Milena Debenedetti: I due lati del fiume

C’era una volta un Paese bellissimo, diviso esattamente a metà da un ampio fiume che scorreva da Nord a Sud. I luoghi non avevano un vero nome: erano chiamate Terre Sinistre quelle sulla sponda a Est, Terre Destre quelle della sponda Ovest. Quanto al fiume, era soltanto il Grande Fiume.  Il paesaggio era vario, il clima non troppo inclemente e la natura ricca di risorse.

Per secoli le popolazioni di quei luoghi erano vissute serenamente, secondo gli usi umani, immutabili dalla notte dei tempi: conflitti, duelli, liti fra gruppi, etnie, tribù, clan, villaggi, famiglie; lotte  per la supremazia, guerre di religione, persecuzioni, razzie, scontri (per il potere, per l’oro, per la gloria, per le donne), pestilenze e carestie. Insomma, niente di strano o insolito, normale routine, interrotta da brevi periodi di pace e anche un po’ di noia, ravvivati per fortuna da qualche bella esecuzione. Tra loro le Terre Destre e Sinistre avevano scarsi contatti, perché il fiume aveva correnti insidiose e piene improvvise, tanto che, di tutti i ponti eretti nel corso dei secoli, ne rimaneva in piedi solo uno, stretto, sorvegliato da entrambi i lati  e poco frequentato.

Poi tutto cambiò: dal Nord calò sul Paese un potentissimo signore della stirpe degli Orchi. Guardandosi intorno soddisfatto cominciò a calcolare quanto avrebbe potuto far rendere quelle fertili terre e far lavorare quelle numerose genti di indole sana e robusta. Così decise di stabilirsi lì, nelle Terre Destre, per governarle con mano ferma.

Nulla ottennero contro di lui i guerrieri valorosi: le lance più affilate si schiantavano contro il suo vasto petto, mentre le sue manone afferravano gli uomini a tre per volta facendoli schiantare. Né serviva l’astuzia: il suo stomaco mostruoso era immune ai veleni e il suo sonno così leggero da non poterlo mai sorprendere.

In più la durata della vita della sua stirpe, rispetto a quella umana, era lunghissima.

Insomma, alla fine il Paese intero, anche i popoli più fieri e combattivi, dovette sottomettersi e accettare la schiavitù. Che era privazione di libertà ma non miseria: l’orco amava circondarsi di lusso e li contagiò col suo esempio. In poco tempo quelle terre cambiarono aspetto; non c’era angolo fertile che non fosse intensamente coltivato, eppure non bastava mai, tanto che intere foreste dovettero essere rase al suolo. Altro legname andava ad alimentare le fucine, i forni che servivano immensi opifici, in cui si creavano merci sempre più belle e raffinate.

Chi prima si accontentava di due cambi per stagione, cominciò ad acquistare stoffe elaborate e abiti dalle fogge sempre più bizzarre, da smettere quasi subito, al volgere della moda. Al posto delle capanne e delle comode casette in legno si abituarono a vivere in grandi magioni di pietra, così fredde che non ci si scaldava mai. Invece della solita dieta di legumi e patate presero a mangiare carne e piatti elaborati, al posto delle mele di campo, tenute in soffitta tutto l’inverno, si procurarono frutta di terre lontane portata da mercanti attirati a frotte dalla ricchezza del Paese. E pagavano, pagavano, e riempivano d’oro i forzieri di commercianti e usurai, quasi tutti alle dirette dipendenze dell’Orco. E per avere denaro lavoravano e lavoravano, sempre di più, senza tregua.

Ma l’Orco era furbo: se sfiniti e tristi non gli avrebbero procurato altre ricchezze. Così ogni tanto proclamava all’improvviso feste spettacolari, piene di divertimenti frastornanti e cibi offerti generosamente e bevande che stordivano. Organizzava gare di canto, di corsa o di poesia con ricchi premi, sceglieva a casaccio persone da ricoprire d’oro o finti colpevoli da giustiziare, per tenerli occupati a sognare o a odiare. Si circondava di una elaborata gerarchia di personaggi a cui conferiva laute prebende con diversi e vari privilegi sugli altri, facendone una schiera di devoti. Abituò persino i capifamiglia a scegliere i propri rappresentanti di villaggio presso la sua corte, fra nomi da lui stesso indicati. Infine come somma concessione l’Orco non mangiava umani, ma si accontentava di capretti e maialini offerti in dono dai villaggi, al massimo qualche prigioniero, ogni tanto, per variare la dieta.

E così la vita, nelle Terre Destre del fiume, continuava.

Quasi nello stesso periodo dal Sud era arrivato per caso nelle Terre Sinistre del fiume, durante i suoi incessanti vagabondaggi, un temibile Licantropo.

Il Paese gli piacque. Inquieto, stravagante e assai colto, si proclamò grande consigliere illuminato e superiore, con poteri illimitati. Dichiarò che avrebbe guidato quelle terre verso la felicità e il futuro.

Le popolazioni ingrate tentarono subito di fargli la pelle. Ma non ebbero miglior fortuna dei loro dirimpettai, infatti anche gli uomini lupo erano praticamente invulnerabili.

Perciò il finale fu lo stesso: la sottomissione al nuovo e potente padrone. Tranne che, dopo tutte le esperienze accumulate in una vita inquietante, il mostro era sazio di ricchezze, potere, piaceri materiali. Sazio e quasi nauseato. La bellezza, il benessere, il lusso, qualsiasi frivolezza lo disturbavano e lo offendevano. Come ogni buon despota pensava che così dovesse essere anche per i suoi sudditi. Del resto era davvero convinto che li avrebbe avvicinati alla saggezza e alla serenità.

Per prima cosa vietò quindi espressamente i beni eccessivi e l’ostentazione di lussi. Tutto doveva essere distribuito fra gli abitanti di comunità che lui stesso aveva creato, deportando le popolazioni con le buone o le cattive.

Pretese che vestissero tutti, uomini e donne, di uguali abiti scuri.  Istituì una polizia di fedeli, che per puro gusto del potere vigilavano, denunciavano qualsiasi violazione, arrestavano e imprigionavano.

Il minimo – casa, cibo, lavoro e cure – era dispensato a tutti. Ma non una briciola in più. I ragazzi, maschi e femmine, potevano istruirsi:  il Licantropo aveva aperto una sterminata biblioteca, raccogliendo testi illustri e preziosi da tutto il mondo. I medici erano progrediti, esperti delle tecniche e dei farmaci d’avanguardia. Gli alchimisti e i maghi capaci delle più mirabolanti prodezze. Sotto gli insegnamenti e la guida del mostro, erano migliorate e rese più efficienti le pratiche dell’agricoltura e della produzione di beni, scongiurando le carestie. Ma il mostro controllava e dirigeva tutto, decideva quali ricerche e quali libri fossero leciti e quali no, imprigionava i trasgressori.

Persino la musica ammessa ai balli era solo quella composta da lui.

Avrete capito che il Paese era un po’ monotono e le sue carceri molto affollate. Perlomeno non mancava materiale umano da impiegare nei lavori di pubblica utilità. I dettami del mostro, con questo genere di sistemi persuasivi, erano rispettati alla perfezione.

Vigeva poi il coprifuoco, poiché ogni notte il Licantropo smetteva il suo aspetto umano, per trasformarsi in un orribile mostro assetato di sangue, che si spostava per incanto in ogni angolo del Paese; tutti, uomini e animali, erano obbligati a rinchiudersi negli edifici, sbarrati e silenziosi, al calar del sole, lasciando in offerta qualche carcassa di animale, di cui non rimanevano al mattino che pochi resti sanguinolenti.

Insomma, anche nelle terre Sinistre del fiume la vita continuava, con le sue regole.

Avrete capito che i nostri due personaggi, una volta saputo l’uno dell’altro, si trovavano reciprocamente insopportabili.

Non solo per l’ostilità mortale che divideva da tempi immemorabili le loro  stirpi, non solo per rivalità fra potenti, ma anche, e soprattutto, per la completa antitesi dei due mondi che avevano creato.

Cominciarono a mettere in giro voci infamanti all’indirizzo del confinante, per aizzare le folle. Chiusero anche quell’unico ponte. Misero al lavoro maghi, alchimisti, ingegneri per realizzare armi mirabolanti capaci di distruggere l’avversario. Le terre iniziarono a degradarsi, sia perché i boschi e i campi erano troppo sfruttati, sia perché le strane pozioni studiate come armi e le nuove trovate alchemiche avvelenavano aria e acqua, sia perché nel Paese dell’Orco la gente era troppo stremata, oppressa dai ricchi o presa in altre attività, e in quello del Licantropo troppo stanca, passiva, annoiata e sfiduciata, per pensare ad altro che all’oggi.

La guerra sembrava prossima e inevitabile, eppure non scoppiò mai. In realtà, nel segreto del suo cuore, ciascuno dei due contendenti aveva paura dell’altro e sapeva bene di non poter riuscire vincitore in un conflitto. Ma apertamente, per non perdere la faccia e non mostrarsi debole, doveva fingersi determinato e bellicoso, e a questo era dovuto tutto quello sfoggio di apparato militare.

Intanto, proprio per la differenza dei due lati del fiume, si diffondevano brontolii, e non tutti erano contenti come stavano. Qualche ribelle pensava al Paese avverso come a un modello. Nonostante le repressioni, malcontento e insoddisfazione del proprio stato continuavano a crescere, e in molti, in troppi, guardavano di là dal fiume con interesse e speranza. I due padroni furono costretti a cautele e concessioni, per tenere buona la gente.

Ormai le due società e i loro despoti mostravano segni di stanchezza. I ribelli crescevano, e aspettavano il momento decisivo per agire, favoleggiando una libertà piena di buoni propositi.

Poi accadde l’imprevisto imprevedibile. Un giorno il Licantropo, che amava pescare a mani nude nel fiume, entrando nell’acqua inciampò e cadde. Quando si rialzò ululando di dolore, si vide che  la mano sinistra era stata  trafitta da una punta metallica e da quella ferita sgorgava del sangue. Si trattava di uno spillone d’argento buttato via dalle Terre Destre, nel fiume usato ormai come discarica.

L’argento – tutti impararono in quel momento un segreto gelosamente custodito – era l’unico metallo letale per i Licantropi. Così il mostro fu trasportato alla sua dimora, febbricitante e avvelenato.

La voce arrivò al popolo. I tumulti e le inquietudini aumentarono. Finché la folla assediò il palazzo, un nucleo di coraggiosi sfondò le difese ormai inesistenti e si spinse fino alla stanza da letto del ferito. Gli sferrarono il colpo mortale con un pugnale d’argento di contrabbando. Il mostro morì senza troppo strepito, con uno sguardo da cane bastonato negli occhi ormai appannati.

I festeggiamenti durarono settimane. Il suo palazzo fu abbattuto, le carceri assaltate, i suoi spartiti musicali e le effigi dati alle fiamme. I poliziotti se la cavarono quasi tutti senza danni, perché avevano rapidamente gettato la divisa e si erano confusi fra i rivoltosi. Quel giorno fu proclamato festa nazionale. I granai e i depositi comuni dell’oro di Stato furono depredati. Le riserve di alcolici prosciugate. Gli inestimabili volumi della biblioteca fatti a brandelli o destinati agli usi più osceni.

Dopo tutta quell’euforia e quella  baldoria, stremati, gli abitanti delle Terre Sinistre si videro invasi senza resistenza dagli eserciti dell’Orco, sciamati dal famoso unico ponte e da molti altri ingegnosi ponti mobili che si potevano montare in un solo giorno. Un’invenzione del Licantropo i cui progetti erano stati sottratti dalle spie che pullulavano nei territori.

I banditori lessero un proclama in cui l’Orco dichiarava che ormai i popoli fratelli dovevano essere riuniti in un solo regno, per vivere tutti nell’abbondanza, nella pace e nella prosperità.

I cittadini delle Terre Sinistre, a quella notizia, gridarono di pura esultanza, salutando l’Orco come un liberatore.

Non passò molto tempo che quasi tutti loro, e non solo loro, ma anche i vecchi sudditi, ebbero modo di pentirsene. Intanto, nelle Terre Sinistre, molto meno sfruttate, era disponibile un sacco di materia prima, dai metalli alle campagne ancora fertili. E una massa di lavoratori abituati ad accontentarsi di poco.

I salari crollarono, per tutti. Solo una minoranza, nel vecchio come nel nuovo dominio, riuscì a profittare della situazione sfruttando cose e persone fino all’osso e arricchendosi all’inverosimile.

Così, si vide qualcosa di nuovo: gente che moriva di fame per strada. Molti persero la casa, costretti a venderla per sopravvivere. La maggior parte di persone non riusciva più ad acquistare il superfluo, così i negozi, gli opifici chiudevano.

In compenso, si producevano sempre più beni per accontentare i ricconi, che non sapevano come spendere i soldi (mal) guadagnati, e si davano a follie inaudite. L’unica avvertenza era non superare mai l’Orco in alcun possesso o sfoggio di lusso, altrimenti la sua collera sarebbe stata terribile.

Già, e l’Orco, direte voi? Fino a quel momento aveva mostrato una certa astuzia nel mantenere un equilibrio nel suo regno: e adesso? Era forse debole e invecchiato?

No, era ancora forte, solo che tutto quel potere assoluto e l’euforia per la sconfitta del suo antico nemico gli avevano ormai ottenebrato la mente.

Fatto sta, che di equilibrio gliene era rimasto ben poco. Affermava convinto di aver sconfitto in battaglia il temibile Licantropo e distrutto il suo regno del male, dimenticandosi che si fosse trattato di un incidente, e che se non fosse stato per quella fortunata coincidenza, anche il suo stesso regno sarebbe stato prossimo al crollo. Faceva anche celebrare un Giorno della Vittoria, in cui i menestrelli narravano sulle piazze l’epico combattimento, come fosse realmente avvenuto. Non perdeva occasione per denigrare il vecchio Regno delle Terre Sinistre, raccontandone miserie e misfatti.

Quando notò i mendicanti per strada e i molti negozi e laboratori in rovina, s’infuriò moltissimo, perché quelle immagini gli rovinavano le  passeggiate. Fece cadere a casaccio due o tre teste. Obbligò a riaprire le botteghe a forza, tagliando ancor di più i salari per ridurne le spese.

Poiché le cose continuavano a non funzionare, ebbe la pensata del “Debito Minimo Obbligatorio”: ogni capofamiglia doveva per obbligo acquistare un certo numero di beni ogni mese. Se non aveva abbastanza di che pagare, gli veniva concesso un prestito, che naturalmente non avrebbe potuto onorare mai. Allora si limitava a pagarne gli interessi, vita natural durante, e il debito ricadeva sui suoi figli, che a loro volta avrebbero dovuto continuare a lavorare gratis.

In questo modo, certo, le botteghe riaprirono e riebbero i clienti, l’economia parve funzionare, ma era facile prevedere che le conseguenze avrebbero portato il paese al caos. Quando i ministri più avveduti cercarono di spiegare all’Orco l’assurdità intrinseca della cosa, saltarono altre teste. Era diventato ancora più collerico e dispotico.

Il solo pensiero delle concessioni fatte a suo tempo per paura del Licantropo lo rendeva furibondo. Si rimangiò tutto e abolì persino le feste.

Non solo: dichiarò che i capretti non gli bastavano più, adesso a turno i villaggi dovevano consegnargli, a ogni luna nuova, un bel bambino di meno di tre anni, e che fosse bello grasso e tenero per stimolargli l’appetito. E a ogni plenilunio, una giovane vergine di bellissimo aspetto, così avrebbe potuto, per così dire, consumarla due volte.

Non ci furono suppliche che tenessero: la decisione fu irrevocabile. Anzi, rispolverò una vecchia religione in declino, che prevedeva sacrifici umani, ne foraggiò abbondantemente il clero, costruendo a sue spese templi bellissimi e regalando loro sontuose stole e copricapi intarsiati di pietre preziose, perché fossero maestosi e terribili agli occhi del volgo. In cambio, avrebbero dovuto solennizzare le offerte al temibile signore, creare rituali appositi per proclamarne la divinità e farla accettare al popolo come religione unica.

Così vanno le cose ora, e i ragazzi imparano la storia e la magnificenza del regno dell’Orco, e la fortuna di viverci, e le orribili nefandezze del Licantropo portatore  di oscurità e miseria, e la gloria del Liberatore, signore e divinità, e i riti complessi della nuova religione.

Così, crescono felici e convinti di vivere nell’unico, nel migliore dei mondi possibili. Almeno, quelli non troppo rosei e grassi e teneri.

Ma questa sarebbe la fine? – direte voi.

In effetti, no, la storia non è finita, sta ancora continuando. Ve l’ho raccontata come l’ho sentita da un mio amico, un mercante che ha viaggiato molto.

Dice che adesso la situazione è, se possibile, ancora più confusa, il Paese impoverito, preda di tensioni. Nelle Terre Sinistre qualche vecchietto rimpiange persino il Licantropo, e ogni tanto porta fiori sulla sua tomba, nascosta nel folto nella foresta, e racconta ai bambini, increduli e scettici, che non si stava poi male prima, e che ci vorrebbe un altro Licantropo, un liberatore, per sconfiggere l’Orco e riportare l’uguaglianza. Anche nelle Terre Destre qualcuno dei ribelli di un tempo, ogni tanto, ci pensa. Ma i Licantropi sono quasi estinti.

Un movimento di fanatici progetta invece di chiamare dal Nord un altro Orco, più giovane e forte e spietato dell’attuale signore: sono convinti che solo un regnante dal polso fermo possa riportare l’ordine nel caos.

L’Orco signore per parte sua conosce le proteste e teme che non sia più possibile frenarle, nella miseria e nel malcontento generale. Ha tentato con le esecuzioni di massa, diffondendo false notizie come al solito, ha fatto creare dai suoi consiglieri almeno un centinaio di nuovi beni inutili da far comprare al popolo ma niente, non si distraggono. Allora, su consiglio di uno di quei preti, sta pensando di rivolgere il malcontento su un Paese vicino, dove è potente una religione rivale. Ha fatto organizzare efferati attentati, con molte vittime, di cui ha accusato come mandanti i capi religiosi stranieri. Sta armando eserciti per muovere guerra ai confinanti; così, annienterà l’altra setta facendo contenti i sacerdoti, terrà occupato il popolo incanalando altrove la sua rabbia, procurerà nuove risorse per il Paese allo stremo e nuove terre per i pezzenti, massacrando i vecchi abitanti che fra l’altro potrebbero fornirgli più di un gustoso spuntino dal sapore  esotico.

Se vinceranno, naturalmente. Perché pare che il Paese rivale sia ben armato, con un territorio facile da difendere, e la popolazione agguerrita e disperata. Si prospetta una lunga guerra, e poi forse ce ne saranno altre, chissà.

Proprio ora, di questi tempi, penso stiano marciando alla frontiera…

UNA PICCOLA NOTA

Milena De Benedetti è chimica, ricercatrice e molto altro. L’ho incrociata da poco sulle pagine di “Ambigue utopie: 19 racconti di fantaresistenza” (qui recensito) dove era l’unica donna (il che naturalmente significa qualcosa).  Il suo racconto – “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori” – mi ha costretto a scaldare (metaforicamente) la mia colonna… vertebro-cerebrale, scossa dai brividi. Ci siamo scritti, le ho detto che mi sarebbe piaciuto averla un sabato su codesto blog ed eccola qua. Così gentile da chiedermi persino se preferivo fantascienza o fantasy, un edito oppure un inedito. E io ovviamente a dirle “fai tu”. Finito di leggere questo suo racconto mi torna in mente (chissà perchè) il “de te fabula narratur” – spero che il mio scarso latino scolastico non mi tradisca – insomma è come se questi due lati del fiume mi ricordassero qualcosa che è accaduto (nel secolo scorso?) e/o sta per accadere, sacrifici umani compresi purtroppo. Se così fosse, i due protagonisti in italiano dovrebbero avere nomi che cominciano con la C (ma con la K in tedesco). Voi che ne dite? (db)

Redazione
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Un commento

  • Mario Sumiraschi

    Milena mi ha fatto leggere due racconti: quello scritto da lei simpaticamente tragico ( sagace ossimoro ), scritto bene ( lei è una scrittrice lo sa fare ) e un altro solamente tragico la cui lettura era parallela e stava dentro la mia testa… Doppio ++

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