Migranti, Brexit e noi

di Gugliemo Ragozzino

1 – Il suono del dong.

2 – La magia dell’emigrazione (spiegata al popolo ricco).

3 -Global Compact for Migration: il caso dell’Italia

Il giudice democratico

A Los Angeles davanti al giudice che esamina coloro

che vogliono diventare cittadini degli Stati Uniti

venne anche un oste italiano. Si era preparato seriamente

ma a disagio per la sua ignoranza della nuova lingua

durante l’esame alla domanda:

che cosa dice l’ottavo emendamento? rispose esitando:

1492.

Poiché la legge prescrive al richiedente la conoscenza della lingua nazionale,

fu respinto. Ritornato

dopo tre mesi trascorsi in ulteriori studi

ma ancora a disagio per l’ignoranza della nuova lingua,

gli posero la domanda: chi fu

il generale che vinse la guerra civile? La sua risposta

fu: 1492 (con voce alta e cordiale). Mandato via

di nuovo e ritornato una terza volta,

alla terza domanda: quanti anni dura in carica il presidente?

rispose di nuovo: 1492. Orbene

il giudice, che aveva simpatia per l’uomo, capì che non poteva

imparare la nuova lingua, si informò sul modo

come viveva e venne a sapere: con un duro lavoro. E allora

alla quarta seduta il giudice gli pose la domanda:

quando

fu scoperta l’America? e in base alla risposta esatta,

1492, l’uomo ottenne la cittadinanza. (Bertolt Brecht)

1. Il suono del dong

Di migrazioni si può parlare in termini geografici, storici, demografici, politico-sociali, economici. Dal lato dei Paesi ricchi c’è un eccesso di domanda irrisolta, per molti lavori faticosi e sotto pagati. Dall’altro lato – dell’offerta di lavoro – contano l’avere o meno da mangiare, lo scarso o nullo reddito, un disastro ambientale. O la voglia di vedere il mondo. Sono decisive le conseguenze catastrofiche, ma anche lunghe e lente, di un cataclisma, una guerra, una siccità, oppure una disperata rottura nel popolo, una rivolta generazionale. Il Libro che generazioni e generazioni hanno considerato antico e venerabile, ricorda un fatto. C’è Abram…. Egli parte, con gli armenti, dalla sua terra d’origine, Ur – fra il Tigri e l’Eufrate – e arriva a Canaan, vicino al mare Mediterraneo. Avviene poi che anche a Caanan c’è carestia e allora riparte verso Ovest, verso l’Egitto. Dice a Sarai, la bellissima moglie: «diciamo che sei mia sorella, avremo meno guai». Così Sarai, per evitare guai, passa nell’harem del faraone. Gli immigrati, allora e ora, devono fare compromessi, devono molto spesso dissimulare per evitare il peggio, per ottenere qualcosa: una casa, un lavoro, una vita più sicura.

Al termine della catena di migrazioni, iniziata ancor prima di Abramo e Sara – i cui nomi, di tappa in tappa, di luogo in luogo, sono cambiati – vi sono perfino le 39 persone, di aspetto cinese, 32 corpi di uomini, 7 di donne, due di adolescenti, ritrovati in un frigocontenitore vicino a Londra a fine ottobre 2019. Però, a ben guardare i documenti, le 39 persone sono tutte vietnamite. Tutte persone partite da settimane, forse mesi e infine riunite in Belgio, sulla sponda di un mare europeo, alla vigilia di quel 23 ottobre in cui tutte le loro spoglie senza vita sono state ritrovate nel container, alla periferia della grande Londra, a Grays, nell’Essex, al Waterglade Industrial Park, uno spazio presso l’estuario del Tamigi. Il premier inglese Boris Johnson, appena nominato dalla regina Elisabetta, ha dichiarato, portando i suoi fiori in omaggio alle vittime, che «l’intera nazione e il mondo sono colpiti da questa tragedia e dalla crudeltà del fato sopportati da questi innocenti che speravano di avere una vita migliore in questo Paese».

Nel giorno dei fiori del premier, le autorità inglesi non erano ancora state capaci di riconoscere la provenienza dei corpi trovati nel container, tanto da indicarli, nelle prime informazioni, come cinesi a tutti gli effetti, o «probabilmente» cinesi. Abbiamo letto tutti, nel mondo benestante e sordido, spesso con malcelato fastidio, forse con distacco, le cronache sui “cinesi” rinvenuti presso Londra, nel gelo di un rimorchio. «Cinesi… i soliti cinesi; peggio per loro, s’infilano dappertutto! Cinesi… perché mai preoccuparsi? Sono così tanti, sono miliardi, i cinesi!». Più tardi però sono state famiglie vietnamite delle province di Nghe An e di Ha Tinh affacciate sul Golfo del Tonchino, distretti poverissimi di un Paese povero, a chiedere notizie dei propri cari, perduti da qualche parte, dispersi, forse in pericolo, non più collegati, e offrire così una traccia per capire chi fossero quei morti.

Un crescendo, inarrestabile. Una madre, affranta, mostrava la foto della figlia, Pham Thi Tra My, ventisei anni. «Mi ha chiesto perdono» raccontava, piangendo. «Non sono stata capace di concludere il viaggio» mi ha detto. «Temo di aver messo tutta la famiglia nei guai… Scusami…non ce la faccio più… Non respiro». I giornali inglesi hanno scritto che la ragazza (potrebbe essere suo il corpo della ragazza minuta, ritenuta un’adolescente, segnalato fra i 39 del frigo container) contava di trovare lavoro come manicure.

Un altro dei corpi perduti e ritrovati, Le Van Ha, trentenne, una figlia di 3 mesi, un maschietto di 5 anni, ha avuto modo di raccontare – al padre Le Minh Tuan – del suo viaggio in camion da Francia a Gran Bretagna, ma anche il lungo giro precedente, verso la tappa francese finale. Partenza da Ho Ci Min City poi Malaysia-Turchia- Grecia-Francia-Belgio-Francia-Belgio: 6 mila miglia. Variano le informazioni sul prezzo pagato, sale anche a un miliardo di dong. Il dong è la moneta vietnamita. Vale davvero la pena di sapere quale sia il cambio attuale con l’euro, la sterlina o il dollaro? (1 dong = 0,000039 euro, al cambio di ottobre 2019). Quasi tutti i familiari assicurano che i congiunti sono passati dalla Cina, maestra nel copiare passaporti e documenti. Altre voci parlano anche di Russia. Da notare che il collegamento telefonico tra migranti e famiglie a casa era quasi giornaliero.

La famiglia allargata, forse il paese intero della futura manicure alla moda – che ha chiesto scusa alla mamma per non poter più respirare – quanto avrà raccolto per spedire a Londra la giovane coraggiosa? Il prezzo è variabile, dipende molto da quanto la persona in movimento (o per lui/lei il gruppo sociale o familiare) è in grado di anticipare. Al resto pensa il trafficante, che sistema tutto: dal passaporto cinese falso, al circuito di avvicinamento, al camion frigorifero del tratto finale; con attenzione alla struttura, più o meno affidabile dei subtrafficanti di appoggio, al lavoro disponibile per il migrante, “ben pagato” all’arrivo, per ripagare il “prestito”. Un giornale inglese, prima di dedicarsi ad altre vicende, in attesa che il magistrato rimetta le cose a posto, ripristini la legge della regina e faccia giustizia dei trafficanti finali – si parla di irlandesi – suggerisce che il trasporto dei vietnamiti facesse parte di un convoglio di forse dieci container, ma le caratteristiche della parte finale del viaggio lo mettono in dubbio. Dal canto suo, The New York Times in un servizio molto ampio sul caso (Benjamin Muller, “39 Vietnamese Died in an U. K. Truck”, Nov. 1 2019) cita un lungo studio francese del 2017, «En route to The United Kingdom» preparato da Irasec e da France terre d’asile. Vi si legge che nel Regno Unito potrebbero arrivare ogni anno 16mila vietnamiti, per fare soprattutto due lavori: manicure, per la cura alla moda delle unghie, oppure operaio nella produzione di cannabis nelle coltivazioni e nei laboratori sotterranei inglesi. Gli uomini, giovani soprattutto, non si vergognano nel mestiere di manicure. Gli studi e i giornali insistono però su un altro aspetto: le ragazze, le donne in genere sono a disposizione di tutti i maschi che intendano approfittarne. Si paga così parte del viaggio, dell’alloggio, del vitto, delle botte risparmiate. E’ la forma del dare e dell’avere, fra uomini e donne, sulla via dell’Occidente sognato.

Superato una sorta di stupore ancien régime, occorre riflettere sulla rete globale dei trafficanti cui i vietnamiti diretti a Londra-Brexit si debbono adattare, come anche sulla possibilità tecnologica di “parlare” praticamente in ogni momento con padri e madri, con fratelli e sorelle, perfino dall’interno di una cella frigorifera. Un mondo strano quello ormai proposto: pieno di fantastici collegamenti tecnici ma anche di vergogne, di poteri crudeli, di torture e di miseria, di finanza diffusa, di super ricchezza concentrata. Le manicure vietnamite, i coltivatori di marjuana dell’estremo oriente arrivano a Londra perché Londra ha davvero bisogno di loro? Ha bisogno di servitori e manovali, di ragazze tuttofare, mentre ragazze e ragazzi inglesi costerebbero troppo? Sarebbero indisponibili? Oppure decine, centinaia di migranti arrivano a Londra con sotterfugi, dopo viaggi interminabili, per finire dentro cassoni freddi, perché alla fine sono loro a decidere, per quello che vale, della propria vita?

Che mondo stiamo costruendo? Crudele, ingiusto, senza speranza. Lo srudio “En route…” dal canto suo mette da parte gli afflati morali e racconta le cose per quello che sono. Così si viene a sapere dei campi nomadi francesi per vietnamiti e altri pochi, irregolari, installati per lo più nei boschi nei dintorni di Calais, tutti in attesa di un’occasione per imbarcarsi verso la Mecca inglese. Si apprende la modalità dei viaggi, l’organizzazione dei campi, il costo, i tentativi andati a vuoto. Appare in piena luce il rapporto – benevolo, disattento, talvolta aspro – della forza pubblica francese, che vuole sbarazzarsi dei vietnamiti delle foreste: o verso il Regno unito o verso qualche altro posto, purché non nella douce France.

La lista completa dei nomi delle vittime, rilasciata dalla polizia dell’Essex:

Pham Thi Tra My, 26, donna di Ha Tinh
Nguyen Dinh Luong, 20, uomo di Ha Tinh
Nguyen Huy Phong, 35, uomo di Ha Tinh
Vo Nhan Du, 19, uomo di Ha Tinh
Tran Manh Hung, 37, uomo di Ha Tinh
Tran Khanh Tho, 18, ragazzo di Ha Tinh
Vo Van Linh, 25, uomo di Ha Tinh

Nguyen Van Nhan, 33, uomo di Ha Tinh

Bui Phan Thang, 37, uomo di Ha Tinh
Nguyen Huy Hung, 15, ragazzo di Ha Tinh

Tran Thi Tho, 21, donna di Nghe An
Bui Thi Nhung, 19, ragazza di Nghe An
Vo Ngoc Nam, 28, uomo di Nghe An
Nguyen Dinh Tu, 26, uomo di Nghe An
Le Van Ha, 30, uomo di Nghe An
Tran Thi Ngoc, 19, ragazza di Nghe An
Nguyen Van Hung, 33, uomo di Nghe An

Hoang Van Tiep, 18, ragazzo di Nghe An
Cao Tien Dung, 37, uomo di Nghe An
Cao Huy Thanh, 33, uomo di Nghe An
Tran Thi Mai Nhung, 18, ragazza di Nghe An
Nguyen Minh Quang, 20, uomo di Nghe An
Le Trong Thanh, 44, uomo di Dien Chau
Pham Thi Ngoc Oanh, 28, donna di Nghe An
Hoang Van Hoi, 24, uomo di Nghe An
Nguyen Tho Tuan, 25, uomo di Nghe An
Dang Huu Tuyen, 22, uomo di Nghe An
Nguyen Trong Thai, 26, uomo di Nghe An
Nguyen Van Hiep, 24, uomo di Nghe An
Nguyen Thi Van, 35, donna di Nghe An
Tran Hai Loc, 35, uomo di Nghe An
Duong Minh Tuan, 27, uomo di Quang Binh
Nguyen Ngoc Ha, 32, uomo di Quang Binh
Nguyen Tien Dung, 33, uomo di Quang, Binh
Phan Thi Thanh, 41, donna di Hai Phong
Nguyen Ba Vu Hung, 34, uomo di Thua Tien Hue
Dinh Dinh Thai Quyen, 18, ragazzo di Hai Phong
Tran Ngoc Hieu, 17, ragazzo di Hai Duong
Dinh Dinh Binh, 15, ragazzo di Hai Phong

Afferma Mimi Vu, famosa esperta in tema di traffico di giovani vietnamiti in Europa e in Regno Unito: «il semplice numero di giovani, dieci teenagers, che sono morti è significativo. Bambini e teenagers hanno un’accentuata vulnerabilità, e sono nelle mani della rete dei trafficanti che li controllano».

L’informazione proviene dalla polizia dell’Essex: il governo inglese e quello vietnamita collaborano per il rimpatrio delle salme.

Forse per capire almeno un po’ è opportuno tornare a quei pochi fatti che gli “esperti” riconoscono come plausibili, se non certi. I primi esperti da chiamare in causa non sono magistrati o poliziotti e neppure studiosi di popolazioni o antropologi di ogni ordine e grado ma storici e politici. Nella seconda metà degli anni settanta, dopo la sconfitta americana e la riunificazione del Vietnam, avvenne la terribile vicenda del boat people. Milioni di vietnamiti, una parte degli sconfitti, presero il mare con imbarcazioni di fortuna. Erano affamati, sempre; erano spesso cattolici o comunque cristiani, invisi o considerati nemici del nuovo potere comunista, ormai instaurato dappertutto, erano in taluni casi di origine e cultura cinese. Le marine mercantili e quelle militari di molti Paesi li andarono a salvare dall’annegamento e i relativi governi furono per una volta generosi, sollecitati dall’anticomunismo, dalla rivalsa filoamericana contro i vietcong vincitori. Arrivarono negli Usa e in Australia, in Svezia e in Giappone; perfino in Italia. Anche nel remoto Regno Unito furono accolti vietnamiti a decine di migliaia. Quasi tutti arrivati in una terra più sicura, si impegnarono nella ristorazione privata e costituirono la base per la più recente venuta di altri vietnamiti, mossi soprattutto dal bisogno di guadagnare e sostenere la famiglia.

Qualcuno, frugando nella propria memoria, si è ricordato che non era la prima volta. In un passato non troppo lontano i corpi di un gruppo numeroso di orientali erano stati ritrovati in un rimorchio posteggiato dalle parti di Dover. Allora anche i camionisti si erano uniti al coro dei locali, scontenti, chiedendo «più sorveglianza per evitare che i clandestini salgano a bordo mentre il conducente dorme».

«Il senso comune (…) suggerisce l’immagine di sessanta persone, in fila, in punta di piedi, con i bagagli in capo, vere e proprie formichine gialle che salgono sul rimorchio del camion, nella notte fonda, mentre nella cabina il conducente è appisolato». Per una volta utilizziamo uno scritto d’epoca, pubblicato sul quotidiano il manifesto, a nostra firma (g. r.): «Formiche gialle» il 20/06/2000).

«Cinquantotto persone – quattro donne, gli altri uomini – sono morte in un rimorchio nel porto di Dover, nella notte tra domenica e lunedì. Erano al termine di un lungo viaggio, partito dall’estremo oriente; la tappa finale era partita domenica dal porto belga di Zebrugge. Se fossero effettivamente cinesi, non è stato detto con certezza. E’ scattata infatti una rigorosa applicazione della privacy, baluardo finale delle libertà d’Europa; se i cinesi o gli altri orientali non hanno potuto usufruire della democrazia da vivi, almeno da morti spetta anche a loro. La causa di morte non è stata indicata: forse il freddo, forse il caldo, forse il veleno, forse la mancanza d’aria. Del resto ognuno di noi, con poche eccezioni, muore di freddo o muore di caldo, muore di veleno o di mancanza d’aria. Non tutti in un rimorchio di Tir olandese, certo. (…..) E’ tempo di riflettere sulla fondamentale legge della libertà degli scambi vigente in Europa. La libertà riguarda solo le merci e i capitali; per le persone vige il protezionismo. Anzi a ben vedere sono gli stessi che predicano la libertà per i capitali a chiedere filo spinato elettrico alle frontiere e lungo le coste (…) Le persone viaggiano senza problemi quando sono turisti (o tifosi inglesi) e con molti problemi se lo fanno per lavorare. In occidente abbiamo un bisogno vitale di lavoro dall’oriente e dal sud: nella distribuzione, nella sanità, nei servizi alla persona: per i piccoli e per gli anziani. Ma a prezzi stracciati, senza diritti: è così che lo vogliamo. L’entrata in clandestinità, il debito spaventoso con i trafficanti per il trasporto è il mezzo per mantenere quel lavoro indispensabile in una comoda e poco costosa “flessibilità”. Devono rimanere clandestini a lungo, meglio per sempre, perché da clandestini accetteranno un salario dimezzato, senza orario, diritti, pensione. Devono poter arrivare, sulle loro carrette, nei loro Tir i clandestini; e senza diritti saranno per sempre ricattabili, carne da espulsione, corpi da Tir».

«Il Viet Kieu, come è chiamata la prima diaspora, è il necessario e immancabile sostegno ai connazionali nei luoghi di arrivo per l’ultima emigrazione vietnamita. La provenienza è soprattutto dalle province povere situate sul mar Cinese meridionale. Spesso sono comunità cristiane e cattoliche a sostenere i viaggi. Il costo elevato dei viaggi è infatti un altro aspetto rilevante. Il percorso è svolto per lo più in aereo, lungo varie tratte. La prima è in Cina, dove il viaggiatore si procura biglietti, passaporto, indirizzi e informazioni. Il tutto è gestito da associazioni irregolari capaci di risolvere ogni problema contro un pagamento cospicuo. Altra tappa a Mosca e di qui in uno dei Paesi dell’ex blocco sovietico, dove esiste ancora una traccia della diaspora del tempo della comunità socialista: sono spesso ex militanti, ex rappresentanti politici che nel corso del tempo sono stati dimenticati. Hanno messo casa e famiglia e costruita un’attività all’insaputa o nel disinteresse della Russia di oggi. Da Mosca si va in Polonia e poi in Slovacchia o in Repubblica Ceca o in Germania. Da qui in Francia, per l’ultimo balzo. Tra Russia e Repubblica Ceca vi è una tappa malsicura: è il problema dell’attraversamento della frontiera. In passato prevaleva il transito via Ucraina ma ora, a causa della guerra attiva o latente tra quest’ultima repubblica e la Russia, il percorso è attraverso la frontiera con la Bielorussia, dopodiché il viaggio prosegue. Le foreste della Bielorussia sono freddissime e infestate di doganieri. Il passaggio “clandestino” può durare anche una settimana di scappa-e-fuggi; non è noto il numero di coloro che non ce la fanno. I vietnamiti sorpresi passano alcuni giorni in una sorta di casa-carcere e poi sono lasciati liberi; liberi di ritentare».

«L’ultimo balzo è in camion. Vi sono esplicitamente due tariffe, una Vip e l’altra non Vip. Quest’ultima comincia con l’entrata in un tir, fermo al parcheggio, all’insaputa del guidatore. Il passeggero paga tre o quattro mila euro al trafficante, anche in dollari o sterline, e si nasconde in qualche modo. Se il camionista o la dogana, francese o inglese, lo scoprono, verrà fermato, trattenuto qualche giorno, se possibile – se ha le carte in regola (dal punto di vista dei doganieri) – rinviato al Paese titolato a gestirlo, secondo i dettami di “Dublino”. Con il biglietto Vip il viaggio è assai più comodo. Il viaggiatore, nel giro di pochi giorni, si siede a fianco di un guidatore disponibile, contattato preventivamente dall’organizzazione e che quindi è connivente, e sbarca tranquillo e riposato a Dover. Se poi lo dovessero prendere, il camionista passa un guaio e il biglietto Vip è valido per un’altra volta. Il viaggiatore Vip paga intorno ai diecimila euro di sovrapprezzo. C’è anche una tariffa Super Vip che consiste nel ricovero in albergo e in qualche altra comodità nelle notti di attesa che precedono la partenza».

«Tutte queste informazioni, e tante altre, derivano dai colloqui di una benevolente vietnamita, originaria della stessa area dei migranti, loro interprete, Ti Hiep Nguyen, francese di nazionalità, che ha ottenuto la fiducia generale dei migranti accompagnando all’ospedale una ragazza incinta e preoccupata. Così ha guadagnato la fiducia del gruppo di “connazionali” e ne ha raccolto gli sfoghi. Inoltre vi sono le interviste di decine e centinaia di vietnamiti scoperti e trattenuti per qualche giorno nell’istituzione francese e di cui sono state raccolte le informazioni, spesso ridotte a tracce di documenti».

 

2. La magia dell’emigrazione (spiegata al popolo ricco)

Passano pochi giorni dopo il ritrovamento dei vietnamiti in Essex e un settimanale inglese molto seguito nel mondo politico e nei circoli economici, The Economist pubblica un inserto speciale sui migranti. Essi, al contrario di quanto lascia intendere la Brexit, sono una benedizione per i Paesi riceventi. Ecco, si tratta di spiegare ai sudditi di sua maestà e agli altri interessati e partecipi, che cosa avverrà dopo la Brexit. Questo il compito assunto da The Economist. Nel giro dei prossimi trenta anni – spiega il giornale – nel mondo prevarranno i Paesi che accolgono (o invitano) gli immigrati, mentre gli altri resteranno indietro. Tutto questo è illustrato in uno speciale di 12 pagine da The Economist del 16-22 novembre 2019.

Brexit è in primo luogo il controllo delle frontiere. Passato del tempo il controllo non renderà più rigidi ma più tolleranti gli inglesi, verso entrambe le forme di migranti: gli operai, in senso lato, che offriranno lavoro a basso prezzo e i tecnici, di nuovo in senso lato, che offriranno i migliori saperi del mondo. Il succo del pensiero economicistico (cioè liberal-liberistico intelligente) è dunque che nei prossimi decenni vi sarà progresso e larghi vantaggi economici soltanto per i Paesi capaci di aprirsi alle migrazioni provenienti dagli altri Paesi. Naturalmente si dà per scontato che saranno eretti muri di ogni tipo; una parte delle popolazioni, preoccupate del nuovo e delle possibili perdite di ruolo, si batterà per evitare tale cambiamento. Questo avverrà nell’insieme globale e in ciascuno dei Paesi interessati agli arrivi di popolazione straniera alla ricerca di una vita nuova. Una parte dei residenti in ogni Paese è in primo luogo spaventato e desideroso di conservare le abitudine e la memoria. The Economist è molto rapido. Ammette le difficoltà, ma assicura che sono tutte superabili senza sacrifici esagerati. Il progresso – assicura – è non stare fermi. Non si negano insomma i problemi ma ogni volta che si nomina qualche inconveniente, qualche incomprensione o mancanza di fiducia fra persone di cultura diversa, di origini lontane fra loro, si insiste a spiegare che gli intralci maggiori, anzi le diseconomie, più gravi, più difficili da superare, sono di fermarsi a riflettere sul proprio splendente passato. E sul fatto che non è più così splendente, così sicuro e non basterà un muro a riportare il tempo indietro. Nel frattempo crescono a grande velocità i Paesi marginali o cosiddetti in via di sviluppo, confortati dai propri cittadini che hanno preferito o sono stati indotti a partire, ma che hanno mantenuto rapporti filiali o patriottici o di altra natura, difficili da catalogare, con la terra-madre. I cittadini emigrati “esperti” che hanno sostenuta la terra d’origine con rimesse abbondanti senza dimenticarla mai nei collegamenti scientifici e tecnici con i Paesi avanzati e le loro università e centri di ricerca, ma anzi facendone la propaganda in ogni caso, hanno svolto un ruolo decisivo. I Paesi riceventi hanno tutti i vantaggi: la selezione dei migliori talenti disponibili a livello del mondo, il loro prezzo vantaggioso per la preparazione di base (tutta a carico del Paese esportatore di talenti) e gli attuali salari per i nuovi arrivati, per lo più disposti a fare sacrifici per guadagnare di più, vivere con più libertà individuale e offrire vantaggi alle famiglie lontane, a casa. «Questo speciale rapporto risponderà alle grandi domande sull’emigrazione. Chi parte, con quale meta e perché? Quali gli effetti per i Paesi riceventi, per quelli lasciati e per i migranti stessi? Esso guarderà al movimento di frontiera e ai migranti senza patria. Indicherà, forse impopolarmente, che il mondo ha bisogno di più migrazione, che potenziali vantaggi superano i costi, i quali costi possono essere mitigati con politiche migliori». The Economist fa notare che gli immigrati sono molti meno di quelli che si possono immaginare, a partire dalle imbarcazioni sovraccariche che affrontano i mari allora dal Vietnam; oggi verso Lampedusa, la Sicilia, le isole della Grecia. La stima dell’Onu che viene ripresa indica in 270 milioni le persone che vivono fuori dei Paesi natali. Nove su dieci sono immigrati economici e gli altri quasi tutti rifugiati. La percentuale che se ne può ricavare è poco diversa da quella del 1960, «quantunque alcuni Paesi siano diventati assai meno accoglienti di altri». Poi c’è l’emigrazione interna e i quattrocento milioni di cinesi scesi in città per migliorare e arricchirsi, per avere un futuro o trovarne uno per i figli, offrono l’occasione di qualche riflessione in più in materia di migrazioni.

 

3. Global Compact for Migration: il caso dell’Italia

Le Nazioni Unite hanno sviluppato negli ultimi anni un testo di diritti e doveri. Per le persone che partono da casa per trovare una vita migliore altrove e per gli altri che devono dar loro aiuto e amicizia. La Carta di New York, scritta anche dall’Italia che poi l’ha messa in dubbio, è stata ratificata a Marrakech in Marocco nel dicembre 2018 da 152 Paesi (in 5 votano contro, 12 si astengono, 23 non partecipano).

Il principale obiettivo del Global Compact for Migration è creare una rete internazionale per l’accoglienza di migranti e rifugiati. Un’accoglienza «sicura», si legge nella dichiarazione, e di «sostegno». Nel documento si parla di migrazione «disciplinata, sicura, regolare e responsabile» e si prevede una lunga serie d’impegni da parte di tutti i Paesi per tutelare «i bisogni» di chi è costretto a fuggire dal proprio Paese. Gli impegni principali sono riassunti così in una nota dell’Asvis, ovvero l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile: lotta alla xenofobia, lotta allo sfruttamento, contrasto al traffico di esseri umani, potenziamento dei sistemi di integrazione, assistenza umanitaria, programmi di sviluppo, procedure di frontiera nel rispetto del diritto internazionale, a iniziare dalla Convenzione sui rifugiati del 1951.

Tutti questi buoni propositi sono però saltati con il nuovo governo italiano risultato dalle elezioni del 4 marzo 2018, condizionato da una spaccatura in tema di emigrazione. L’originario e convinto appoggio italiano al Global Compact for Migration era portato avanti dal ministro degli esteri Paolo Gentiloni (governo Renzi) e poi dal successivo governo, retto da Gentiloni stesso con Angelino Alfano agli esteri. Il capovolgimento non si è fatto attendere. Subito, alla costituzione del nuovo governo, ad annunciare la sospensione dell’adesione dell’Italia al Global Compact for Migration è stato il primo ministro Giuseppe Conte in una nota: «Il Global Migration Compact è un documento che pone temi e questioni diffusamente sentiti anche dai cittadini». Per questo, si legge nella nota, il governo ritiene «opportuno parlamentarizzare il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione, come pure è stato deciso dalla Svizzera». Posto che la firma definitiva del Compact sarebbe dovuta avvenire a Marrakech in Marocco pochi mesi dopo, il governo italiano non si sarebbe presentato.

A Marrakech quindi – scrive Conte – «il Governo non parteciperà, riservandosi di aderire o meno al documento solo quando il Parlamento si sarà pronunciato». Si noti che allora Conte capeggiava (si era a metà del 2018) il suo primo governo, quello tra M5s e Lega. Il premier assecondava in quel frangente le polemiche della destra, in particolare del partito Fratelli d’Italia, allora all’opposizione e soprattutto le pressioni del vice primo ministro e ministro dell’Interno Matteo Salvini, che spiegava le scelte del governo con in pratica le stesse parole. «Il governo italiano – diceva Salvini – come hanno fatto gli svizzeri che il Global Compact lo hanno portato avanti fino a ieri e poi hanno detto “fermi tutti”, non firmerà alcunché e non andrà a Marrakech».

Il successivo e già un po’ logoro governo italiano si è presentato nell’estate scorsa (agosto 2019) con una formula mediocre in tema d’immigrazione. L’argomento, che pure è decisivo sulla scena politica italiana, è però trattato solo al punto 18mo dei 29 elencati nell’accordo della nuova maggioranza. Le parole sono quelle che si possono leggere in una registrazione fatta dalla già citata Asvis.

«18) È indispensabile promuovere una forte risposta europea, soprattutto riformando il Regolamento di Dublino, al problema della gestione dei flussi migratori, superando una logica puramente emergenziale a vantaggio di un approccio strutturale, che affronti la questione nel suo complesso, anche attraverso la definizione di una organica normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina, ma che – nello stesso tempo – affronti i temi dell’integrazione. La disciplina in materia di sicurezza dovrà essere rivisitata, alla luce delle recenti osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica…»,

Qui occorre inserire una spiegazione.

Il presidente Sergio Mattarella aveva firmato i due decreti legge dell’anno precedente noti come Salvini uno e due o come decreti-sicurezza accompagnando le firme a un doppio rilievo, contenuto in una lettera del 4 ottobre 2018 a governo e Parlamento. Leggendone il testo, sembra di capire che Mattarella inviti ogni persona, di governo, di Parlamento (e di popolo) ad agire secondo giustizia, applicando regole certe. Il presidente è un giurista perplesso e fa la sua parte. «Al di là delle valutazioni nel merito delle norme, che non competono al Presidente della Repubblica, non posso fare a meno di segnalare due profili che suscitano rilevanti perplessità. Per effetto di un emendamento, nel caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali – per motivi di ordine e sicurezza pubblica o per violazione alle norme sull’immigrazione – la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo, determinato in un milione di euro, mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta.
Osservo che, con riferimento alla violazione delle norme sulla immigrazione non è stato introdotto alcun criterio che distingua quanto alla tipologia delle navi, alla condotta concretamente posta in essere, alle ragioni della presenza di persone accolte a bordo e trasportate. Non appare ragionevole – ai fini della sicurezza dei nostri cittadini e della certezza del diritto – fare a meno di queste indicazioni e affidare alla discrezionalità di un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità.
Devo inoltre sottolineare che la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 112 del 2019, ha ribadito la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti…

Il secondo profilo riguarda la previsione contenuta nell’articolo 16 lettera b), che modifica l’art. 131 bis del Codice Penale, rendendo inapplicabile la causa di non punibilità per la “particolare tenuità del fatto” alle ipotesi di resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale e oltraggio a pubblico ufficiale “quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”. ….

In ogni caso, una volta stabilito, da parte del Parlamento, di introdurre singole limitazioni alla portata generale della tenuità della condotta, non sembra ragionevole che questo non avvenga anche per l’oltraggio a magistrato in udienza (di cui all’articolo 343 del codice penale): anche questo è un reato “commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni” ma la formulazione della norma approvata dal Parlamento lo esclude dalla innovazione introdotta, mantenendo in questo caso l’esimente della tenuità del fatto».

Ho fatto quel che credevo opportuno fare, ci manda a dire Mattarella, senza uscire dai miei compiti anzi suggerendo a tutti di rispettare le leggi, per quello che sono e finché ci sono: adesso tocca a voi, uomini e donne qualsiasi, parlamentari, gente di governo.

Torniamo alle perplessità di Giuseppe Conte, presidente del Consiglio italiano. Durante il suo precedente governo, quello fra Movimento 5 Stelle e Lega, l’attuale presidente del Consiglio aveva dichiarato di ritirare la firma dell’Italia dalla dichiarazione dell’Onu, detta di New York o del Global Compact for Migration, e che anzi l’Italia non avrebbe partecipato alla riunione di Marrakech in Marocco, il 10 e l’11 dicembre 2018, prevista dall’Onu per la firma comune spiegando in una nota che qui ripetiamo per la terza volta:

«Il Global Migration Compact è un documento che pone temi e questioni diffusamente sentiti anche dai cittadini». Per questo, il governo ritiene «opportuno parlamentarizzare il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione, come pure è stato deciso dalla Svizzera». A Marrakech quindi «il Governo non parteciperà, riservandosi di aderire o meno al documento solo quando il Parlamento si sarà pronunciato».

Poco convinti, cercheremo qui di facilitare il compito di un parlamentare disorientato e incerto.

Il Global Compact for Migration – dapprima sostenuto con impegno dall’Italia dei governi (Renzi-Gentiloni) precedenti agli ultimi due e in seguito sconfessato dal Conte numero 1 – non è un testo rivoluzionario ma riporta una posizione moderata, condivisa da centonovanta Paesi del pianeta. Nel documento si parla di migrazione

«disciplinata, sicura, regolare e responsabile» e si prevede una lunga serie di impegni da parte di tutti i Paesi per tutelare «diritti e bisogni» di chi è costretto a lasciare il Paese originario

Princìpi centrali del Global Compact for Migration tra i 23 complessivi, sono, di nuovo:

  • la lotta alla xenofobia
  • la lotta allo sfruttamento
  • il contrasto del traffico di esseri umani
  • il potenziamento dei sistemi di integrazione
  • l’assistenza umanitaria
  • i programmi di sviluppo
  • le procedure di frontiera nel rispetto del diritto internazionale, a iniziare dalla Convenzione sui rifugiati del 1951. (Fin qui il riassunto fornito dall’Asvis).

Uno dei princìpi più invisi a tutte le forze politiche conservatrici, a partire dagli Usa di Donald Trump, è quello che chiede «il riconoscimento e l’incoraggiamento degli apporti positivi dei migranti e dei rifugiati allo sviluppo sociale», tanto per citare il Global Compact for Migration. Il Patto prevede inoltre un maggiore sostegno ai Paesi e alle comunità che ospitano il maggior numero di rifugiati.

I governi italiani che si sono avvicendati nei successivi due anni – seconda metà 2018, intero 2019 – non hanno fatto niente in proposito, non hanno chiesto al Parlamento di decidere come comportarsi, nonostante quanto affermato dal presidente del Consiglio. Del resto i partiti dell’allora maggioranza gialloverde, spalleggiati dal resto della destra, hanno votato il primo e il secondo decreto Salvini, quelli che hanno ricevuto le osservazioni critiche del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quelle ricordate sommessamente al punto 18mo prima citato, dal presidente del consiglio Giuseppe Conte, nella sua nuova “interpretazione” governativa.

Nell’incertezza generale, possiamo citare il predecessore del ministro Matteo Salvini al Viminale, Marco Minniti, del Partito Democratico (governo Gentiloni), il quale – ormai non più all’opposizione – si esprimeva sul finire dell’estate 2019 in termini drastici: «Dobbiamo cancellare i decreti sicurezza di Salvini». Lo stesso proposito è stato ribadito da molti, comprese le Sardine, in piazza San Giovanni a Roma, sabato 13 dicembre 2019. La spiegava così l’ex ministro dell’interno: «Se vogliamo fare integrazione dobbiamo cancellare i due decreti-sicurezza di Salvini. Il primo cancellava la protezione umanitaria, il secondo l’accoglienza diffusa che ha consentito ai sindaci di fare accoglienza con piccoli numeri». Marco Minniti, si esprimeva alla festa de l’Unità di Milano e parlava delle politiche dell’allora neonato governo, cosiddetto giallorosso (o giallorosa) in materia d’immigrazione. «Questo governo – assicurava – più cambia e più dura. La missione è svuotare il bacino di consenso dei nazional-populisti proponendo un’alternativa».

In sostanza Minniti suggeriva al nuovissimo (allora) governo di cancellare i “decreti sicurezza” intitolati al suo successore Matteo Salvini, ripristinando ciò che Salvini aveva messo in forse – la «protezione umanitaria» e l’«accoglienza diffusa» – e di procedere a un’alternativa non meglio specificata. Se il meglio manca, o non si sa, si possono pur sempre utilizzare le formule suggerite dall’Onu con il Global Compact for Migration: da un lato, una migrazione, «sicura, regolare e responsabile»; e dall’altro un impegno comune a tutelare nei Paesi riceventi «i dritti e i bisogni» dei migranti. La società civile – ripresentatasi in Italia nelle dimesse vesti delle Sardine – ha posto un punto fermo nella rimozione dei decreti.

Con parole sue, Minniti suggeriva due punti, essenziali, della «protezione umanitaria» e dell’«accoglienza diffusa», convinto di fare già molto. Il Global Compact for Migration, con tutte le mediazioni del caso, andava più in là, come si nota nell’elenco che precede. La sostanza è però in due parole «diritti e bisogni» che fanno da cornice a una migrazione «sicura, regolare e responsabile».

L’emigrazione dall’Africa nera – soprattutto quella attesa per i prossimi decenni e ritenuta inevitabile e fatale, come la notte dopo il giorno – e la risposta italica costituiscono problema e soluzione per la politica italiana. Principale problema e soluzione introvabile.

L’immigrazione di diversa origine, dall’Est Europa, dall’Asia tutta – Cina, Filippine, Siria o Medioriente – dal Maghreb, dalle Americhe, non è intesa come pericolo estremo o argomento di divisione nelle alleanze. Con diversi atteggiamenti e accenti tutte le formazioni politiche ritengono di essere in grado di affrontarla. Hanno tutte, diversamente, ragione. Di emigrazione si può discutere.

L’emigrazione africana ha invece un carattere del tutto diverso. Essa è l’unica che esista – Rom a parte – per gli esponenti della politica italiana perché è l’unica che abbia significato in termine di consensi elettorali. Il resto conta molto meno. Per la destra – tutta o quasi – l’emigrazione di quell’origine è una grande opportunità di vittoria nelle urne: infatti essa pretende di interpretare e nello stesso tempo alimenta la preoccupazione nella cittadinanza, infastidita o spaventata, per la presenza crescente di africani, giovani, sbandati, nerissimi di pelle che – figuratevi – non sanno il latino; tale è l’argomento unico o principale nella campagna elettorale senza fine. La sinistra parlamentare – tutta o quasi tutta – ragiona nello stesso modo, solo che si vergogna di ammetterlo. L’episodio cruciale avviene a Macerata, città delle Marche. Qui una ragazza di 19 anni, Pamela, sola e disperata, è preda di vari uomini soprattutto bianchi, che si approfittano di lei… fino all’ultimo, un giovane spacciatore nero. Questi la taglia a pezzi, per nasconderne il corpo senza vita. Ed ecco Luca Traini, esponente della destra, fascista e squilibrato, che vuole vendicare Pamela e gira in auto per Macerata sparando ai neri che vede, uomini e donne, ferendone qualcuno. La sinistra reagisce, in fretta e furia. Una parte non trova di meglio che organizzare un corteo contro Traini, senza riflettere un attimo su Pamela. E’ l’inizio di febbraio 2018 e il 4 marzo si vota. La sinistra assume a prima vista la priorità – emigrazione – del “partito rivale”, senza offrire analisi né, in gran misura, soluzioni, perché condivide l’elenco dei pericoli e la disperazione generale. C’è chi accetta di fare la stessa scelta della destra, salvando, per quanto è possibile, le forme umanitarie, ma poi si adegua: teme di dividere il partito, perdere voti, scontentare tutti. L’ultima fase della recente discussione sullo “ius culturae”, questa riedizione censurata dello “ius soli”, è un riassunto del piccolo compromesso italico di fronte al primo o al secondo o al terzo (se il primo è il riscaldamento globale e il secondo il corona virus) problema della storia d’oggi.

Come si è visto nelle ultime settimane e con il debutto del governo giallorosa, lo “ius culturae” si è travestito ed è diventato irriconoscibile.

Il “Restiamo umani” che rappresenta la migliore natura di buona parte degli italiani non è però naufragato, ma sopravvive nell’attività continua e discreta di una rete di Comuni, sindacati, organizzazioni sociali, che fanno quanto possono.

 

Redazione
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