Monica Lanfranco: stupri di guerra

E’ uno di quei libri che fanno stare male, ma essenziali per capire i nostri sventurati tempi: la copertina bianca è squarciata da un fiotto rosso, e il titolo non lascia scampo: Stupri di guerra.

L’autrice, la trentunenne Karima Guenivet, è figlia di un algerino e di una francese, e appena venticinquenne ha assunto a Sarajevo la direzione di un centro socio – educativo per bambini rifugiati.

L’intento del libro è chiarissimo: dimostrare come le violenze sessuali siano un’arma che costituisce un crimine contro l’umanità ma al tempo stesso uno strumento di offesa specifico, diretto da un genere verso un altro.

Per molto tempo, troppo tempo, le violenze sessuali sono state oggetto di quella tolleranza riservata alle fatalità – scrive Guenivet -. All’uscita del libro alcuni giornalisti mi hanno ripetuto lo stesso discorso. Un discorso che ignora i fatti e considera tale crimine una banalità, un non evento”.

Bosnia, Ruanda, Algeria: questi gli scenari nei quali si addentra la documentata esegesi del fenomeno dello stupro di guerra.

Tra le 20 e le 30 mila violenze sessuali in Bosnia, dal 1991 al 1992, stupri che l’autrice definisce al servizio dell’epurazione etnica; la definizione è confermata anche dalla Commissione d’inchiesta dell’Onu, che nelle sue conclusioni afferma che questi crimini non sono da considerarsi né occasionali né isolati o commessi da gruppi disorganizzati.

Sono stati documentati, grazie alle coraggiose testimonianze di donne vittime, stupri di gruppo usati come tecnica ‘regolare’ durante gli interrogatori, e veri e propri ‘campi – stupro’, nei quali le donne venivano tenute segregate, se incinte a seguito della violenza, fino al termine ultimo per abortire, assicurandosi quindi che non avrebbero potuto fare altro che partorire un ‘piccolo cetnico’.

In Ruanda, dove la violenza è stata collaudata al servizio del genocidio, in tre mesi, da aprile a giugno del 1994, nel paese furono massacrati circa un milione di donne e bambini prevalentemente di etnia Tutsi.

Due dati poco conosciuti ed entrambi terrificanti di questo particolare contesto: negli stupri in Ruanda le donne dell’altra etnia, la Hutu, furono in molti momenti parte attiva delle violenze, come nel caso della parlamentare Bernadette Mukarurangwa che assieme ad altri esponenti politici incitò con vigore alla distruzione delle donne della parte avversa.

Non è finita: fra le atrocità provocate dal disconoscimento e dalla volontà di cancellazione dell’altra c’è, nel caso ruandese, la pratica dell’uccisione e dello sventramento delle donne incinte.

In quanto ‘ospita’ il soldato nemico- spiega l’autrice – la donna diviene l’oggetto di femminicidio, confermando la regola secondo la quale lo spirito saggio può concludere logicamente che il modo migliore per risparmiare le proprie energie, in tempo di guerra, è garantire che non rimarrà più alcun nemico da fronteggiare.”

Per finire l’Algeria, dove lo stupro è stato messo al servizio della jiad: stime per difetto effettuate dal Ministero della Sanità del paese parlano di oltre 2000 donne violentate dai terroristi miliziani, che hanno scelto le loro vittime spesso tra donne che rifiutavano il velo o semplicemente erano responsabili di essere parenti di uomini non islamisti.

Dei tre paesi in questione l’Algeria è l’unico nel quale il governo stia prendendo in considerazione la possibilità di indennizzo delle vittime, o delle famiglie, nel caso di morte della violentata.

Risuonano, nel silenzio sgomento che lasciano queste pagine, le parole di Simone de Beauvoir, che denunciava: “La superiorità è stata concessa al popolo che uccide, e non a quello che procrea”.

 

 

Il fascino della divisa

 

C’è bisogno anche di capire in che contesto nasce il consenso, silenzioso o palese, a questa pratica bellica.

Non c’è dubbio che la crescente militarizzazione delle società e delle comunità, e l’affermarsi o il riaffermarsi del potere patriarcale sia direttamente, con l’adozione di pratiche belliche, sia indirettamente nella crescita di una cultura della sopraffazione sono fortemente responsabili della barbarie collettiva che porta allo stupro come arma.

La storia ci dice che lo stupro usato come arma bellica è anche la conseguenza della crescente affermazione di una cultura violenta che si costruisce nelle società sedimentando l’accettazione della violenza contro le donne in ogni sua forma e in ogni livello delle relazioni, aumentando il consenso verso la guerra come strumento possibile da usare da parte degli stati.

E non stiamo parlando solo di società preindustriali o dei paesi in difficoltà economica.

Alla vigilia delle feste natalizie del 2004 un maestro elementare di Parigi è stato licenziato in tronco perché la sua scolaresca ha cantato davanti a Chirac, nel saggio di fine anno, Il disertore, una notissima canzone di Boris Vian degli anni ‘60 ripresa in Italia dalla Vanoni; nel colpevole testo, un distillato poetico di nonviolenza, il vibrante invito ai giovani chiamati alla leva militare è “di non partire più, e di non obbedire, per andare a morire per non importa chi”.

Perché morire, perché uccidere, quando vivere al meglio, per sé e gli altri esseri, dovrebbe costituire il più ovvio appello da tramandare, comandamento universale per laici e credenti a conservare il bene

più prezioso? La terza via, vivere appunto, ripresa da Christa Wolf in Cassandra, è diventato vessillo, tra le altre, delle Donne in nero, che del rifiuto della guerra e della violenza hanno fatto una scelta politica di fondo che tanto imbarazza e stride con le pratiche omosuicide delle opposte fazioni in Medio oriente, dove le Din sono nate anni fa.

Ma altre donne, troppe, non guardano a questa terza via; molte di queste la vita la mettono al mondo fisicamente, ma ciò non è (mai stato) sufficiente, nella sua meccanica naturalità, per introiettare il messaggio profondo che il travaglio potrebbe consegnare, se elaborato e trasformato: nessun motivo, mai, è valido per uccidere, o abbracciare strade che hanno come corollario la guerra e la violenza.

Il demone amante, la violenza in ogni sua forma, come sapientemente ne parla Robin Morgan, continua a sedurre le donne, dal mito delle amazzoni alle donne – bomba, dalla Pulzella d’Orleans alle eroine- cyborg del web e dei cartoni, armate fino ai denti tra giarrettiere e divise sexi.

Un eloquente esempio è il sito nel quale l’Anados (Associazione Nazionale Aspiranti Donne Soldato) spiega l’aspirazione all’entrata nelle forze armate e specifica: “Il tempo che noi mettiamo a disposizione

dell’Associazione non ha compensi e la soddisfazione più grande sarà quella di vederci indossare tutte la stessa uniforme in relazione alla Forza Armata prescelta”.

Come obiettare ad un desiderio (femminile) così disinteressato? Sempre in Italia, con intenti storici, ecco le donne appartenenti ai ‘difensori della rocca’, che al relativo sito si preoccupano di rassicurare chi naviga rispondendo con un bel sì alla domanda: ma esistevano donne combattenti nel medioevo?.

Seguono nomi e immagini eloquenti di forzute dal 1000 al 1500. Così come impressionante è la vocazione tutta militaresca che promana dal sito di donne israeliane www.womeningreen.org ‘organizzazione di madri, nonne e figlie, laiche e religiose’, come recita la home page, dedite alla sicurezza della tradizione giudaica con la divisa militare e il cappello verde d’ordinanza. Emancipazione e fucile sono il binomio proposto da alcuni siti cinesi che esaltano la presenza delle donne nell’esercito di liberazione maoista nel quale non emerge alcun dubbio: dal momento che l’esercito popolare (maoista) contro l’oppressione latifondista feudale ha consentito la creazione di squadre militari di sole donne possiamo stare certe che la rivoluzione ha fatto il suo dovere, che il mito virile della preminenza dell’armatura, della corazza, della durezza (ridicolmente celodurista) ha finalmente esteso il suo fascino anche al sesso debole. Con il doveroso corollario che nella guerra moderna, oltre alla legittimazione a sparare e morire, è protagonista a pieno titolo il ritrovato stupro in qualità di arma convenzionale.

Per macabra ironia, da destra a sinistra, tutte queste donne e i loro alti ideali militaristi condannano la violenza, salvo aggiungere poi ‘che in determinati casi è però legittimo usarla’, autorizzandone gli effetti su se stesse e altre donne, oltre che sugli uomini e i minori. Nessuno mi toglie dalla testa che tutto parta da lì, dalle relazioni tra i generi, dal modo di concepirsi maschi e femmine e guardare all’altra/o da sé. Se è lì che si indaga, e si modifica radicalmente sguardo e comportamento, forse si può trovare una via per fermare l’osceno e scandaloso consenso allo stupro, alla guerra, al terrorismo e alle loro divise, di stoffa e della mente.

 

 

Redazione
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3 commenti

  • La mia impressione è che decenni dopo l’attivismo femminista – il cui benefico influsso pareva avesse più o meno pervaso la società – è accaduto che una consistente parte di donne apparentemente liberate, sia stata plagiata dalla sub-cultura maschile/maschilista, acquisendone gli aspetti più deteriori e reazionari definendoli “emancipazione”. L’equivoco è tutto lì, a mio avviso.
    La propaganda del militarismo, la filosofia armata del capitalismo, ha così ottenuto due risultati: neutralizzare le avanguardie realmente rivoluzionare e culturalmente sovversive del fecondo movimento femminile di sinistra ed ampliare il proprio bacino di soldati professionali per le guerre dichiarate per il profitto delle multinazionali.
    Se mi si concede il paragone solo apparentemente azzardato, non c’è alcuna differenza tra una donna soldato ed un operaio che vota Berlusconi: sono entrambi vittima della propaganda.

  • “La superiorità è stata concessa al popolo che uccide, e non a quello che procrea” e purtroppo ancora oggi questo popolo esiste e ancora non ha sembianza completamente riconoscibile, nè sesso certo.

    La nebbia, a volte, copre movimenti che devono spaventarci proprio nel non poterne mettere a fuoco di quali profili si stia parlando.

    Grazie, Monica.
    clelia

    p.s. Ringraziamo chi considera questo “un discorso che ignora i fatti e considera tale crimine una banalità, un non evento”

  • tante domande senza risposta
    il perché della violenza e della prevaricazione, da dove ha origine?
    come madre sento profondamente la distonia tra il mettere al mondo i figli e permettere che vengano mandati a morire.
    sapere che lo spirito bellico è stato artatamente inculcato nei secoli, come eroismo, nei popoli e negli uomini che dovevano immolarsi per il governante di turno, mi sembra talmente assurdo, e talmente incredibile che nulla sia cambiato!
    che le donne poi vogliano essere parte attiva nei conflitti, mi pare addirittura immorale.
    L’analisi di Gino è molto convincente e la condivido.

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