Nanni Salio vive

   Recensione di Laura Tussi a «Giornalismo di pace» (Edizioni Gruppo Abele) un progetto collettivo con i contributi di Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Johan Galtung, Jake Lynch, Dov Shinar, Elissa J. Tivona

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Il progetto collettivo «Giornalismo di pace» è un libro postumo di Giovanni Salio, detto Nanni – recentemente scomparso – fra l’altro presidente del Centro Studi Sereno Regis di Torino, di cui è stato fondatore nel 1982.

Fra i massimi esponenti italiani del Movimento Nonviolento, e autore di numerosi scritti e saggi sulla nonviolenza, Salio ha rappresentato e rappresenta una pietra miliare dell’antimilitarismo, degli studi su Gandhi e degli approcci nonviolenti, teorici e pratici, nella gestione dei conflitti. Ha collaborato a lungo con Johan Galtung, di cui era grande estimatore, e con la Rete Transcend International.

Il libro presenta i contributi di vari studiosi e attivisti che si occupano di “Giornalismo di pace” fra cui Silvia De Michelis, Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Johan Galtung, Jake Lynch, Dov Shinar, Elissa J. Tivona, per analizzare i contesti di guerra, le situazioni di violenza nel mondo, in una prospettiva di pace, in un’ottica di trasformazione nonviolenta dei conflitti.

La guerra domina la scena dell’informazione per interesse, per scelta politica, per superficialità. Infatti i media vengono usati dalle nazioni come “armi di disinformazione di massa”. A questa prassi si oppone il modello attivo del «giornalismo di pace», elaborato soprattutto da Johan Galtung, che legge e descrive in profondità i conflitti, indagando le ragioni e le dinamiche primarie, ricercando gli obiettivi reali delle parti in causa, le loro contraddizioni e le vie possibili per superarle, evitando le semplificazioni di chi racconta le guerre e le violenze come fenomeni normali e inevitabili.

L’intento di questo importante progetto editoriale non consiste nel minimizzare e nascondere gli aspetti più evidenti e drammatici delle guerre ma di contribuire, fornendo una ricca documentazione teorica e interessanti casi di studio, tramite una informazione corretta, alla trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Dopo una panoramica internazionale delle azioni giornalistiche nei vari scenari di guerra, si procede a identificare le modalità del «Giornalismo di pace» e lo stato dell’arte, fino a esporre i racconti femminili come modello giornalistico e di informazione coerente e corretta, in un’ottica di «globalizzazione della compassione», per raccontare la violenza nel mondo attraverso un’informazione di pace applicata, documentando la guerra, ma anche e soprattutto al fine di visualizzare la pace, ossia i contesti e le realtà positive che “potenziano” situazioni creative e di armonia tra le parti. Il ruolo della «pace positiva» è proprio quello di aumentare il ben-essere degli umani e dell’ambiente naturale, dell’ecosistema, oltre la semplice soddisfazione dei bisogni. Secondo Galtung, il punto di vista di un ricercatore e di un giornalista per la pace consta appunto nel rafforzare la realtà positiva e indebolire le fonti di violenza. La pace si crea attraverso l’equità nella cooperazione; l’armonia tramite l’empatia per comprendere gli obiettivi legittimi delle parti; la conciliazione per superare i traumi e per ridurre la rivincita e la vendetta; la soluzione dei conflitti per ridurre la volontà di aggressione. Infatti, come sostiene Nanni Salio nel libro: «La commissione “Verità e riconciliazione” promossa in Sudafrica da Tutu e Mandela è un formidabile esempio positivo che dovrà essere seguito e perfezionato in tutti quei casi, dal Rwanda ai Balcani alla Palestina all’Irlanda ai Paesi Baschi e così via, in cui la violenza ha provocato odi laceranti, sete di vendetta, incapacità di convivere».

Il mondo intero, nella congiuntura attuale, è ostaggio della politica estera degli Stati Uniti. A ogni azione corrisponde una reazione, una controforza.

Il terrorismo degli Stati, esercitato dall’alto, con bombardieri e droni, genera come risposta il terrorismo dal basso, di coloro che si ribellano e colpiscono spesso indiscriminatamente civili, come peraltro fa il terrorismo di Stato, che si limita a chiamare questi deplorevoli eventi «effetti collaterali».

«A differenza di altri tipi di intervento, la nonviolenza si propone di liberare sia gli oppressori sia gli oppressi sia le vittime sia i perpetratori dalle catene disumanizzanti della violenza». E’ dunque necessario applicare il modello del «Giornalismo di pace» che distingue tra conflitto e guerra. «Nel linguaggio abitualmente usato dai media, il conflitto è considerato sinonimo di guerra e questa ambiguità semantica contribuisce a creare confusione, frustrazione e senso di impotenza». Infatti la guerra non è sinonimo di conflitto, ma l’esito più drammatico di una conflittualità irrisolta.

Il «Giornalismo di pace» si basa su tre passi fondamentali: mappare tutti gli attori in causa nel contesto conflittuale; individuare i loro obiettivi legittimi, quelli che non violano i bisogni e i diritti umani fondamentali; infine, elaborare soluzioni concrete, costruttive e creative per soddisfare gli obiettivi legittimi di tutte le parti.

Esempi di questo tipo di giornalismo si trovano negli editoriali di Galtung. Una approssimazione a questo tipo di azione pro-attiva, di informazione positiva e di attivismo nonviolento è il giornalismo di inchiesta di autori come Robert Fisk, John Pilger, Pepe Escobar, Marinella Correggia, i cui articoli sono spesso disponibili in rete anche in italiano.

 

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