Monica Lanfranco: andiamo noi da loro

Un flashback: prima della tre giorni femminista PuntoG, nel giugno del 2001, nel mondo dei movimenti delle donne che lavoravano dentro e fuori del Genoa Social Forum ci fu un conflitto importante e significativo.

All’epoca ero una delle portavoce del Gsf e più si avvicinava luglio più si infiammava il dibattito dentro e fuori i luoghi dove si stava organizzando e decidendo il da farsi per l’imminenza della settimana di dibattiti, incontri e manifestazioni a ridosso del G8 di Genova.

Intorno a maggio una componente del Gsf, quella della Tute bianche, senza avvertire gli altri gruppi uscì a sorpresa con un comunicato e una conferenza stampa, effettuata con i volti coperti, nel quale si dichiarava «guerra al G8» e si annunciava che si sarebbe violata con ogni mezzo la zona rossa imposta a Genova.

La dichiarazione di guerra era ovviamente una provocazione tutta giocata sulla volontà di attirare l’attenzione dei media, un proclama tipo «guerra alla guerra» e il fatto suscitò una grande irritazione da parte delle componenti esplicitamente nonviolenta del Gsf, tra cui la componente femminista.

La nostra critica più evidente e marcata era sull’uso clamorosamente contraddittorio e controproducente di un linguaggio aggressivo e militaresco, che in un colpo solo, a scopo propagandistico e auto-referenziale, faceva arretrare l’immagine dei movimenti che, proprio grazie al lavoro di mesi delle femministe e della componente nonviolenta aveva cercato di guadagnare l’attenzione dell’opinione pubblica sui contenuti e sulle pratiche pacifiche e altre rispetto alla violenza del G8.

Alcune giovani donne che stavano nel gruppo delle Tute Bianche mi contattarono, subito dopo un nostro duro comunicato nel quale ci dissociavamo come femministe da quella iniziativa e, appunto, dal linguaggio adoperato: allora come ora pensavamo che è necessario, nel cambiamento, partire da un linguaggio smilitarizzato, perché, per dirla con le parole di Audre Lorde «non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone».

Le giovani vivevano una forte contraddizione e un imbarazzo dal quale non sapevano come uscire: si sentivano in sintonia con le nostre affermazioni, ma dall’altra parte, con candore e franchezza, ci dissero che avevano difficoltà ad aderire al nostro comunicato perché i loro compagni maschi avrebbero preso male una dissociazione e una critica.

Alcune di noi “sorelle maggiori” si irritarono, non senza motivo, di fronte a questo problema, e liquidarono la questione sostenendo che le giovani dovevano da sole curarsi il mal di pancia politico e prendere una decisione.

Io con alcune altre decisi di convocare una riunione con le ragazze e offrii loro una mediazione: avremmo fatto assieme un documento contro il militarismo dentro e fuori i movimenti che potesse essere condiviso da tutte noi, in modo da rafforzare anche la loro presenza dentro il gruppo misto delle Tute Bianche, ovviamente monopolizzato e diretto da maschi.

Andammo quindi noi, le maggiori, verso di loro, e riuscimmo insieme a scrivere un testo che soddisfò le diverse esigenze. Una buona mediazione, ma soprattutto un gesto di responsabilità che metteva al centro la relazione fra donne di diverse generazioni e le chiamava al confronto a partire dai loro luoghi, senza immediatamente chiedere loro di schierarsi da una parte.

Non fu facile, ma pagò.

Ho fatto questo esempio di pratica di mediazione perché credo che oggi, a pochi anni di distanza dal 2001 ma in una realtà che a volte appare lontana in modo siderale da allora tocchi nuovamente a noi “maggiori” fare un primo passo verso le giovani donne (e uomini) per riprendere il filo del dialogo e della trasmissione dei valori, dei contenuti e delle pratiche del femminismo.

Non c’è iniziativa promossa da gruppi di donne nella quale non si affronti il delicato tema della scarsa presenza di giovani: anche nelle occasioni più partecipate c’è sempre qualcuna che evidenzia il problema con l’annosa domanda: «dove sono le giovani?» e anche «come facciamo a coinvolgere le nuove generazioni?».

Ovviamente non c’è solo una risposta, ma intanto ecco la mia: «andiamo noi da loro». Personalmente e collettivamente lo faccio, per esempio, da 15 anni attraverso la rivista Marea e ultimamente con il libro «Letteralmente femminista».

Penso che in questo momento di grande difficoltà per la civiltà dei diritti di genere e della democrazia in generale ci siano, per paradosso, spazi che si aprono per ricominciare con un’azione incisiva di ri-alfabetizzazione alla politica delle donne.

Una grossa occasione ce la offre l’attacco frontale e violento all’autodeterminazione in tema di scelte riproduttive: in agguato, dietro alle difficoltà per l’introduzione della pillola Ru486, c’è come di consueto la guerra contro la legge 194.

Se è vero che alle iniziative che si stanno intensificando in tutta Italia in difesa dell’autodeterminazione le giovani donne non sono la maggioranza, e se è vero che ancora una volta sono le donne più adulte a muoversi e a essere in prima fila nella difesa dei diritti di genere, perché – invece che continuare a lamentare la giusta preoccupazione per l’assenza delle ragazze – non prendere l’iniziativa e proporci loro come interlocutrici nomadi e andare dove le giovani si trovano, ovvero nelle scuole, nelle università, nei centri sociali, nelle associazioni dove tante ragazze e giovani donne si impegnano spesso senza attenzione alla differenza di genere?

Nel primo femminismo le studentesse, le giovani fortunate a poter studiare e quindi maggiormente stimolate nella presa di coscienza della discriminazione e della segregazione sessista si muovevano e incontravano le donne meno fortunate: andavano nelle borgate e nei quartieri popolari e parlavano di contraccezione, di auto-visita, di sessualità e di violenza.

Nei Paesi in via di sviluppo e dove governano regimi autoritari e fondamentalisti si sta facendo la stessa cosa adesso: perché non provare a organizzare piccoli gruppi di femministe di varie età che si rendono disponibili a andare a incontrare nei loro luoghi le giovani donne?

L’autorevolezza delle donne, che nel movimento femminista è stata a lungo teorizzata e discussa, credo si manifesti anche in questo delicato momento di passaggio del testimone che necessita di visibilità delle nostre parole e delle nostre pratiche, e possa prendere anche la forma di offerta di interlocuzione attraverso la narrazione della storia, individuale e collettiva, che ciascuna di noi porta con sé.

Se non proveremo a rintracciare le nostre interlocutrici anche superando qualche ostacolo di comunicazione, se le giovani donne non ci troveranno, a noi sorelle maggiori, madri e nonne simboliche, pronte e disponibili al dialogo e al conflitto con loro, credo che rischieremo di perdere una importante occasione.

www.monicalanfranco.it www.mareaonline.it; www.altradimora.it; www.radiodelledonne.it

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