Monica Lanfranco: la vecchiaia negata

Se non fosse drammatica la proposta di innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per le donne sarebbe grottesca.

Siamo il Paese della retorica sulla sacrale funzione materna, eppure essere madre nella realtà di tutti i giorni è una corsa a ostacoli spesso perduta, perchè non ci sono strutture pubbliche sufficienti per supportare la scelta della maternità, oltre che garanzie di lavoro per chi desidera sia i figli sia una attività extradomestica.

Siamo il Paese della retorica sulla santa funzione dei legami di sangue, salvo poi non investire in luoghi pubblici (nella sanità come nel sociale) che accompagnino le persone nell’ultima parte della vita, in modo dignitoso se non sereno, senza che tutto pesi sulle spalle della famiglia stessa, e quindi delle donne.

Eppure non c’è coerenza in tutto questo barocchismo retorico, quando si tratta di  ammettere che le donne, come madri e come pilastri dell’istituzione familiare, dovrebbero vedersi  riconosciuto l’enorme lavoro di riproduzione e cura che svolgono nella società, solitamente rubricato come “naturale ruolo” femminile.

Un riconoscimento fragile e ambiguo, fin qui, evidenziato con la possibilità (non l’obbligo) per le donne di accedere alla pensione a 60 anni, in virtù appunto del ruolo che negli anni ’80 avevamo definito come “doppio”, ovvero attivo e produttivo sia dentro che fuori le mura domestiche.

Risulta chiarissimo, dalle cifre come dalla realtà quotidiana, che l’entrata delle donne nel mondo della produzione, in modo altalenante ma inarrestabile dal dopoguerra ad oggi, si è caratterizzato in Italia come un fenomeno che poco o nulla ha mutato nella divisione dei ruoli sessuali nell’ambito domestico.

Se è vero che, come segnala l’Istat, il 77% del lavoro domestico e di cura è a carico delle donne, e il tempo dedicato dagli uomini al lavoro familiare è cresciuto di 16 minuti in 14 anni, questo grande Paese europeo risulta ancora saldamente inchiodato in una  divisione di ruoli rigidissima, rimasta pressoché invariata negli ultimi vent’anni.

Ci possono essere dubbi sul fatto che in questa situazione l’innalzamento dell’età pensionabile femminile non farebbe altro che rendere ancora più insostenibile la vita di tante donne?

Qualche buontempone si è azzardato persino a sostenere che questa misura sarebbe un precipitato logico dei diritti di uguaglianza: come a dire che avere gli stessi diritti civili degli uomini rende le donne uguali a loro.

Molto spiritosi.

Bizzarro come faccia comodo (ma solo a volte) tirare in ballo l’emancipazione: o le donne sono sempre limoni da spremere, quando la crisi picchia duro, e le borse dello Stato si chiudono per i bisogni primari dell’assistenza e della cura, oppure sono cittadine di serie B, dimidiate dalla loro presunta debolezza muscolare e sessuale, e quindi bisognose di protezione.

Questa visione della convivenza fra i generi produce politiche cialtrone e inique: serve che le donne facciano sia le madri che le badanti, restando ben attive nella sfera della riproduzione (ma senza aiuti e servizi collettivi) e contemporaneamente  serve che producano come gli uomini, gravando sulla società come pensionate il più tardi possibile.

Per paradosso oggi si chiede alle donne di continuare ad essere attive anche nel mondo della produzione pur continuando a svolgere l’invisibile (socialmente ed economicamente) quanto indispensabile lavoro di cura: visibili e penalizzate per il mercato, invisibili e gratuite per la riproduzione sociale.

Forse è il caso che le vecchie terribili alzino la voce.
www.monicalanfranco.it
www.altradimora.it
www.mareaonline.it
www.radiodelledonne.org

Redazione
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