Mina di Sospiro, Papisca, Paradisi, Pennac, Peroni, Van der Noot e Vázquez Montalban

7 recensioni – non solo giallo/noir – di Valerio Calzolaio

Calz-Pennac

Antonio Papisca

«Noi, diritti umani. Rappresentazione di dignità umana, et di pace»

Marsilio

192 pagine, 14 euro

1215-2015. La Magna Charta Libertatum ha appena compiuto 800 anni. Le radici del diritto umanocentrico dei diritti umani e della pace ha radici ancor più lontane e una vita successiva molto contrastata ed elaborata. Il competente bravissimo Antonio Papisca, professore emerito dell’università di Padova, ha realizzato un’azione scenica in prosa e poesia del diritto per rendere palpabile, con linguaggio semplice, la dolce ontologia dei diritti che ineriscono, egualmente, a tutti i membri della famiglia umana. Il noi sono i nostri diritti, i testi in vigore a livello internazionale e due importanti espressioni di società civile: «Noi, diritti umani. Rappresentazione di dignità umana, et di pace», testo inglese a fronte (traduzione di Lorraine Buckley), un paio di dispute (soprattutto contro il vecchio diritto statocentrico delle sovranità nazionali armate), evocazione di odi e musiche.

 

Guido Mina di Sospiro

«La metafisica del ping-pong. Un’introduzione alla filosofia perenne»

Ponte alle Grazie

Un tavolo di 152,5 centimetri per 274, alto 76 con retina di 15,25. Prima, ora e dopo. Guido Mina di Sospiro è cresciuto a Milano, faceva le vacanze in montagna e al mare, lì qualche volta giocava a ping-pong. Università a Los Angeles, fidanzamento matrimonio figli (3 maschi) e trasferimento a Miami dove comprò un tavolo di ping-pong ma i pargoli impararono senza appassionarsi; durante le vacanze in Italia qualche volta ancora giocava, occasionalmente anche a casa di amici a Londra. Anni dopo vinse un torneo amatoriale in crociera, passati due anni un figlio lo sfidò e lo batté mentre erano in viaggio con la famiglia, finché un medico gli diagnosticò la pressione alta, doveva praticare uno sport, scelse il tennis tavolo, saggio e appagante, ebbe pure la sua rivincita. Ormai ha un ranking altissimo (addirittura 1900 punti qualche anno fa) è felice, ne ha tratto insegnamenti su tutti i fronti della vita. Quello sport era nato per l’aristocrazia vittoriana, nel 1900 fu introdotta la pallina cava di celluloide, le racchette erano “hardbats”, ricoperte da gomme con i puntini, prive di gommapiuma fra gomma e telaio, per velocità e abilità dominavano europei e americani. Dal 1952 cominciarono a prevalere giapponesi e cinesi, avevano racchette lisce con gommapiuma, facevano ruotare la pallina, “offendevano” con il topspin più che con la schiacciata, incrementarono soprattutto scatto e tattica, trasmisero il colpo al gioco capostipite (che si imitava in piccolo) ovvero il tennis (che impedì però l’adozione di racchette congrue). Una decina di anni dopo fu standardizzato il “sandwich”, gomma puntinata (verso l’interno) più gommapiuma sottile. Fu una rivoluzione, ormai i giocatori sono quasi tutti metafisici, resiste una sciocca minoranza di empiristi. Wow!

Guido Mina di Sospiro (Buenos Aires) è tornato con i genitori dall’Argentina in Italia negli anni sessanta dove ha fatto scherma e poi il liceo, ventenne all’inizio degli anni ottanta è andato a studiare negli Usa e vi è rimasto. Pizzetto sul mento, fumatore di pipa, alto più di 1,80 scrive in inglese e ha aiutato la traduzione – di Alessandro Peroni – di questo bel libro dedicato al ping-pong (originale del 2013). Assegna giustamente essenziali funzioni vitali al nostro amato sport, il secondo più praticato al mondo dopo il calcio. Serve a capire il pianeta umano e comunque a vivervi meglio. Da mezzo secolo il ping-pong è divenuto un’attività studiata in laboratorio, per l’infinita combinazione di spin, velocità, angoli e traiettorie: risente di ogni progresso scientifico e tecnologico e viene collegato a discipline come la meccanica dei fluidi, la matematica avanzata, la biomeccanica umana, l’intelligenza artificiale, la scienza dei materiali. Incredibile, ma vero: un gioco controintuitivo per un intrattenimento irriverente (si cita Sheryl Crow), da “Absolute Beginners” (David Bowie). Il volume è insieme un’autobiografia di parti importanti della vita con il racconto meticoloso di molti viaggi effettuati e di alcuni incontri disputati, un saggio breve a cavallo fra sport e scienza, un romanzo di formazione (aneddoti politico-culturali, dialoghi fra amici di varie nazionalità, citazioni colte, aforismi). Le parti “filosofiche” sono le più vicine alla competenza professionale dell’autore, pur se talora rasentano un certo unilaterale fondamentalismo pongista, imperniate sulla contrapposizione fra il moderno Platone e l’antico Aristotele. Alcuni possono perdonarglielo, noi che giocammo non poco e non a stento. Giusta diffidenza, comunque, per il pensiero lineare e la superbia. Segnalo il diabete a pag 103.

 

Manuel Vázquez Montalbán

«Autobiografía del general Franco»

traduzione e nota di Hado Lyria

Sellerio

1002 pagine, 18 euro

Franco. 1892-1975. Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde Salgado-Araujo y Pardo de Andrade fu un dittatore spagnolo. Manuel Vázquez Montalbán (1939-2003) è stato uno dei più grandi scrittori e intellettuali europei del secolo scorso. Nel libro (“Autobiografía del general Franco”: originale spagnolo del 1992, edizione Frassinelli del 1993) tradotto come “Io, Franco”, fa finta di essere lo scrittore antifranchista Marcial Pombo (più vecchio di 9 anni rispetto a Manuel) incaricato da un editore di successo (che gli paga un ricchissimo anticipo) di raccontare in prima persona la vita del dittatore. Esegue, intervallando la retorica del protagonista con (brevi) commenti critici in corsivo dell’intervistatore su se stesso, sui fatti e su altre testimonianze. Un capolavoro di narrazione saggia con indice finale dei personaggi storici, merito alla riedizione Sellerio!

 

Mariangela Paradisi

«Ritratti (scherzi del destino)»

Affinità elettive edizioni

98 Pagine,13 euro

Mariangela Paradisi è una docente universitaria di economia in pensione. Nata a Roma, vissuta in provincia di Ancona, risiede in campagna e mantiene la passione per la scrittura arguta e coerente, commenta le informazioni di cronaca sui social, narra la realtà attraverso racconti. Il suo ultimo agile volumetto «Ritratti (scherzi del destino» prende spunto dalle burle del caso-caos (destino) per tratteggiare 15 personaggi, in terza o in prima persona. Non ci sono i luoghi, certo le Marche, ma si gira molto. Ci sono nomi e s’intravedono persone forse incontrate davvero, percorsi intrecciati che sembrano prendere direzioni diverse per poi intersecarsi di nuovo. Come quelli dell’economista furbo all’ombra del Maestro e del contadino geniale vendicato dalla figlia. O il principe del Foro alle prese con il barbone e con la badante. O il guardiano del fiume con le piene (di Senigallia).

 

Patrizia Debicke van der Noot

«La congiura di San Domenico»

Todaro editore

256 pagine, 16 euro

Bologna. Fine 1506. Quasi all’alba del 26 novembre i frati trovano due cadaveri sui gradini dell’antica Cappella dell’Arca nella Basilica di San Domenico: fra’ Consalvo pugnalato alla schiena con sopra la testa un gatto nero strangolato con il cordone del saio. A indagare arrivano il senatore Marescotti, mano sinistra del pontefice nel senato bolognese e l’imponente biondo Leutnant Hertenstein, geniale letterato della Guardia Svizzera e Sentinella del Papa. Il morto era vice dell’inquisitore fra’ Gaudioso. Il giorno prima era arrivato in città da Firenze Michelangelo Buonarroti richiesto da papa Giulio II. C’è di che spiare, sviare, tramare, uccidere. Con «La congiura di San Domenico» la colta Patrizia Debicke van der Noot prosegue la serie storica sulla curia vaticana (sei mesi dopo le trame del primo romanzo). Collana curata dalla compianta Tecla Dozio cui il libro è dedicato.

 

Daniel Pennac

«Abbaiare stanca»

traduzione di Cristina Palomba

illustrazioni di Cinzia Ghigliano

salani – Teen YoungAdult

Nizza e Parigi. Tempo fa. Il Cane sentiva che la sua padroncina Mela era irritata e preoccupata, da due giorni aveva pure smesso di mangiare, lui digiuna come lei, lo chiudono in cucina e sogna, trema e singhiozza ripercorrendo dolori e gioie della propria breve vita. È un randagio, nato brutto in una cucciolata di 5, scartato dalla vendita e quasi annegato, finito nella discarica di Villeneuve vicino Nizza. Lì la vecchia stanca autorevole Muso nero lo svezza e alleva, gli insegna a riconoscere odori e trovare una pista, a capire alcuni pericoli senza esitare, a schivare la roba buttata via dal camion della spazzatura, cose così. Un giorno lei viene travolta dallo sportello di un frigorifero, lui si avventura in città per cercare una “padroncina”, come suggeritogli. Scopre gerani, aranci, case ocra e cielo azzurro, ordine e pulizia. Trova subito come amico un macellaio, segue alcune passanti, ma poi viene preso dall’accalappiacani e portato al canile. Un postaccio: con la recente ordinanza del primo luglio, se qualcuno non riconosce o sceglie quelli senza padrone verranno soppressi. Stanno tutti insieme, fanno comunità, crescono legami, attendono la fine con coraggio. Quasi all’ultimo momento una coppia di turisti accompagna la figlia e, senza alcuna apparente giustificazione, viene salvato. Grazie Mela! La bimbetta è gracile, magrissima, la testa a sole acceso (capelli rossi dritti), un profumo di mela. In campeggio stanno benissimo insieme, corrono e giocano, si coccolano. Decide di dargli come nome “Il Cane”, il più originale che esista. Al ritorno a Parigi cambia tutto. I genitori restano antipatici, Mela riprende vecchi amori, lui infine fugge e trova un’altra sistemazione, finché per caso non la reincontra e decide, questa volta, di ammaestrarla meglio. Ora è di nuovo il tempo di partire per le vacanze, Mela e Il Cane digiunano, i genitori Spepa e Muschioso si sono stancati di lui.

Daniel Pennac (Casablanca, 1944) aveva 38 anni quando pubblicò questo romanzo per ragazzi (“Cabot-Caboche”), era insegnante e padre. Alla fine della narrazione inserì un breve testo (in corsivo): «Né ammaestrato, né ammaestratore». Dichiarava di non considerarsi uno specialista di cani, pur avendone avuti tanti per amici: Pec (il primo, bastardo cocker biondo), Kanh (dobermann), Louke (compagnia per le vacanze, pastore beauceron), Diane, Fantou, Susi, Benjamin, Ubu, Petit, Alba, Swann, Bibi, Bolo, Julius, Blackie, J. B., Ouapy, Xango (cane di un amico, sotto il tavolo mentre scriveva). A loro (suoi, amici di parenti, personaggi letterari) il libro fu dedicato. Peccato non abbia mai conosciuto Brio e Lilla. La postfazione è molto utile a noi umani sapienti che da migliaia di anni conviviamo con varie specie canine, serve a far capire che è necessario un certo rispetto per la dignità di entrambi. E che, se si hanno amici che ne hanno paura, i cani non vanno imposti. E che si possono lasciare senza risposta le sciocche psicoanalisi sull’incapacità di amare. E che ognuno può verificare tranquillamente di persona che sono compatibili con i gatti. E che comunque non li si abbandona mai. Nel libro si capisce anche altro: la gelosia dei genitori, l’idiozia di alcune norme, il punto di vista animale sulle città e sulle relazioni civili. È in terza persona fissa sul Cane, una bella intelligente fiaba per adolescenti e adulti. Poche e graziose le illustrazioni, ottima la copertina originale e azzeccato il titolo dell’edizione italiana (la prima del 1993).

 

 

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