ai miei figli quello che ho fatto, me ne vergogno”.

Parlano i militari delle motovedette italiane – quella della Guardia di Finanza, la “Gf 106” e quella della Capitaneria di porto, la “Cpp 282” – appena rientrati dalla missione rimpatrio. Sono stati loro a riportare in Libia oltre 200 extracomunitari, tra i quali 40 donne (3 incinte) e 3 bambini, dopo averli soccorsi mercoledì scorso nel Canale di Sicilia. Un “successo”, lo ha definito il ministro Maroni, che finanzieri e marinai delle due motovedette non condividono anche se hanno eseguito quegli ordini. Niente nomi naturalmente, i marinai delle due motovedette rischierebbero quanto meno una punizione se non peggio. Ma molti non nascondono il loro sdegno per quello che hanno vissuto e dovuto fare. “Eravamo impegnati in altre operazioni – dicono fiamme gialle e marinai della capitaneria – poi improvvisamente è arrivato l’ordine di andare a soccorrere quelle tre imbarcazioni, di trasbordarli sulle nostre motovedette e di riportarli in Libia”.

Non è stato facile, a bordo di quelle carrette del mare c’erano donne incinte, tre bambini e tutti gli altri che avevano tentato di raggiungere Lampedusa. “Molti stavano male, alcuni avevano delle gravi ustioni, le donne incinte erano quelle che ci preoccupavano di più, ma non potevamo fare nulla, gli ordini erano quelli e li abbiamo eseguiti. Quando li abbiamo presi a bordo dai tre barconi ci hanno ringraziato per averli salvati. In quel momento, sapendo che dovevamo respingerli, il cuore mi è diventato piccolo piccolo. Non potevo dirgli che li stavamo portando di nuovo nell’inferno dal quale erano scappatati a rischio della vita”.

A bordo hanno anche pregato Dio ed Allah che li aveva risparmiati dal deserto, dalle torture e dalla difficile navigazione verso Lampedusa. Ma si sbagliavano, Roma aveva deciso che dovevano essere rispediti in Libia. “Nessuno di loro lo aveva capito, ci chiedevano come mai impiegavamo tanto tempo per arrivare a Lampedusa, rispondevamo dicendo bugie, rassicurandoli”.

La bugia non è durata molto, poco prima dell’alba qualcuno ha notato che le luci che vedevano da lontano non erano quelle di Lampedusa ma quelle di Tripoli. Alla fine i marinai italiani sono stati costretti a spiegare: “Non è stato facile dire a tutta quella gente che li avevamo riportati da dove erano partiti. Erano stanchi, avevano navigato con i barconi per cinque giorni, senza cibo e senza acqua. Non hanno avuto la forza di ribellarsi, piangevano, le donne si stringevano i loro figli al petto e dai loro occhi uscivano lacrime di disperazione”.

Lo sbarco a Tripoli è avvenuto poco dopo le sette del mattino: “Vederli scendere ci ha ferito tantissimo. Ci gridavano: “Fratelli italiani aiutateci, non ci abbandonate””. Li hanno dovuti abbandonare, invece, li hanno lasciati al porto di Tripoli dove c’erano i militari libici che li aspettavano. Sulla banchina c’erano anche i volontari delle organizzazioni umanitarie del Cir e dell’Onu, ma non hanno potuto far nulla, si sono limitati a contare quei disperati che a fatica, scendevano dalla passerelle delle motovedette per tornare nell’inferno dal quale erano scappati. Le donne sono state separate dagli uomini e portati in “centri d’accoglienza” vicino Tripoli. Non si sa che fine faranno.
Solo uno è riuscito a sfuggire al rimpatrio. Un ventenne del Mali che aveva intuito cosa stava succedendo a bordo e si era nascosto sotto un telone. Ha messo la testa fuori solo quando la motovedetta della Finanza è attraccata a Lampedusa, ha aspettato che a bordo non ci fosse più nessuno e poi è sceso anche lui. È stato rintracciato mentre passeggiava nelle strade dell’isola ed ha subito confessato. Adesso si trova nel centro della base Loran di Lampedusa. Un miracolato.

(9 maggio 2009)

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Chi li aiuta a casa loro – Alessandro Gilioli

Giuba è l’unica capitale al mondo in cui non esiste un acquedotto, non esiste una rete fognaria e non esiste una rete elettrica. L’aeroporto è una striscia di bitume sciolta dal caldo, senza alcun edificio attorno: c’è solo una grande tenda bianca dell’Onu in cui si accalcano funzionari, diplomatici, cooperanti e faccendieri. Anche gli aerei sono quasi tutti delle Nazioni Unite, nelle sue varie agenzie, o di altre organizzazioni internazionali. È vietato fotografare, dappertutto, e i muri delle case sono segnati dai buchi di proiettile. Ma intanto è da un po’ che non si spara, nella capitale del Sud Sudan, e questa è già una buona notizia.

Forse l’unica, tuttavia.

Spesso si pensa che il Sud Sudan sia uno staterello, in realtà è grande il doppio dell’Italia. È il Paese più giovane del mondo: prima del 2011 era parte del Sudan, con cui in realtà non c’entra granché. Il Sudan è desertico, etnicamente arabo e di religione musulmana; questo pezzo d’Africa è invece fertile e piovoso, la sua popolazione è subsahariana dalla pelle molto scura, l’Islam non ha mai attecchito e sono tutti di credo cristiano o animista. Una catena di monti divide i due Paesi, che solo la superficialità coloniale aveva appiccicato tra loro con la colla.

Dal 2011, appunto, il Sud Sudan è diventato indipendente e non ha trovato altro modo con cui chiamarsi, anche perché a sua volta ha un’identità fragile e frammentata, abitato com’è da dozzine di etnie che parlano lingue diverse. La più numerosa è quella dei Dinka, nilotici d’alta statura; ma non sono più di un quinto della popolazione. Un’altra tribù importante – e avversaria della prima – è quella dei Nuer, meno imponenti ma più intellettuali. Poi ci sono infiniti altri gruppi e sottogruppi, alleati o nemici tra loro a seconda delle circostanze.

Quando il Paese è nato in teoria aveva tutte le carte per fare un salto dall’economia di sussistenza (pastorizia e agricoltura) in cui viveva da millenni: al nord, al confine con il Sudan, è pieno di petrolio; le foreste sono ricche di teak, legno pregiato; e la conservazione intatta di uno straordinario ambiente naturale avrebbe potuto anche creare un boom turistico. Invece il petrolio si è rivelato una maledizione: le due etnie principali hanno cominciato subito ad ammazzarsi per il controllo dei pozzi, poi la guerra civile si è frantumata in un caotico tutti contro tutti.

Oggi a Giuba comanda il capo dei Dinka, un tipo che si fa fotografare sempre con il cappello da cowboy regalatogli (dice) da George W. Bush. Il capo dei Nuer è invece in esilio, ma il suo esercito è ancora attivo e il Paese è tutt’altro che pacificato. In più, pezzi sparsi delle varie milizie si sono messi in proprio, trasformandosi in bande armate che vivono nella boscaglia e di lì escono per assaltare i villaggi, rapinare il bestiame, violentare le donne. Così più di un terzo della popolazione civile è fuggito a piedi dal Paese, perlopiù in Uganda. I pastori rimasti girano armati tipo Rambo.

Di contadini non ce n’è quasi più, se non nei villaggi di montagna, un po’ più difendibili. Le strade asfaltate non ci sono mai state; quelle di terra – abbandonate – sono spesso impraticabili per le buche profonde: e dopo un temporale è impossibile percorrerle, anche coi migliori fuoristrada. In ogni caso chi ci va lo fa a suo rischio, perché le bande di militari predoni possono uscire dal bush in ogni momento. Il servizio postale è sospeso da tempo. Anche la telefonia mobile – indispensabile in Paesi come questo, che quella fissa non l’hanno mai avuta – non funziona più da anni: i ripetitori sono stati distrutti o sono rimasti senza energia. Insomma è il Medioevo, ma quello del X secolo: nessuna forma di comunicazione, paura diffusa, scorrerie barbariche.

Milioni di profughi, si diceva, hanno sconfinato in Uganda, e continuano a farlo ogni giorno. Tra i due Paesi la frontiera è porosa, i disperati del Sud Sudan scendono dai monti stremati e vengono accolti di là dal confine dall’Unhcr e dalle Ong. Tutta l’Uganda del nord è costellata di campi profughi: talvolta tende, talvolta lamiere o tukul. I sud sudanesi qui trovano un posto dove semplicemente non rischiano di essere ammazzati ogni giorno. L’Unhcr e le Ong distribuiscono cibo – fagioli, di solito – e medicinali urgenti. I più anziani accendono un fuoco per prepararsi l’ arege , un distillato superalcolico a base di mais, sorgo e cassava. La sera, se ne ubriacheranno.

Salendo in fuoristrada dal campo ugandese di Kitgum verso il Sud Sudan ci si accorge di essere arrivati al confine perché finisce la strada asfaltata. Di là, è solo terra. La frontiera è un tukul dove si pagano cento dollari a persona per entrare. Appena oltre la linea incrociamo una camionetta piena di uomini armati senza divisa, alcuni a torso nudo, in piedi: hanno saputo chissà come che sono arrivati degli stranieri e vanno al posto di blocco con i fucili, a prendersi i soldi. Ci salutano e ridono, non sappiamo a che milizia appartengono.

Così possiamo proseguire verso Isohe, la nostra meta: è in questo villaggio di capanne che una Ong italiana, l’Avsi, ha piazzato la sua base per provare ad affrontare una situazione umanitaria disperata.

Il primo, primissimo obiettivo riguarda la salute e l’alimentazione: qui, da quando è scoppiata la guerra civile, si muore di tutto, dalla diarrea alla malaria, dal tifo alla rabbia.

Quelli di Avsi intervengono nel modo più capillare possibile: visitando nei loro centri soprattutto le donne incinte e i bambini, per dividerli poi tra quanti possono tornare al villaggio con le buste di cibo proteico – una pappa a base di pasta d’arachidi – e quanti invece devono essere ricoverati nell’ospedale di Isohe, dove un medico ugandese cerca di curare chi può, con gli strumenti che ha.

Il momento più delicato è quello in cui i bambini vengono pesati – su una bilancia che è un sacco appeso – e misurati. Se il braccialetto di carta avvolto attorno al piccolo polso arriva al segno rosso, la situazione è disperata.

Ma a volte basta uno sguardo ai capelli: se danno innaturalmente sul biondo è segno di pessima nutrizione e c’è bisogno di un intervento urgente. Circa 150 mila persone, nella vallata, sono monitorate così, ma è non è facile raggiungere le famiglie che si sono nascoste in montagna e hanno paura di scendere.

Affrontare la fame e le malattie, inoltre, non basta: è per questo che i ragazzi di Avsi lavorano anche in altre due direzioni, cioè l’agricoltura e la scuola. La prima è un paradosso: in una terra dove basta buttare un seme per far spuntare un albero, le colture sono state quasi tutte abbandonate per timore degli assalti armati.

Ogni attività stanziale è ad alto rischio e qui resistono solo i pastori, che fanno vita nomadica. L’Ong cerca quindi aree protette – o comunque meno battute dalle bande – per provare a far rinascere le coltivazioni, fornendo sementi, istruzioni tecniche, vanghe.

Anche far andar avanti le scuole non è facile: non essendoci più uno Stato, nessuno paga gli insegnanti, che quindi spesso smettono di andare al lavoro; anche le famiglie sono poco propense a mettere a repentaglio la vita dei loro ragazzini, che magari devono camminare una o due ore nel bush per arrivare a scuola. Avsi cerca di rimediare con programmi tipo “Food for education”: agli alunni si dà da mangiare, così le famiglie sono incentivate a mandarli. A volte anche gli insegnanti vengono nelle classi perché a mezzogiorno è garantito un pasto, sempre grazie alle Ong. Alcune scuole inoltre hanno dei sotterranei in cui nascondersi se arriva una banda.

La sfida sembra impossibile, ma continua. Grazie alla passione di chi l’ha intrapresa e ha scelto di vivere qui, su brande assalite da zanzare, tra il caldo torrido e le piogge torrenziali, lontano da ogni comodità, per aiutare altri esseri umani; ma anche grazie all’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo che – insieme ai donatori – sponsorizza il “progetto Sanpic”, che sta per Sicurezza alimentare, nutrizione e protezione di Ikwoto County, cioè quest’area meridionale del Sud Sudan.

Una regione più raggiungibile paradossalmente dall’Uganda che dalla capitale Giuba, dove si può arrivare solo con un tortuoso viaggio in parte in fuoristrada e in parte con un aeroplanino che decolla dalla “strip” sterrata di Torit, indispensabile per evitare i luoghi di terra più a rischio di milizie aggressive.

Ma è proprio in questa valle isolata e nelle sue scuole frequentate per fame che si mettono insieme ragazzini di etnie diverse, i cui padri si sono uccisi tra loro. È qui che si insegna una lingua comune, l’inglese, che magari gli verrà utile da grandi. È qui che i figli dei nemici giocano insieme sulla stessa altalena e mangiano puré di sorgo seduti sotto lo stesso albero.

Ed è qui, in fondo, che il Sud Sudan ha ancora una speranza.

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Ministro Salvini, ecco la tua Guardia Costiera libica, il tuo porto “sicuro” – Giulio Cavalli

Se volete guardare negli occhi la Libia, il suo essere porto sicuro come da qualche giorno vorrebbe convincerci il Ministro dell’Inferno Matteo Salvini, se volete sforzarvi di capire perché la Libia non può essere considerata un alleato nella risoluzione dei flussi migratori e ancora meno nella battaglia per il rispetto dei diritti umani e contro la povertà allora potete osservare con attenzione le immagini che arrivano dal ONG Open Arms e fissare gli occhi spenti della donna e di quel bambino (presumibilmente suo figlio) che sono stati fatti morire di freddo sui resti di un barcone distrutto. Cadaveri che qualcuno si ostina a chiamare affogati ma che in realtà, ancora una volta, sono stati ammazzati.

Assassinati perché proprio quel barcone è stato oggetto di quello che i libici si ostinano a chiamare salvataggio pensando che basti disinfettare un po’ il linguaggio per risultare affidabili e credibili. Ci dovrebbe spiegare la Guardia Costiera libica perché nel loro presunto soccorso sono avanzate due donne e un bambino, due cadaveri e una donna del Camerun salvata in fin di vita. Ci dovrebbero spiegare in quale canone di umanità e di convenzioni internazionali per i diritti dell’uomo rientri la pratica di sfasciare un barcone lasciandoci centro tre disperati di resto.

Se si avesse voglia di approfondire, o se si avesse il coraggio di abbandonare la propaganda utile a spremere la bile, si potrebbe rileggere i casi di questi ultimi anni che descrivono perfettamente la Guardia Costiera libica come un’accolita di criminali (spesso anche fiancheggiatori degli schiavisti e degli scafisti) che utilizzano i rubinetti dell’emigrazione come arma di ricatto nei confronti dell’Europa. Caro Salvini, sono loro i vicescafisti di cui vai blaterando da mesi. E la reazione alle immagini rese pubbliche da Open Arms ci dice anche altro: sperare che rimanga sguarnita quella zona del Mediterraneo significa anche non dovere fare i conti con i testimoni oculari che sbriciolano l’ipocrisia internazionale. Per questi due cadaveri recuperati oggi ce ne sono altri, centinaia, che sfuggono all’attenzione dei media e della politica e che non rovinano i piani di chi davvero crede che un’ordinanza possa servire a fermare chi scappa dalla fame e dal piombo.

Caro Salvini, tu che da settimane ci ammorbi con le tue dichiarazioni accompagnate dall’espressione “lo dico da padre” dicci “da padre” se affideresti i tuoi figli a questa Libia, spiega ai tuoi figli che nello scorso giugno sono morti in mare il 20% delle persone che hanno tentato la traversata rispetto al 2,4% dello scorso anno. Se viene troppo difficile con i numeri racconta ai tuoi figli, “da padre” che a giugno sono morte (accertate, di quelli di cui ci siamo accorti) 564 persone rispetto alle 8 del mese precedente. Spiegaci il “buon senso” di tutto questo. Siamo curiosi.

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Migranti. Dai Comitati internazionali dei campi di concentramento nazisti un appello al rispetto della dignità umana

I presidenti, vice presidenti e segretari generali dei Comitati internazionali dei campi di concentramento nazisti di Buchenwald-Dora, Dachau, Mauthausen, Natzweiler-Struthof e Ravensbrück si sono riuniti alla Casa della Memoria di Milano il 1° luglio 2018 su iniziativa dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi nazisti).
Di fronte alle comprovate minacce contro la Memoria e il futuro stesso dell’Europa e dei suoi cittadini lanciano questo appello:

Noi siamo depositari delle testimonianze dei superstiti dei crimini nazisti, portatori di una memoria viva e dolorosa; ci facciamo portavoce delle migliaia di uomini e donne sopravvissuti ai campi, dei loro discendenti e dei tanti semplici cittadini che militano nelle nostre rispettive associazioni.
Siamo impegnati nel preservare dall’oblio, dalla banalizzazione e dalla distruzione fisica gli ex campi di concentramento, luoghi di Memoria dell’Umanità, basandoci nella nostra azione, tra l’altro, sulla Risoluzione del Parlamento Europeo del 11 febbraio 1993 relativa alla “protezione europea e internazionale, come monumenti storici, dei siti dei campi di concentramento nazisti”. I recenti attacchi alle strutture di Mauthausen e di Flossenbürg suscitano la nostra indignazione.

Ci indigna l’astensione degli Stati dell’Unione Europea sulla risoluzione  presentata all’ONU il 21 novembre 2014, avente per oggetto “la lotta contro la glorificazione del nazismo”.

Restiamo vigili di fronte ai tentativi nazionalisti e populisti di cancellare dalla memoria europea questi luoghi di barbarie ma anche di lotta e di solidarietà.

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ricorda che “il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”. Centinaia di migliaia di deportati nei campi nazisti sono state vittime di tali barbarie.

Da oltre 70 anni i sopravvissuti e i loro discendenti sono fedeli agli impegni assunti al momento della liberazione dei campi. Hanno operato senza tregua per la pace e la solidarietà fraterna tra i popoli. Portando le loro testimonianze hanno lottato contro il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia e le tesi dell’estrema destra in Europa.

Oggi, di fronte all’arrivo dei rifugiati spinti dalle guerre e dalla miseria, la risposta di alcuni stati europei non è l’accoglimento umanitario ma la chiusura delle frontiere.

Il Mediterraneo è divenuto un immenso cimitero nel quale si sono spente le speranze di migliaia di uomini, donne e bambini.

L’Europa sembra aver perduto la propria memoria. Molti europei, prima e dopo la guerra, sono stati a loro volta rifugiati e hanno conosciuto la solidarietà ma anche la discriminazione e il rifiuto. L’Europa deve ricordare le lezioni terribili della sua storia recente e non chiudere gli occhi di fronte alle proprie responsabilità.

Quali valori vogliamo trasmettere alle giovani generazioni? L’egoismo e la paura dell’altro non devono prendere il posto dei valori umani che sono al centro della nostra storia comune e dei nostri impegni.

Facciamo appello a tutti gli eletti nelle istituzioni nazionali ed europee affinché la comune ricerca di risposte adeguate ai fenomeni migratori, sia guidata prima di tutto dal rispetto della dignità umana.

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dice il magistrato Olindo Canali

…Dice il magistrato Olindo Canali: “Abbiamo inventato addirittura i diversamente stranieri” ha detto con riferimento ai cittadini comunitari durante il suo intervento intitolato “Straniero per legge”. Una mezz’ora a tutto campo, quella del magistrato che lavora nella sezione Protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini comunitari del tribunale di Milano. “In passato non c’erano nemmeno i passaporti. Si controllavano le merci ma non le persone”. Quando il giudice ascolta i racconti dei migranti che chiedono protezione per cercare di capire se la loro storia è vera, falsa o verosimile vede “la paura negli occhi degli immigrati” e si meraviglia che il dibattito attuale sia tutto sui timori degli italiani rispetto al fenomeno migratorio. La paura perché il magistrato che “condanna un uomo a 25 anni di carcere sa che la pena prima o poi terminerà”. Mentre quella “di chi è obbligato ad andarsene non finisce mai”.

Non è naif il giudice Canali: “Abbiamo un problema di criminalità connessa al fenomeno migratorio” e cita il 68 per cento della popolazione carceraria formata da stranieri per le pene fino a 4 anni. Percentuale che si inverte  per i reati più gravi: “Per pene superiori ai 20 anni solo il 5 per cento dei reati è commesso da stranieri”. Un dato che racconta molto anche dell’Italia. Un affondo anche verso la politica. “Pezzi di classe dirigente si stanno accanendo contro la protezione umanitaria” che è prevista “non per i perseguitati o chi proviene da aree ad alti tassi di violenza” ma comunque per persone “ad alti indici di vulnerabilità: vittime di tratta o di tortura, donne stuprate”.

La battaglia dei numeri che, per Canali, non serve a nulla: “Nella nostra sezione milanese stiamo giudicando i casi del 2015 e fino alla metà del 2016, durante il picco degli arrivi nel nostro Paese”. Poi il calo, soprattutto degli sbarchi, e “sarà la storia a giudicare se il ‘patto con il diavolo’ che abbiamo siglato in Libia sia una mossa politica giusta o sbagliata”. Una riflessione globale il magistrato la fa, forte dei racconti accumulati e raccolti nella sezione Protezione umanitaria del tribunale meneghino: “Vengono a casa nostra” come si ripete anche perché “siamo andati a casa loro: nel Delta del Niger ci sono bambini di 8 anni che sviluppano tumori” in quella che, chiude il magistrato, “è diventata la pattumiera del mondo a causa dell’industria petrolifera”. (Francesco Floris)

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L’Europa muore e se lo merita tutto – Alessandro Gilioli

Orrendo, grottesco, cieco, irresponsabile, meschino: trovatelo voi l’aggettivo più adatto a definire il comportamento dell’Europa verso l’Africa, in questi giorni.

E parlo dell’Europa tutta, non solo del nostro ridicolo Conte (che peraltro segue la strada di Minniti): parlo dei supponenti Macron e Merkel, dei fascistoidi di Visegrad, degli eleganti nordici.

Parlo dell’Europa tutta che non si occupa di Africa ma di rifiutarne i migranti, che frigna per l’effetto fregandosene della causa, che si rimpalla al suo interno esseri umani – prendili tu, no prendili tu! – con lo stesso cinismo con cui cent’anni fa si spartiva la loro terra – la prendo io, no la prendo io! – e come ancora adesso se ne spartisce le risorse naturali, i contratti, le dighe, l’import di armi, i giacimenti, gli appalti – li prendo io, no li prendo io!

Europa di merda, o meglio Stati e governi d’Europa di merda, tutti senza eccezioni, tutti così ipocriti da dimenticare (fingere di dimenticare!) che siamo andati noi a casa loro per primi, e non disarmati, e non per sopravvivere ma per arricchirci, per derubarli, per schiavizzarli e trasportarli nelle Americhe, poi per impiantarci business e dittatori, poi per finire di depredarli di petrolio, oro e bauxite.

Stati d’Europa di merda, che ora guardano ai migranti (via, via!) e non all’Africa, non a quello che potrebbero – dovrebbero – fare per rimediare almeno un po’ ai propri danni, per lenirne le ferite e limitarne le stragi, no, ci mancherebbe: il famoso e tante volte promesso “piano Marshall” – tanto dovuto moralmente quanto unica strada pragmatica per convivere affacciati sullo stesso lago chiamato Mediterraneo – non appare in nessuna legge di bilancio di nessun singolo Paese e ancora meno della cosiddetta Unione.

Ma Unione di cosa, poi? L’unica cosa in cui siamo uniti è nell’identificare come emergenza nostra quella che è solo un’emergenza vitale loro, nel rifiutare anche solo l’idea di esserne stati causa o concausa, nel respingerne i più disperati chiudendo dolosamente gli occhi davanti alle cause di questa disperazione.

Ci avevano insegnato a scuola gli ideali europeisti – Ventotene, Spinelli, poi pure l’Erasmus – e ci ritroviamo oggi davanti un’Unione basata solo sull’egoismo di ogni Stato uno contro l’altro e di tutti gli Stati contro ciò che c’è fuori.

Morirà, un’Europa così, anzi sta già morendo: perché basata su disvalori, su meschinità, su bugie: patetica e gigantesca rissa di condominio il cui unico scopo di ciascun condomino è non pagare le spese dovute – e se proprio qualcosa si deve pagare, paghi il vicino, non io.

Morirà, un’Europa così, un’Europa che immette cause di merda e ne trarrà quindi conseguenze di merda, e non ci sarà muro che tenga, né in terra e in mare, né qui né altrove, di fronte agli effetti di queste cause.

Morirà, un’Europa così, anzi sta già morendo, e se lo merita tutto.

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Migranti: la giusta misura delle cose – Gabriele Ferrari

In questi giorni si sentono tante sparate sui migranti e sui rifugiati e coloro che si danno da fare per aiutarli che disorientano, quando non imbrogliano coloro che ascoltano questa… interminabile campagna elettorale. La propaganda politica afferma che stiamo subendo un’invasione da parte dei migranti: «Ci portano via il lavoro, le case… rischiamo di perdere la nostra cultura, addirittura… la fede».

Per carità, nessuno vuol negare che il problema migranti sia un vero problema. Lo è e per questo attende di essere affrontato dalla politica con una legislazione che congiunga legalità e umanità, e con una prassi rispettosa della verità e più ancora delle persone.

Certamente questo problema è accaduto nella peggiore delle stagioni possibili, ma la povertà e la disperazione della gente che fugge da casa propria e dalle prigioni lager della Libia non ha calendario. Altrettanto vero è che noi non possiamo accogliere e trattare con dignità tutti quelli che arrivano in Italia, ma questo non ci autorizza a trattare da delinquenti quelli che doverosamente salviamo dalle onde del Mediterraneo e quelli che si danno da fare per questo scopo.

È disgustosa la propaganda di quei partiti che, per guadagnare voti, inventano e gonfiano le cifre e le conseguenze e nascondono la verità ai cittadini, usando furbescamente l’insicurezza e la paura di questo tempo. Per non dire dell’uso strumentale della religione… con il libro dei Vangelo e il rosario… sventolati in pubblico per raccogliere voti e consensi da parte di chi vuole il Crocifisso negli uffici pubblici, ma caccia i “poveri cristi” come fossero degli appestati.

 

È davvero un’“invasione”?

Per questo e per dare le giuste proporzioni al problema della migrazione in Italia su Il Sole 24 Ore del 15 luglio u.s. è stato pubblicato un interessante articolo di Riccardo Barlaam dal titolo: In Europa solo il 2% degli africani in fuga.

Dopo aver ricordato che anche i nostri avi, ai primi del Novecento, hanno lasciato l’Italia a causa della fame, della siccità, della mancanza di lavoro, delle guerre e della persecuzione politica, l’autore afferma che non si può limitare lo sguardo a quello che vediamo attorno a noi.

Se si guarda un po’ più lontano, si vede che c’è un’Africa più vasta con una popolazione di oltre un miliardo di persone e i suoi 54 Stati diversi, che non si limita alla costa che si affaccia sul Mediterraneo, e con l’Africa c’è un mondo… in cui i rifugiati sono molto più numerosi di quelli che noi conosciamo.

Ci rendiamo allora conto che non è in atto un’«invasione di immigrati» verso l’Italia, anzi. Secondo l’agenzia per i rifugiati dell’ONU (UNHCR) siamo di fronte a un calo degli sbarchi. A volte si dimentica (o si vuol dimenticare) che dei migranti abbiamo bisogno – si legge nell’articolo –, visto che in Italia ci sono lavori che nessuno vuole più fare, che i nostri anziani sono accompagnati nell’ultima fase della vita da un esercito silenzioso di badanti e che, in agricoltura e in molte fabbriche, sarebbe complicato immaginare di continuare la produzione senza la forza lavoro a basso costo degli immigrati regolari.

L’articolista ci ricorda anche che l’America è diventata la prima potenza mondiale grazie all’integrazione delle seconde generazioni di migranti; che il più grande imprenditore americano, Steve Jobs, era di origini siriane; che l’attuale inquilino alla Casa Bianca è figlio di un immigrato tedesco e il suo predecessore era di discendenza kenyana; addirittura che l’uomo che sta oggi sulla sede di Pietro, papa Francesco, viene dell’Argentina ma è figlio di immigrati italiani.

Il punto, quindi, non è tanto di denunciare un’invasione di migranti, che oltre tutto non è tale, ma di promuovere una vera integrazione che trasformi i migranti da fuggiti di casa in cittadini e in energie vive per la comunità civile.

 

Uno sguardo all’Africa

Nessuno può chiudere gli occhi sui problemi che accompagnano l’immigrazione, dal dovere di contrastare il traffico di esseri umani alla ripartizione degli oneri dell’accoglienza, che dovrebbero essere affrontati dalla politica la quale, invece, è in bancarotta etica non sui social, come purtroppo avviene.

Ma, se allarghiamo i nostri sguardi, ci renderemo conto che le migrazioni forzate nel mondo sono molto più vaste di quella che noi chiamiamo l’«invasione». La già ricordata Agenzia ONU per i rifugiati afferma che ogni 113 persone nel mondo una è costretta alla fuga. Dal 2015 – complice la guerra in Siria – 65,3 milioni di rifugiati hanno lasciato il loro Paese, un numero superiore agli abitanti di nazioni come Italia, Francia o Gran Bretagna. Ogni minuto in qualche posto del mondo 24 persone sono costrette a lasciare la propria casa. Fino al 2005 erano sei al minuto.

In Italia, nonostante la percezione, in termini assoluti il numero di rifugiati e di migranti è aumentato ma è basso se si considera la tendenza globale.

I profughi in Africa nel 2017 sono raddoppiati (secondo il Global report on internal displacement, il GRID, del Norwegian refugee council).

L’Africa subsahariana, che rappresenta solo il 14% della popolazione mondiale, ha da sola quasi la metà dei nuovi rifugiati: 5,5 milioni di persone, 46,4% del totale mondiale. Nord Africa e Medio Oriente hanno avuto 4,5 milioni di rifugiati. Nel 2017 hanno lasciato la loro casa in Africa circa 10 milioni di persone. Ma dal “fronte Sud” di Italia, Spagna e Grecia sono transitate verso l’Europa 172.301 persone, con 3.139 tra morti e scomparsi stimati. Su 10 milioni di profughi africani, insomma, solo 172 mila prendono la via del mare verso l’Europa e, in particolare, l’Italia.

Il Paese africano che ha il più alto numero di rifugiati è la Repubblica democratica del Congo (2,2 milioni) dove è in corso una guerra civile dimenticata ormai da decenni nel Kivu, con violenze e scontri tra bande armate e truppe governative, scandalosamente mantenuta in atto da chi persegue la nuova “corsa dell’oro”, alla conquista cioè dei minerali per alimentare le batterie per gli smartphone, gli apparecchi elettronici e, oggi e domani, le auto elettriche.

Le grandi compagnie mondiali delle estrazioni minerarie si servono di fornitori locali e, in questo modo, la catena produttiva allenta le maglie, si creano e si permettono situazioni di sfruttamento e inquinamento ambientale intollerabili.

Centinaia di migliaia di persone lavorano nelle miniere, donne e bambini compresi, in condizioni lavorative e sanitarie disumane. Amnesty International ha ripetutamente denunciato l’utilizzo di «minatori improvvisati» per l’estrazione del cobalto in Congo. C’è da essere sorpresi che coloro che possono scappino da tali situazioni?

Per la prima volta si è fatto il censimento delle persone che sono costrette a spostarsi a causa della siccità (l’emergenza ecologica, provocata solo in parte dagli africani!) in Etiopia, Somalia, Burundi e Madagascar (1,3 milioni). La World Bankstima che, nel 2050, i rifugiati “climatici” saranno oltre 140 milioni.

 

È possibile una soluzione?

Questi sono numeri allarmanti di rifugiati che non possono lasciarci dormire in pace soprattutto se dobbiamo ammettere di essere parte in causa della situazione globale. Non possiamo soltanto sapere. Noi siamo oggi responsabili del persistere di queste realtà. Non basta che ci mettiamo il cuore in pace dicendo: “Aiutiamoli a casa loro”, perché gli aiuti che i nostri governi offrono a quelli locali in Africa non vanno mai alla gente e allo sviluppo della gente ma ad arricchire i governanti: parola di un missionario che, come i suoi confratelli, sa di dire il vero per esperienza vissuta.

La strada per frenare (bloccare è impossibile!) questo fenomeno delle migrazioni è altra: è far cessare le guerre aperte o clandestine, combattute con armi che vendiamo noi, guerre che spesso sono mantenute per gli interessi delle compagnie occidentali; far crescere la coscienza democratica attraverso la formazione scolastica della gioventù che capirà il dovere di contribuire alla costruzione del proprio Paese; accogliere, accompagnare e integrare coloro che vengono da noi con umanità e spirito di fraternità, come continua a ripetere il papa. Sono nostri fratelli che stimolano la nostra solidarietà. In fondo le migrazioni sono un’opportunità per il ricupero di quei valori etici ed evangelici che stiamo purtroppo perdendo.

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Redazione
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Un commento

  • Il 1°Agosto la Procura della Repubblica di Roma è stata formalmente richiesta di indagare se nelle dichiarazioni di Matteo Salvini contro gli immigrati in occasione dell’approdo a Trapani della nave Dicotti si configuri il reato previsto all’articolo 604 del Codice Penale e cioè .
    Dopo che avrà assegnato all’atto il numero del procedimento, la Procura potrà scegliere due strade: iscrivere Matteo Salvini nel Registro degli Indagati oppure procedere contro ignoti. Qualora le indagini portassero alla incriminazione di Salvini, questi difficilmente potrebbe evitare il processo in virtù della immunità parlamentare. Di recente infatti la Corte Costituzionale, pronunciandosi sul caso del Senatore Calderola chiamato a rispondere di ingiurie profferite nel corso di un comizio all’indirizzo della deputata del PD Cécile Kyenge, ha dichiarato non applicabile l’istituto dell’immunità, perché le ingiurie non attengono all’attività politica di un parlamentare. La Coorte ha così annullati gli effetti della votazione con la quale l’aula del Senato aveva inteso concedere l’immunità al noto senatore leghista.
    La questione è stata illustrata in questi termini dall’avvocato Francesco Romano, estensore dell’esposto/denuncia. Il legale ha agito su mandato della “cittadina europea di origine africana” Paula Yao, come essa stessa si è presentata intervenendo nella conferenza stampa convocata per rendere nota l’iniziativa giudiziaria intrapresa su impulso dell’Associazione Baobab Experience. L’avvocato Romano ha precisato che il reato in questione, originariamente introdotto nel nostro Ordinamento dalla Legge Mancini, è anche perseguibile d’ufficio, ma si è ritenuto necessario avvalersi della facoltà di rivolgersi alla Autorità Giudiziaria, che la Legge attribuisce a qualsiasi cittadino o cittadina che venga a conoscenza di reati. I motivi di questa scelta li ha illustrati in apertura della conferenza Roberto Viviani, presidente dell’associazione Baobab, che, con riferimento a quanto è avvenuto in Europa lo scorso secolo, ha affermato che quando sono minacciati la dignità delle persone e i diritti all’eguaglianza bisogna intervenire senza esitazione se si vuole evitare che la storia possa ripetersi nei suoi risvolti più bui. Gli stessi concetti li ha ribaditi Paula Yao ricordando che appena si è avvicinata al Baoba ha sentito affermare dal coordinatore dell’associazione Andrea Costa che se ad essere calpestato è il rispetto dovuto ad ogni essere umano non possono esservi mezze misure e non ci si può nascondere nelle “zone grigie”della società, ma bisogna schierarsi subito dalla parte giusta. accanto alla quale ha invitato a schierarsi .
    Non appena la Procura assegnerà il numero del procedimento, l’avvocato Romano provvederà ad integrare la denuncia con l’indicazione di altre dichiarazioni di Matteo Salvini suscettibili di venir considerate quale propaganda dell’odio razziale. Poi toccherà ai Giudici.

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