Centroamerica: movimenti e “processi di pace”

Le guerre che hanno devastato Guatemala, El Salvador e Colombia negli ultimi quarant’anni non potevano continuare, le violenze e i massacri dovevano finire. Raúl Zibechi in questo articolo ragiona su come i “processi di pace” hanno influenzato i movimenti popolari. Di certo hanno vinto l’estrattivismo e l’ossessione delle urne.

di Raúl Zibechi (*)

In America Latina abbiamo una vasta esperienza nei processi di pace, che abbraccia non meno di tre decenni. Mi riferisco ai negoziati tra i guerriglieri di El Salvador Guatemala con i rispettivi governi, e più recentemente le FARC colombiane. Mi interessa, in particolare, riflettere molto brevemente su come questi processi abbiano influenzato i movimenti popolari.

Gli Accordi di Chapultepec furono firmati nel gennaio 1992 tra il Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí (FMLN) e il governo salvadoregno, per porre fine a una guerra che costò la vita a 75.000 persone, la stragrande maggioranza delle quali erano contadini. Furono create alcune istituzioni, come l’Ufficio del Procuratore Generale per la Difesa dei Diritti Umani, il Tribunale Elettorale Supremo e la Polizia Civile Nazionale, dove furono inseriti guerriglieri e paramilitari smobilitati.

Alcune terre furono distribuite alle famiglie contadine, ma l’oligarchia dei proprietari terrieri non viveva più nelle loro fattorie perché era fuggita durante la guerra. Sebbene la democratizzazione del Paese fosse stata concordata, dopo tre decenni abbiamo constatato che non ci sono stati progressi ma solo insuccessi che hanno permesso a un personaggio come Nayib Bukele di arrivare al governo, in una società temuta dalla violenza criminale.

La cosa più importante, però, è che il movimento popolare più potente della regione è crollato, durante e dopo il decennio di guerra. Sebbene il conflitto armato abbia distrutto le principali organizzazioni contadine e studentesche, sia a causa della brutale repressione sia a causa della politica delle avanguardie armate di reclutare i propri quadri per unirsi alla guerriglia, alla fine del conflitto c’erano possibilità di ricostruire i movimenti.

Ho potuto constatare, in alcuni dipartimenti di El Salvador, che le famiglie che ritornavano nei paesi che avevano dovuto abbandonare a causa del terrore militare (i “ripopolamenti”), cominciavano a ricreare quelle comunità di resistenza e di lotta, attraverso il lavoro collettivo e le imprese comunitarie. Ma i vertici delle “avanguardie” hanno voltato loro le spalle, si sono lanciati nella politica elettorale e non hanno più contattato le loro basi, se non per chiedere loro di votare.

Gli Accordi di pace del Guatemala furono firmati nel dicembre 1996, tra il governo e l’Unione Rivoluzionaria Nazionale Guatemalteca (URNG), ponendo fine a un conflitto che per 36 anni causò la morte di oltre 200mila guatemaltechi, quasi tutti indigeni. Si trattava di accordi meno ambiziosi di quelli salvadoregni, uno dei più importanti era la proposta per il reinsediamento delle popolazioni sradicate dalla violenza militare della “terra bruciata”.

In Guatemala, il movimento popolare ha impiegato molto tempo per riattivarsi e le popolazioni di origine Maya ricordano ancora oggi con dolore la catastrofe causata dai ripetuti massacri delle loro popolazioni. I guerriglieri organizzarono un’ondata di insurrezioni da parte dei popoli nativi e, quando la repressione si intensificò, si ritirarono, lasciando le comunità indifese contro la brutalità militare.

Entrambe le guerre finirono come erano iniziate: per decisione delle “avanguardie”, senza consultare il popolo.

In Colombia, nel 2016 è stato firmato un accordo tra il governo e le FARC che ha consentito l’inserimento dei suoi quadri e combattenti nella vita politica formale. Ma la violenza non si è fermata un secondo, poiché i paramilitari e i narcotrafficanti (a cui si sono aggiunti i guerriglieri dissidenti) hanno continuato a fare la guerra alle comunità, in particolare agli indigeni del Cauca. Solo la Guardia Indigena cerca di fermare la violenza dei paramilitari statali.

Nei tre casi citati notiamo, in maniera molto sintetica, alcune problematiche comuni.

Il primo è che le oligarchie restano al timone, i privilegi sono mantenuti e le disuguaglianze crescono. Nel frattempo, i settori popolari sono poveri ed esclusi come lo erano prima della guerra.

La seconda è che con la pace ha vinto l’estrattivismo, in particolare le multinazionali minerarie, e quindi il capitalismo si è rafforzato.

In terzo luogo, le società vengono dilaniate dalla concomitanza di criminalità organizzata, paramilitarismo ed espropriazione, con la complicità di Stati che non possono o non vogliono fare nulla per impedirlo.

In quarto luogo, i movimenti sono stati indeboliti, sia dalla guerra che dalle conseguenze dei processi di pace che hanno istituzionalizzato i conflitti.

È vero che le guerre non potevano continuare, che le violenze e i massacri dovevano finire. Ma il modo in cui hanno agito i guerriglieri sembra una resa. In brevissimo tempo siamo passati dal mettere tutte le nostre energie nella violenza al metterla nelle urne. C’erano e ci sono altre opzioni.

Quanto accaduto in questi tre paesi contrasta con la politica dell’EZLN, che non si è mai arreso, non ha consegnato le armi, continua a resistere e a costruire un mondo nuovo. È semplicemente una questione di etica. Né più né meno.

(*) Pubblicato su La Jornada e su https://comune-info.net/ con l’autorizzazione dell’autore.

Immagine e testo tradotto in italiano da: https://comune-info.net/movimenti-popolari-e-processi-di-pace

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *