Migranti, rifugiati o invasori?

La Fiom a confronto con le nuove migrazioni

di Andrea Mingozzi (*)

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Il Comitato direttivo odierno è il frutto di una riflessione che non è figlia solo dei tragici eventi di questa estate. Come Fiom di Ravenna era da tempo che avevamo in mente di dedicare un momento di approfondimento al tema delle migrazioni. Abbiamo deciso di organizzare un direttivo tematico, ma di privilegiare diversi approcci, di non limitarci all’approccio politico sindacale. Parleremo di migrazioni anche da un punto di vista culturale e sociale, poiché oggi più che mai le migrazioni sono un fenomeno complesso ed in continua trasformazione. […]

Ovviamente l’iniziativa di oggi non vuole essere esaustiva rispetto alla complessità di un argomento ricchissimo di spunti. Nostra intenzione è provare a fornire alcuni strumenti di analisi e di conoscenza che possano servire a tutti noi durante la nostra attività sindacale di funzionario o delegato.

Infatti lo statuto della nostra organizzazione all’articolo 2 recita testualmente che «è compito della Fiom contribuire a tutte le iniziative che rendano effettivo l’inserimento delle donne, dei giovani e delle lavoratrici e lavoratori migranti nell’attività produttiva e assicurino, in ogni campo di attività, parità di diritti e di condizioni, senza alcuna discriminazione».

Inoltre, in concomitanza con le morti in mare che hanno caratterizzato l’estate, la Fiom, nel Comitato Centrale del 7 settembre e nel Coordinamento Migranti Fiom del giorno dopo, ha manifestato chiaramente le proprie posizioni in merito all’accoglienza dei profughi. In particolare si è espressa preoccupazione per l’aumento delle disuguaglianze tra nord e sud del mondo, il riaffiorare di movimenti razzisti e xenofobi che a volte sembrano ispirare le politiche di alcuni Stati (leggasi Ungheria e l’esito delle elezioni in Polonia) e l’imbarazzante difficoltà con la quale l’Europa sta facendo fronte all’arrivo di queste persone. L’odg termina con l’invito a rafforzare il contrasto a idee antidemocratiche, razziste e xenofobe tra i lavoratori e a farsi parte attiva per individuare soluzioni concrete per facilitare l’accoglienza.

Tuttavia, senza il dovuto approfondimento la nostra azione sociale e sindacale rischia di essere incompleta.

Per fare questo non possiamo prescindere dal fornire una fotografia rispetto al fenomeno. Non dimentichiamo che spesso sentiamo parlare di invasione, ondate, ecc… ma quante sono realmente le persone interessate dalle migrazioni oggi? E’ ancora così netta la distinzione fra rifugiati politici e migranti? Gli strumenti politici e amministrativi implementati dagli Stati e le soluzioni all’esodo di questa estate, sono all’altezza del problema?

Pur consapevoli del fatto che la crisi dei rifugiati è di strettissima attualità, non dobbiamo dimenticare i quasi cinque milioni di cittadini stranieri comunitari e non (8,25% sulla popolazione italiana) che da anni contribuiscono in modo fattivo al funzionamento del nostro Paese e che sono oramai da considerarsi come una presenza strutturale, non un fenomeno temporaneo.

Andiamo con ordine e proviamo a fare qualche ragionamento sulla questione dei nuovi arrivi.

L’Alto Commissariato per i Rifugiati della Nazioni Unite stima che nel 2014 siano salite a 60 milioni le persone costrette a migrare causa guerre o persecuzioni, con un incremento sul 2013 di oltre 8 milioni. Il più grande aumento mai registrato. Nel 2014 l’Europa ha accolto una minima parte di questi individui, arrivati perlopiù via mare, ovvero 219.000 tra rifugiati e migranti.

Durante il 2015, i dati in possesso dell’Onu ci descrivono una situazione diversa, con un aumento degli arrivi in Europa al mese di ottobre corrispondente a 705.251 persone. In gran parte sbarcate in Grecia, ovvero 562.000 circa, mentre in Italia è arrivato un numero di migranti molto inferiore, pari a 140mila circa. Non dimentichiamoci che nel 2012 gli arrivi in Europa corrispondevano però a 22.500 e nel 2013 a 60.000.

Cosa ci raccontano questi numeri? Innanzitutto che l’Europa riceve una minima parte sul totale della popolazione coinvolta nelle migrazioni. Al tempo stesso tuttavia non possiamo negare l’aumento di questa parte di migranti che arriva via mare. Kos, Calais, Lesbo, Ventimiglia, celebri per ragioni turistiche, oggi sono luoghi simbolo di approdo e partenza delle migrazioni contemporanee che si aggiungono all’isola di Lampedusa. Non ci dobbiamo dimenticare che molti di questi migranti non hanno alcuna intenzione di fermarsi e di fatto non si fermano, se non per brevi periodi, nè in Grecia, nè in Italia.

A ogni modo i nuovi migranti corrispondono a un 0,1% sul totale della popolazione europea, per cui parlare di invasione è fuori luogo. Lo è ancor di più in Italia se si pensa che gli arrivi corrispondono allo 0,02% sul totale e al 3% della popolazione immigrata in Italia e che, come appena ricordato, quasi nessuno fra gli arrivati nel 2015 vuole stabilizzarsi nel nostro Paese. La meta finale del loro percorso migratorio è più a nord: Germania, Inghilterra, Svezia ecc… Inoltre i numeri italiani ed europei in generale risultano essere molto meno significativi al cospetto della capacità di accogliere che hanno dimostrato altri Paesi, per giunta economicamente più poveri. Infatti i preziosissimi dati dell’Unhcr ci dicono che sono i Paesi più poveri a dover sopportare il maggior numero di richiedenti asilo. Nel 2014 i 30 Stati con il più alto numero dei profughi appartenevano al gruppo dei Paesi in via di sviluppo, 18 dei quali rientrano nel meno sviluppati. La Giordania a esempio accoglie 87 profughi ogni mille abitanti, il Libano 232 mentre l’Italia ne accoglie 25 e la Germania 67 e la Francia 39 su mille abitanti.

Il rapido aumento degli sbarchi via mare segnala una situazione di cambiamento non solo da un punto di vista quantitativo ma anche per la natura del migrante che oggi approda in Europa e soprattutto sulla natura del suo progetto migratorio. Infatti mentre in un recente passato in Italia e in Europa si potevano distinguere piuttosto nettamente i migranti economici dai rifugiati, oggi questa divisione appare più pretestuosa. Lo è politicamente, come ricordato nell’odg del Comitato Centrale del 7 settembre, poiché si tratta di una differenziazione ipocrita. Fuggire dalla guerra guerreggiata che provoca morti e miseria o fuggire dalla guerra a bassa intensità provocata dalle disuguaglianze economiche prodotte dalla globalizzazione finanziaria, che pure provoca morti e miseria, per la Fiom è la stessa cosa.

A questo ragionamento ne dobbiamo affiancare uno di carattere sociologico, che tuttavia porta con sè una riflessione politica. Le persone che cercano di raggiungere l’Europa oggi non hanno più, come in passato, progetti migratori ben definiti, regolabili dai meccanismi di accesso degli Stati scelti come destinazione (a esempio visti lavorativi, per studio o ricongiungimento familiare). Le ultime migrazioni coinvolgono soggetti che hanno come unico e assoluto bisogno quello di fuggire da situazioni che mettono a repentaglio la loro sopravvivenza. Imbarcarsi su una “carretta del mare” comporta rischi uguali o inferiori al permanere nei loro Paesi d’origine a causa delle guerre, ma non solo. Se prendiamo a esempio Siria, Eritrea, Mali, Nigeria, e Gambia, ovvero le prime cinque nazionalità di provenienza dei flussi migratori nel 2014 in Italia, ci accorgiamo che non in tutti questi Paesi c’è una guerra. Cosa accomuna questi cinque Stati ad altri “produttori di profughi” quali Iraq, Afganistan, Nigeria, Somalia o Libia? Il fallimento o il collasso delle istituzioni statali che non sono più in grado di garantire i servizi minimi essenziali (economici, sociali, lavorativi, di sicurezza personale). Da che cosa è determinato tale fallimento? Non solo dai conflitti ma anche dall’aumento delle diseguaglianze che la globalizzazione neoliberista ha imposto un po’ in tutto il pianeta ma soprattutto in Africa e in Asia. In questi continenti si assiste sempre più a un aumento delle persone a rischio povertà e miseria, nonostante Paesi come Nigeria, Congo, Iraq siano ricchissimi di risorse naturali ma sfruttate da un manipolo di multinazionali occidentali.

Il caso della Nigeria è emblematico: una terra piena di petrolio il cui reddito pro capite è passato da 1.100 dollari nel 1990 a 2.100 dollari nel 2013. Se paragoniamo i dati nigeriani con quelli della Germania durante lo stesso periodo ci accorgiamo che quest’ultima ha visto crescere il proprio pil pro capite da 16.000 dollari a 22mila. Ciò significa che il divario assoluto fra queste due nazioni (la più popolosa d’Africa e la più popolosa d’Europa) è passato da 15.000 a 20.000 dollari. Dobbiamo porre un argine al fenomeno delle disuguaglianze tra Stati: dal petrolio nigeriano traggono i profitti in primis Shell e l’italiana Eni mentre sulla popolazione si riversano solo le disastrose conseguenze di natura ambientale e sociale e le tensioni politiche per il controllo dei pozzi.

Il migrante odierno che raggiunge Lampedusa o Kos è quindi un soggetto ibrido, poichè attraversato da motivazioni sia afferenti allo status di richiedente asilo, sia a quelle del migrante economico. A differenza dei migranti classici o economici che dir si voglia, oggi più che mai i nuovi migranti lasciano il proprio Paese nella consapevolezza che date le condizioni attuali quasi certamente non potranno più farvi ritorno, nemmeno per brevissimi periodi. Se le istituzioni internazionali non prendono consapevolezza di questo cambiamento descritto dagli esperti come strutturale, c’è il rischio – ed è ciò che si sta effettivamente verificando – che le politiche pubbliche degli Stati non siano all’altezza o siano concepite per una figura di migrante che oggi non esiste più o è, al limite, marginale.

Inoltre è necessario ricordare anche chi non è riuscito a raggiungere l’Europa. Sempre per l’Unhcr dal 2000 nel Mar Mediterraneo sarebbero morte almeno 29.000 persone nel tentativo di raggiungere il vecchio continente, di cui oltre 3000 nel solo 2015. Questo descrive il mare nostrum come il più grande cimitero a cielo aperto del pianeta. Un grande naufragio di massa in cui hanno perso la vita 366 persone è avvenuto il 3 ottobre 2013 a Lampedusa: ricordo che in quell’occasione il nostro Comitato Direttivo approvò un ordine del giorno, a testimoniare l’attenzione che la Fiom di Ravenna ha sempre avuto. Prima di allora moltissimi altri uomini, donne e bambini avevano conosciuto la morte e anche successivamente si sono susseguiti naufragi, addirittura più tragici di quello di due anni or sono. Come è potuto accadere? A seguito di quel naufragio il nostro Paese, in collaborazione con la Ue aveva attivato l’operazione «Mare Nostrum», al fine di consentire la ricerca e il salvataggio dei migranti in mare. Dopo un anno di sperimentazione e il salvataggio di circa 150mila persone, le attività legate a «Mare Nostrum» sono state sostituite dall’operazione «Triton», a guida Ue. Il budget ridotto e, cosa ancor più grave, il mandato politico limitato alla protezione delle frontiere hanno determinato l’insuccesso di «Triton», con il conseguente aumento dei naufragi e dei morti in mare di dieci volte tra la fine del 2014 e la prima metà del 2015. Non è un caso che questo numero sia sensibilmente calato a seguito della modifica della missione «Triton» che a partire dal mese di giugno 2015 prevede anche operazioni di ricerca e salvataggio.

Il balletto delle operazioni fra «Mare Nostrum» e «Triton» e la moltitudine di tragici naufragi che ne sono seguiti, descrivono un’Europa innanzitutto come una fortezza da difendere, anche a costo della perdita di numerose vite umane. In caso contrario il mandato di «Triton» avrebbe ripreso da subito quello di «Mare Nostrum» e soprattutto a queste due operazione si sarebbero dovuto affiancare attività di carattere umanitario, con lo scopo di impedire che il destino di migliaia di persone fosse lasciato alla mercè della criminalità che gestisce il traffico di essere umani.

L’Europa infatti non sembra avere la forza e la volontà politica necessaria per un coordinamento delle politiche di gestione dei flussi migratori e non pare cogliere con la dovuta importanza le trasformazioni degli stessi, altrimenti agirebbe in maniera diversa. Anzi le politiche europee sembrano andare in ordine sparso, cercando di preservare un precario equilibrio tra pompose e vuote dichiarazioni di principio a cui non crede più nessuno e la necessità dei singoli Stati di presidiare le proprie frontiere. Come giudicare il comportamento di una classe dirigente che si accanisce con il governo greco, colpevole di voler cercare di rinegoziare il proprio debito, mentre non fa nulla di concreto per il governo e la gestione delle migliaia di persone che ogni giorno insistono per varcarne i confini? Alcuni Stati sono arrivati a sospendere gli accordi di Schengen, in Ungheria si alzano muri e l’esercito arresta i migranti che cercano di raggiungere la Germania la quale nel frattempo illude centinaia di migliaia di profughi, annunciando la sospensione degli accordi di Dublino III, salvo poi ritrattare, sospendendo – come hanno fatto altri Paesi – il trattato di Schengen. In Bulgaria addirittura si spara contro queste persone, la Croazia un giorno sì e un giorno no chiude le proprie frontiere con la Serbia, e da ultimo va segnalata la Slovenia che schiera, come avvenuto in Ungheria, il proprio esercito. Sembra di essere in guerra o, come ha scritto qualcuno, che la parte più ricca del pianeta abbia dichiarato guerra alla parte più povera. Il predominare dell’egoismo dei singoli Stati non può che portare in futuro a una recrudescenza di tensioni sociali, con il rischio che vengano seriamente minate le radici stesse del pensiero che ispirò a suo tempo la creazione dell’Unione Europea.

La Fiom si è posta innanzitutto il problema di come salvare le vite umane. Occorrerebbe lavorare fin da subito affinchè in luoghi come Siria, Libia, Afganistan, Palestina ecc… le istituzioni non solo europee ma anche mondiali si attivino per cercare di mettere fine a conflitti vecchi e nuovi. Lavorare con convinzione affinchè la pace si possa ristabilire in contesti dilaniati da guerra e terrorismo: solo in questo modo si potranno interrompere le violenze che determinano il fallimento di alcuni Stati. Ci si rende conto che è il compito più difficile e richiede molto tempo ma bisogna altresì riconoscere che valutazioni di carattere geopolitico ed economico spesso prevalgono sull’idea di pace. Le decisioni prese fino a questo momento assomigliano molto a una sorta di scaricabarile nei confronti di alcuni Stati come Libano o Giordania affinchè migliorino le condizioni di vita nei loro campi profughi in modo tale da favorirvi una permanenza che l’Europa vede di buon grado soltanto se è lontana dai propri confini.

La Ces – cioè la confederazione europea dei sindacati – nella sua mozione di emergenza sulla crisi dei rifugiati in Europa (in occasione del suo congresso di settembre) ha posto il problema, classificando come insufficienti e parziali le risposte del Consiglio Europeo del 22 settembre, poichè lontane da una soluzione permanente a un problema permanente.

Vanno nella direzione sbagliata la selezione dei migranti a cui aprire le porte; insomma individuare i rifugiati politici sulla base di una lista di Paesi a rischio. I cittadini di determinati Paesi possono presentare domanda di asilo politico o protezione internazionale, gli altri devono venire subito rimpatriati. Ciò è pericoloso innanzitutto perchè non tiene conto di quanto sia labile e a volte inesistente il confine tra profugo e migrante, come abbiamo cercato di spiegare. In secondo luogo questa nuova forma selettiva è pericolosa perché viola il diritto internazionale. Infatti un rifugiato viene riconosciuto tale in base a una condizione soggettiva, personale. La propria provenienza è un elemento fra i tanti che possono consentire l’attribuzione dello status di rifugiato ma non può diventare il requisito essenziale su cui effettuare una prima scelta: siriani sì, nigeriani no. Ci piacerebbe poi conoscere quali sono i criteri con i quali uno Stato viene ritenuto più o meno sicuro rispetto a un altro. Un esempio concreto può aiutare a capire. Una donna saudita in pericolo di vita perché vuole guidare un’automobile nel suo Paese se dovesse chiedere asilo politico in Italia sarebbe forse rimpatriata – e dunque condannata a morte – perchè l’Arabia Saudita è considerata un Paese sicuro? Se queste intenzioni dovessero essere tradotti in provvedimenti si potrebbero aprire spazi di discrezionalità a scapito del rispetto dei diritti umani.

Dalla UE il sindacato europeo si aspetta provvedimenti contro quegli Stati che costruiscono muri, utilizzano l’esercito e contravvengono al diritto internazionale in materia di rifugiati e più in generale promuovono un clima di xenofobia e paura, poichè in contrasto con i valori fondamentali dei propri trattati. Occorre, al contrario – come invocato più volte dalla Cgil – il superamento del regolamento cosiddetto «Dublino III» con il quale si stabilisce che un richiedente asilo è obbligato a richiedere la dovuta protezione nel primo Stato in cui arriva. Questo regolamento fu concepito nel 1990, epoca nella quale anche la Germania era considerato Stato di frontiera nei confronti dei Paesi del Patto di Varsavia, e quindi c’era contezza di un maggior equilibrio nella distribuzione dei rifugiati in Europa. Oggi la situazione è completamente cambiata: l’allargamento a Est della Ue e l’aumento dei flussi da Africa e Asia, la crisi economica dei Paesi dell’Europa mediterranea e il consolidarsi di partiti xenofobi (Front National, Lega Nord e Alba Dorata fra gli altri) hanno determinato la paradossale situazione in cui, da una parte, ci sono richiedenti asilo obbligati a fare domanda in Paesi in cui non vogliono stare e dall’altra una serie di Paesi (Grecia, Italia, Ungheria ecc…) obbligati a ospitare richiedenti asilo che non vogliono. Vanno promossi nuovi regolamenti, allo scopo di garantire che l’assistenza ai richiedenti asilo venga equamente condivisa dagli Stati e che siano prese in considerazione le esigenze manifestate dal singolo richiedente, affinchè venga destinato in un Paese in cui ha legami linguistici o familiari.

Cgil e Fiom hanno sempre auspicato oltre alla modifica del regolamento di Dublino anche l’aumento delle vie legali di accesso in Europa. In particolare la creazione di corridoi umanitari che, a partire dai Paesi in conflitto, permettano alle persone in fuga di raggiungere in totale sicurezza l’Europa o altre destinazioni. Data la natura non temporanea dei conflitti e delle condizioni politico-economiche che stanno alla base dell’esodo di milioni di persone, l’apertura di questi corridoi consentirebbe di salvare numerosissime vite umane e contemporaneamente di ridurre fortemente il traffico di esseri umani che spesso è anche fonte di finanziamento di organizzazioni non solo malavitose ma anche terroristiche. Molto condivisibile da questo punto di vista l’approccio auspicato dal presidente dell’Onu Ban Ki-Moon, il quale ha recentemente affermato che è necessario «un approccio complessivo che guardi alla radice delle cause, alla sicurezza e ai diritti umani dei migranti e dei rifugiati, così come ad aprire canali legali e regolari di immigrazione».

Vanno infine ristabiliti livelli adeguati per i servizi pubblici di tutti: europei e nuovi cittadini, con priorità verso quei servizi che favoriscano la coesione sociale, come il diritto all’alloggio e al lavoro. Per attuare questo tipo di politiche ci vogliono risorse e quindi occorrerebbe uscire dalle logiche tutte europee di austerità che limitano la spesa sociale, intesa anche come investimento per la coesione sociale tra cittadini immigrati e non. Il superamento di politiche di austerità e l’introduzione di politiche economiche più espansive potrebbero contribuire ad abbassare quel clima di insicurezza e paura, spesso portatore di idee xenofobe e razziste che tendono a individuare il migrante quale unico responsabile per tutti i problemi di natura socio-economica che affliggono il continente europeo. In questo modo si toglierebbe consenso alle pericolose idee propugnate da formazioni di estrema destra, che di recente si sono affermate alla guida di un importante Paese come la Polonia.

Al contempo vanno ricercate soluzioni diplomatiche alle crisi più profonde, quali quella in Siria e rafforzare la cooperazione internazionale affinchè nei Paesi che oggi forniscono il maggior numero di rifugiati, con il tempo, si possano garantire condizioni socio economiche dignitose: come accennato in precedenza, lavorare per la pace e il miglioramento delle condizioni economiche.

Se l’Europa non brilla per la gestione e il governo del fenomeno migratorio, al suo interno l’Italia sembra fare altrettanto. Non ci dobbiamo dimenticare che il Testo Unico sull’immigrazione è una legge datata 1998, i cui più importanti aggiornamenti risalgono ai tempi della legge Bossi-Fini del 2002 e del famigerato «pacchetto sicurezza» di Maroni nel 2009.

Come Fiom è parecchi anni che sosteniamo la completa revisione della legislazione in materia di immigrazione, proprio a partire dalla Bossi-Fini. Più volte è intervenuta la Corte Costituzionale al fine di abrogare norme fuori da ogni ragionamento giuridico, mentre in altre occasioni è stata l’azione della Cgil o di altre associazioni che ha restituito dignità e giustizia alle persone di origine straniera.

In particolare ci si riferisce alle diverse vertenze in materia di Welfare promosse dall’Inca-Cgil, con le quali si è riparato a una serie di ingiustizie a livello locale e nazionale in materia di accesso ai servizi. L’ultima, quella più clamorosa, riguarda la sentenza con la quale la Corte Europea di Giustizia ha stabilito che l’oneroso balzello (da 80 a 200 euro) che dal 2012 i cittadini stranieri devono pagare per rinnovare il loro titolo di soggiorno è sproporzionato e di ostacolo alle finalità di integrazione e di accesso ai diritti, per cui si sta valutando la possibilità di ottenere il rimborso di una inutile e odiosa tassa sull’esistenza.

Inoltre il combinato disposto dalle cervellotiche norme che regolano l’ingresso in Italia di cittadini stranieri e la facilità con la quale nel nostro Paese è possibile trovare un’occupazione irregolare, insomma pagata “in nero”, rappresenta un elemento fondamentale su cui impostare il ragionamento in materia di politiche migratorie. I lavoratori migranti scelgono l’Italia perchè sanno che è un Paese in cui, nonostante sia molto difficile entrare in modo regolare, è facile trovare datori di lavoro disposti ad assumere appunto in maniera irregolare. In poche parole la manodopera immigrata irregolare è quell’esercito di riserva di lavoratori a cui un certo numero di imprese attingono al fine di ridurre i costi del lavoro e diventare più concorrenziali. Un lavoratore immigrato irregolarmente in Italia è appetibile da un datore di lavoro in quanto non può appellarsi a nessun “contratto collettivo” per una equa retribuzione e il riconoscimento dei propri diritti. D’altro canto non può nemmeno denunciare un rapporto di lavoro in nero, poichè verrebbe molto probabilmente espulso. A ciò si aggiunga che le sanzioni a carico di un datore di lavoro che assume manodopera di nazionalità non comunitaria sprovvista di titoli di soggiorno sono risibili, quindi di nessuna deterrenza. Il caporalato di cui abbiamo sempre più notizie, anche grazie al meritorio impegno di alcune organizzazioni sindacali, ne è una conseguenza da combattere con sempre più impegno.

Un’altra questione importante riguarda il diritto di cittadinanza per bambine e bambini nati in Italia. Poche settimane fa il Parlamento ha approvato in prima lettura un testo che sancisce il superamento dello “ius sanguinis” a favore dello “ius soli” ovvero il riconoscimento della cittadinanza italiana in base al luogo in cui si nasce e non in base alla nazionalità dei genitori; chi è nato in Italia da genitori stranieri ha diritto a essere italiano. Tuttavia questo principio è stato annacquato da una serie di condizioni che di fatto limitano in maniera significativa la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana. Ci riferiamo al fatto che la versione italiana dello “ius soli” lega il futuro di bambini e bambine alle condizioni economiche delle loro famiglie e all’andamento scolastico: una possibile violazione dell’articolo 3 della Costituzione. Inoltre per quanto concerne la naturalizzazione vengono addirittura fatti passi indietro rispetto alle leggi attuali, non permettendo a un adulto di diventare italiano attraverso l’esercizio di un diritto (come avviene adesso) ma attraverso la richiesta di un favore. Se il Senato in seconda lettura non dovesse cambiare le cose, la legge sullo “ius soli” parrebbe più una beffa che una legge al passo dei tempi che cambiano.

Così come beffarde paiono le dichiarazioni del presidente del Consiglio il quale non ha nessuna remora nell’annunciare che nel caso in cui il governo dovesse ottenere dalla UE un ulteriore margine di tre miliardi sulla legge di stabilità per fronteggiare la crisi di profughi, questi soldi sarebbero dirottati alle imprese sotto forma di abbattimento dell’Ires già dal 2016. Si toglie ai più disperati della terra per dare ai più ricchi d’Italia: un Robin Hood al contrario. Ovviamente il mondo confindustriale non può che apprezzare, dato che in piena emergenza rifugiati lo stesso Giorgio Squinzi, con l’elegante snobismo che lo caratterizza, aveva affermato che i lavoratori immigrati sono un problema perchè tolgono il lavoro agli italiani. Neanche Salvini (il primo che si è affrettato ad applaudire) avrebbe saputo essere più chiaro. Ma i dati gli danno nettamente torto.

In Italia vivono circa 5 milioni di immigrati che corrispondono a un 8,25% della popolazione. Anche se gli ingressi sono in calo rispetto agli anni passati, non ci dobbiamo dimenticare che oltre 2,3 milioni di lavoratori sono di origine straniera.

Sono tanti? Sono troppi? Sembrerebbe di no, anzi. Abbiamo bisogno di lavoratori migranti. L’Europa, in particolare Germania e Italia, sono Paesi che stanno invecchiando velocemente. Ciò significa che il nostro sistema pensionistico, nonostante da noi abbia già conosciuto le iniquità e ingiustizie della riforma Fornero, è a rischio sostenibilità. Un recentissimo rapporto elaborato dalla Fondazione Leone Moressa stima che nel 2050 ci saranno 20 milioni di pensionati che riceveranno il loro assegno dall’Inps finanziato dai contributi di meno di 38 milioni di lavoratori. E’ una proporzione che non regge da un punto di vista economico finanziario, occorre aumentare la quota di lavoratori e ci sono due modi per farlo: fare figli oppure accogliere e governare i flussi migratori. Difficile invertire un trend che vede l’Italia da numerosi decenni come una delle nazioni in cui si procrea meno. E già oggi ben 620mila pensionati ricevono il loro assegno di previdenza sociale, finanziato dagli oltre 2.300.000 lavoratori di origine straniera.

E ancora, si pensi che il 72% del totale della popolazione proveniente da Nord Africa e Asia risulta essere occupato, una percentuale superiore rispetto a quella italiana che corrisponde al 67%. Sono posti di lavoro tolti agli italiani? Anche in questo caso parrebbe di no, poichè i dati in mano all’Ocse, ma anche quelli di una ricerca effettuata dalla Fiom non meno di due anni or sono, ci dicono che gli immigrati tendono a occupare i posti di lavoro che gli italiani preferiscono abbandonare e a parità di qualifica percepiscono una retribuzione mediamente più bassa del 23%.

Se poi vogliamo misurare precisamente il rapporto costi benefici – sempre aiutati dai dati della Fondazione Moressa – scopriamo che le tasse pagate dagli stranieri superano di gran lunga i benefici che gli stessi traggono dal sistema di Welfare nazionale: il saldo è positivo di ben 4 miliardi di euro. Questo significa che non è vero che agli immigrati viene offerto gratuitamente il nostro sistema di Welfare, al contrario lo finanziano in maniera superiore rispetto a quanto non lo utilizzino. Due dati su tutti che riguardano il fisco: nel 2014 l’Irpef incassata dai cittadini stranieri ammonta a quasi 7 miliardi di euro, per non parlare del fatto che un cittadino straniero che risiede in Lombardia paga mediamente più tasse di un italiano residente in Calabria.

I dati economici sopra esposti segnalano che la presenza di cittadini e cittadine di origine straniera non solo è una componente stabile e un fattore che garantisce sostenibilità al nostro sistema socio economico. I dati riportati segnalano anche la necessità che questa presenza aumenti con il tempo, in caso contrario subiremo un ulteriore impoverimento. Insomma, per riportare il felice titolo di un articolo apparso su «Repubblica», gli immigrati sono la soluzione non il problema.

Come mai allora anche una persona ben informata su determinati andamenti economici come Squinzi rilascia le dichiarazioni di cui sopra? Spesso stampa e tv, ultimamente anche il web, preferiscono affrontare il fenomeno migratorio attraverso mistificazioni: si vende di più – dicono – e si acquisisce maggior consenso se si “sparla a sproposito” di persone che non possono difendersi. Non solo, gli immigrati sembrano il tanto desiderato capro espiatorio che tutti i partiti nazionalisti, populisti e xenofobi cavalcano per acquisire consenso.

Non occorre andare lontano, basta rendersi conto di come forze politiche come la Lega Nord abbiano strumentalizzato la presenza di profughi in piccoli centri della nostra provincia come Santa Maria in Fabriago, Marina Romea o Marina di Ravenna, e in poco tempo abbiano raccolto firme contro l’arrivo di queste persone. Non è mia intenzione nascondere che i cittadini di frazioni o di piccoli comuni possano provare disagio nel vedere arrivare persone che nulla hanno a che fare con la comunità, è comprensibile un certo timore iniziale. Tuttavia questo disagio non dovrebbe essere utilizzato per alimentare sentimenti di chiusura, diffidenza o vero e proprio odio nei confronti dell’altro. E la buona politica, la buona amministrazione dovrebbe cercare soluzioni ai problemi, dialogando con i cittadini, non prima imporre e poi cedere in un assurdo “tira e molla”.

Rimane il capitolo su come il sindacato possa contribuire direttamente alla crescita dei lavoratori migranti fra i suoi iscritti e nel gruppo dirigente, a partire dalle Rsu.

Occorre prendere atto che all’interno della Fiom e della Cgil in generale il livello di rappresentanza dei lavoratori immigrati è decisamente basso. A fronte di una buona propensione all’iscrizione, sono ancora troppo pochi gli immigrati che riusciamo a coinvolgere negli organismi dirigenti. Non ci convince l’introduzione del sistema delle quote, come tempo addietro si fece per dare maggiore rappresentanza alle donne all’interno della Cgil. Innanzitutto perchè un lavoratore migrante per entrare a far parte degli organismi si deve sentire stimolato da una forte motivazione personale. In secondo luogo, le quote potrebbero indurre la falsa percezione che un lavoratore immigrato sia presente in un organismo per tutelare e rappresentare i soli iscritti e lavoratori stranieri. Ciò sarebbe un grave errore: ogni lavoratore appartenente a una Rsu o ad altri organismi direttivi deve essere scelto in base alla capacità che ha di rappresentare l’intera platea dei lavoratori e delle lavoratrici. Non ci può essere rappresentanza limitata a una nazionalità, piuttosto che a un’altra specificità o condizione: un dirigente sindacale straniero deve essere in grado di rappresentare tutti/e i lavoratori/trici e fare contrattazione per tutti/e.

L’impegno della Fiom di Ravenna sarà stimolare un dibattito che vada al di là della semplificazione mediatica e politica, affrontando i temi nel merito delle questioni, come cerchiamo di fare qui, oggi. Siamo consapevoli anche del fatto che non sempre si trova consenso e si ottiene popolarità quando si cerca di approfondire problematiche legate all’immigrazione, soprattutto all’interno dei luoghi di lavoro. Il rischio che i lavoratori italiani percepiscano quelli migranti come concorrenti è più che concreto, ma non possiamo permetterci di assecondare una potenziale guerra tra poveri o, peggio ancora, far finta che non ci sia alcun potenziale conflitto. Per questo oggi cercheremo di approfondire anche attraverso la collaborazione di esperti/testimoni esterni al sindacato: convinti che un sindacato oggigiorno debba confrontarsi non solo sui temi del lavoro ma anche con argomenti di carattere sociale che inevitabilmente si intrecciano con quelli del mondo del lavoro e soprattutto aprirsi alla società civile.

Infine, mi fa piacere concludere questa relazione ricordando Bruno Trentin. Negli anni in cui era a capo della Cgil, Trentin fece scrivere nello statuto dell’organizzazione, all’articolo 1, che la Cgil è un «sindacato plurietnico» poiché già in quegli anni si era sviluppata l’idea di una Cgil non per gli stranieri, ma con gli stranieri. Non solo, Trentin sollecitava l’esigenza di cancellare dalla nostra sigla la «i» di italiana, per segnare anche nell’identità rappresentata dal nome dell’organizzazione una decisione irreversibile. A me piacerebbe che occasioni come queste e altre ai vari livelli contribuissero a eliminare quella «i» e a fare di tutta la Cgil un’organizzazione in cui i lavoratori e le lavoratrici si sentano parte di una grande comunità, a prescindere dalla loro origine.

(*) Andrea Mingozzi è responsabile Immigrazione della Fiom-Cgil di Ravenna. Al direttivo in cui ha presentato questa relazione sono intervenuti anche Daniele Barbieri, giornalista e blogger, Tiziana Dal Pra, dell’associazione di donne native e migranti «Trama di Terre» di Imola, e Alberto Grilli, regista del Teatro Due Mondi di Faenza che lavora con i rifugiati politici e richiedenti asilo. A trarre le conclusioni della giornata Roberta Turi della segreteria nazionale Fiom che ha la delega sulle politiche migratorie.  La vignetta è di Vauro.

Proprio oggi, 9 novembre, si svolge a Padova l’iniziativa «Scopri la differenza. Il ruolo del sindacato nei processi di integrazione degli immigrati» organizzata dalla Fiom Cgil. Nel corso dell’incontro verrà presentata l’inchiesta svolta dalla Fiom sul ruolo culturale ed educativo che deve svolgere il sindacato per facilitare i processi di integrazione. Partecipano Laura Boldrini (presidente della Camera), Eliana Como (ufficio studi Fiom), Fabio Perocco (università Ca’ Foscari), Claudio Piccinini (Inca nazionale), Grazia Naletto (Lunaria), don Albino Bizzottto (Beati i costruttori di pace), Vera Lamonica (segretaria confederale Cgil). Conclude Maurizio Landini, segretario generale Fiom Cgil.

 

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