Mio nonno, tre calendari e un airone

di Daniela Pia

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Nell’edicola della piazza sant’Antonio mio nonno aveva trovato un suo spazio, una certa libertà, un poco di quella che gli avevano sottratto nella prima e nella seconda guerra mondiale dove lo avevano rapinato di sole, luce e anni di sonni e sogni. Quelli che solo la campagna, forse, sapeva restituirgli. Era libero, il reduce di due guerre, nella sua minuscola vigna al confluire del fiume dolce con quello salato, quando ascoltava il fruscio delle foglie di vite e il canto degli uccelli mattutini, scandito solo dalla voce della zappa che sollevava la zolla.

Quando la campagna da lavorare finì, che la terra non era più sua, si alzava lo stesso presto al mattino ad annusare l’aurora; dopo aver bevuto il caffellatte, condiviso con Riolo il cane suo fedele, andava ad aprire il chiosco. Per staccare i portelloni di legno ne sfilava le lamine che bloccavano grossi chiodi di ferro e dava luce ai pertugi dai quali si mostravano le copertine dei settimanali: Oggi, Bolero, Il Borghese, Guerin Sportivo, Epoca, Grazia e Domenica del Corriere. Mentre facce e storie prendevano posto nelle loro finestre, lui tagliava lo spago che legava il pacco di L’unione sarda e lo disponeva davanti all’apertura da cui si affacciavano i volti assonnati dei pochi lettori fedeli che in cambio di cinquanta lire si portavano via un lenzuolo di carta e inchiostro.

Chiacchierava, nonno, e ascoltava il fluire del tempo, fatto di parole e stagioni che si alternavano, fra gente che nasceva e gente che moriva in modo più o meno umano.

Intanto di lato, in basso, molto in basso, un manto verde copriva e scopriva il rio Matzeu, le pecore allietavano il paesaggio e brucavano fiori e steli.

Nonno raccontava il fiume e le creature che lo animavano: mi aveva insegnato a scovare rane, a riconoscerne il verso, a intuire il passaggio di colubri e lucertole, a intercettare le gallinelle d’acqua.

Aspettava al mattino, da ottobre in poi, che passassi tutta infiocchettata, per andare a scuola.

Il suo saluto prima del suono della campana era una benedizione inventata solo per me, mani ruvide ad aprire la giornata. E non era la parte più bella. Mi dava, di tanto in tanto, anche dieci lire da spendere al bar di “tziu Amilliu Ferru”: farina di castagne e giggiole appiccicose, tesori nascosti da godere per strada e sottobanco. All’uscita da scuola chiudevamo il chiosco assieme: io guardavo e lui faceva, mentre il cane scodinzolava annusando l’aria che sapeva di cibo. Mi faceva salire sulla muraglia, che recintava lo spazio della chiesa, nonno Pia, e mi portava sulle spalle abbracciata alla sua testa. Che il mondo aveva una prospettiva privilegiata. Alta. Altra.

Era un antifascista mio nonno. Convinto seguace di Emilio Lussu, lo conosceva personalmente e ne aveva difeso le ragioni sposandole pienamente. Non era amato dagli amici del duce. Nonno Berengero dai fascisti era stato manganellato e purgato per essere una testa pensante, un oppositore. Sapeva che «É pericoloso avere ragione in questioni su cui le autorità costituite hanno torto» ed è sempre stato consapevole che avrebbe pagato un prezzo alto per esercitare questa sua libertà di pensiero; se ne fece comunque una ragione. Una ragione faticosa, che pagarono anche i suoi figli e sua moglie.

Ci sono persone che non hanno prezzo e che non si possono comprare e lui era uno di questi.

Uomo dalla schiena dritta era stato forgiato alla fucina del socialismo vero, imbevuto di idealità grandi e di parole parche. Di solitudine superata da “manu pitticca in manu frunzia”, la mia e la sua. Dagli occhi fiduciosi del cane e da un piatto caldo davanti al fuoco.

Di poco aveva bisogno .

Presidiava il chiosco dei giornali orgoglioso di dispensare notizie a uomini e donne curiosi e con le scarpe impolverate. Che le strade non erano mica asfaltate.

Ma se fosse stato al mio fianco stamattina, mentre tornavo dalla mia passeggiata sul fiume, mio nonno sarebbe impallidito. Avrebbe forse pensato che la storia è menzognera. Una prostituta sfatta che si vende per nulla umiliando se stessa. Nell’edicola che un tempo fu sua e nostra troneggiava supponente l’inverecondo calendario con l’effige del duce, insulto a quel luogo e alle infamie che furono.

Non ho potuto esimermi, mi sono avvicinata: «scusate – ho osato – ma come potete esibire in questo modo l’ immagine di Mussolini, forse è vero che la Storia non insegna nulla? Non si può togliere dalla pubblica piazza questa celebrazione disonorevole?». Mi ha guardato il ragazzo, giovane sì, ma non tanto da ignorare cosa fu il fascismo. Non tanto da non sapere quali infamie portò con sé. Ha sorriso il ragazzo e mi ha risposto «Sa in questo modo ne ho già venduti tre».

Così mi son ritrovata, riprendendo la strada verso casa, a chiedermi se ci potesse essere una qualche giustificazione capace di barattare l’insignificante guadagno, frutto di tre calendari, con la promozione del brutto grugno di Mussolini; con la dimenticanza dell’olio di ricino e del manganello. Con le leggi razziali e la guerra. Poi mi è giunto in soccorso mio nonno, mi ha preso per mano e mi ha ri-portato in riva al fiume, a esercitare l’arte della pazienza, ad aspettare il passaggio del cadavere di una storia monca, quella che sembra scorrere invano senza sapere cosa sia la decenza.

Intanto un airone solitario dispiegava le sue ali, bianche, dalla riva del torrente e accendeva timide speranze.

 

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

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