Narrator in Fabula – 21

dove Vincent Spasaro incontra Massimo Maugeri (*)

MassimoMaugeri

Chi s’interessa di letteratura conoscerà quasi sicuramente il programma/rivista «Letteratitudine». Oggi siamo qui per intervistare il suo creatore, Massimo Maugeri, che ha avuto modo di conversare nell’arco di dieci anni con tantissimi autori e autrici italiani e stranieri.

Massimo è anche un fine scrittore e sta avendo un ottimo successo con il suo ultimo romanzo «Trinacria Park» (Est/Ovest). E ha risposto con entusiasmo a una pioggia di domande.

Vuoi parlarci del tuo avvicinamento al mondo delle lettere?

«Come per la maggior parte di noi, amanti della lettura, il mio percorso di avvicinamento alla parola scritta ha origini piuttosto antiche. Per quanto possa suonare banale, faccio parte della cerchia di coloro che hanno iniziato a leggere libri già alle scuole elementari, alternando la lettura di romanzi per ragazzi a quella dei fumetti. Fra i primi libri letti, l’immancabile “Cuore” di De Amicis e il sempreverde “Pinocchio” di Collodi. Tra i romanzi letti nei primissimi anni ricordo con nostalgia particolare “Oliver Twist” di Dickens e “Le avventure di Huckleberry Finn” di Twain».

Hai seguito un percorso tracciato dalla scuola o da qualche professore carismatico? Ti ci sei accostato da solo? Ti ha aiutato la famiglia?

«Direi che tutte le fattispecie che hai delineato hanno, in un modo o nell’altro, contribuito alla mia formazione di lettore. Grazie a una professoressa illuminata, per esempio, già alla scuola media inferiore ebbi modo di scoprire Leonardo Sciascia, attraverso “Il giorno della civetta” (ricordo un’edizione speciale della Einaudi indirizzata, per l’appunto, alle scuole che dovrei ancora avere conservata da qualche parte); per associazione di idee legate a quel periodo mi viene in mente anche un vecchio romanzo di Carlo Castellaneta intitolato “Professione poliziotto”, oggi fuori catalogo, credo; anche questo letto alle scuole medie su proposta della stessa docente; un libro che mi rimase piuttosto impresso.

Da ragazzino, grazie alla biblioteca di mio padre, scoprii per esempio, Alberto Moravia (mi piace citarlo perché il 26 settembre 2015 c’è stata la ricorrenza del venticinquesimo anno dalla morte di questo grande autore). Il primo libro di Moravia che lessi fu una raccolta di racconti che Bompiani pubblicò nel 1963: “L’automa”. Rimasi molto colpito, in particolare, dal racconto intitolato “La camera e la strada”. Provo a sintetizzarne la trama. C’è quest’uomo che si sveglia da un incubo. Si alza, esce, va al lavoro. Una giornata come un’altra. Finito il lavoro torna a casa con l’autobus. Si distrae e dimentica di scendere alla sua fermata. Una volta in strada si ritrova in una zona del quartiere che non gli è familiare. Cammina e incontra una donna. Bionda. La vede di spalle. Lei lo attrae e lui le va dietro. Comincia uno strano pedinamento. Il protagonista segue la donna fin dentro l’androne di uno stabile. Lei sale per le scale e lui sempre dietro. Poi la donna si volta e solo in quel momento l’uomo riconosce la moglie. E il palazzo dove abita. Sua moglie era bruna. Ed è appena tornata dal parrucchiere: nuova acconciatura e capelli biondi. Pensai: basta poco, a noi automi, per farci perdere il senso dell’orientamento e forse anche il senso dell’esistenza.

Quel racconto mi folgorò. Da lì iniziai a leggere Moravia. La lettura è sempre un’esperienza personale. Una combinazione di parole che può creare un effetto magico. Per ciascuno di noi. In quel particolare momento della nostra vita».

Raccontaci qualcosa della tua crescita a Catania. Infanzia, adolescenza, università.

«Credo che la mia sia stata una crescita abbastanza normale, per non dire ordinaria. Quella di un qualunque ragazzo nato alla fine degli anni Sessanta in una città del Sud abbastanza grande come può essere Catania. L’unica cosa che forse può aver senso aggiungere, anche a integrazione della risposta precedente, riguarda la mia “formazione” e il fatto che sono un autodidatta per natura. Mentre portavo avanti studi tecnici, poi sfociati nella laurea in economia, la mia formazione letteraria proseguiva affondando nella lettura dei grandi romanzi della tradizione: da Cervantes a Dostoevskij, da Tolstoj a Balzac, da Kafka e Steinbeck (giusto per citare qualche nome). Leggevo le loro opere ed ero molto incuriosito dalle loro biografie.

In alcuni casi le scoperte avvenivano per caso. Racconto un aneddoto divertente. Non so quanti ragazzi di sedici anni, o giù di lì, abbiano avuto modo di leggere “I demoni” di Dostoevskij. A me accadde per puro caso. Mi trovavo davanti a una bancarella di libri e c’era questo volume incellofanato, rilegato e con copertina rigida. Non c’erano molte indicazioni. Sulla quarta di copertina nulla. In ogni caso rimasi colpito dal titolo. In quel periodo divoravo letteratura gotica a iosa: Stoker, Poe, Mary Shelley, Lovecratft; ma anche autori moderni, come Stephen King e Peter Straub. Pensai che un libro intitolato “I demoni” non potesse che essere un romanzo horror. E in effetti, a ben pensarci, è possibile ravvisare elementi “orrorifici”, sebbene di altro genere, anche in quel grande romanzo di Dostoevskij.

Riprendendo il discorso, non rinnego i miei studi economici. Anzi, senza quel tipo di formazione probabilmente non avrei potuto scrivere romanzi come “Identità distorte” e “Trinacria Park”».

Parlaci dei tuoi inizi nel magico ma bistrattato mondo della scrittura. Com’è scoccata la scintilla e come s’è ingrandita fino a renderti scrittore a tutto tondo?

«Lettura e scrittura sono cresciute insieme. È avvenuto tutto in modo piuttosto naturale. Amo scrivere, perché amo leggere. A mio avviso è impossibile essere scrittori senza essere lettori forti. Si può essere narratori “a prescindere” quando si ha il dono naturale di riuscire a raccontare (dono che, comunque, un buon scrittore deve possedere); in fondo la narrazione è un’attività che nasce in forma orale… ma essere scrittori richiede una preparazione di base che si fonda sull’attività di lettore. Ritengo che le due cose siano imprescindibili. Del resto, sono sulla stessa linea di quegli scrittori – e mi riferisco a scrittori molto più affermati di me – che sostengono che se fossero costretti a scegliere fra il poter scrivere e il poter leggere opterebbero senza ombra di dubbio per la seconda possibilità.

Ho iniziato a scrivere da ragazzino. Avevo i miei quadernetti, con racconti scritti a penna. La maggior parte delle volte scrivevo storie del tutto inventati. In altri casi, ricopiavo racconti (o brani più o meno ampi) di autori che amavo. Poi ci lavoravo su: variandoli, sintetizzandoli o ampliandoli. Qualcosa del genere è capitato anche con il racconto di Moravia di cui parlavo prima. Credo sia stato un ottimo esercizio.

Poi, a partire dai quindici anni, ho cominciato a scrivere romanzi: alcuni conclusi, altri lasciati a metà. Sempre scritti a penna, riempiendo pile di quaderni. Si tratta, ovviamente, di roba insulsa che ho provveduto a eliminare».

Segui un’ispirazione naturale e tumultuosa oppure sei un narratore disciplinato alla King?

«Per me sarebbe impossibile avere la disciplina di King. In genere sono costretto a scrivere nei ritagli di tempo, dovendo occuparmi anche di altro. Però devo ammettere che se potessi avere a mia disposizione le intere giornate lavorative da dedicare alla scrittura, non so se riuscirei a tenere quei ritmi (sarà poi vero che King scrive ogni giorno della sua vita, tranne rare eccezioni?). Le mie storie necessitano di tempo. Nascono tra i pensieri e hanno bisogno di maturare, di lievitare dentro, prima di essere riversate sulla pagina. Però quando una storia raggiunge il giusto livello di maturazione, poi cerco – in un modo o nell’altro – di impormi una disciplina, di seguire un ritmo. La scrittura, per quanto estemporanea o irregolare, richiede comunque disciplina. Altrimenti non si va da nessuna parte e la narrazione si sbriciolerebbe nella griglia del tempo che passa».

Le prime esperienze con la pubblicazione: un impatto che alle volte metterebbe al tappeto un elefante. Attese, illusioni, disillusioni, felicità.

«In verità, anche in questo caso, per me è avvenuto tutto in maniera molto naturale. Una quindicina d’anni fa, o poco meno, cominciai a frequentare, a Catania, un gruppo letterario chiamato “Convergenze letterarie Sud-Est” che gravitava intorno alla casa editrice catanese Prova d’Autore e al suo direttore letterario, lo scrittore e poeta Mario Grasso. Cominciai a pubblicare i primi racconti sulla rivista “Lunarionuovo”, diretta da Grasso. E mi rivolsi a lui quando ultimai il mio primo romanzo, che – in effetti – vide la luce proprio con Prova d’Autore nel maggio 2005.

Primo romanzo: raccontaci la genesi di “Identità Distorte” e la sua vita letteraria.

«“Identità distorte” è nato da un’immagine. C’è questo tizio che entra nell’ascensore e, inspiegabilmente, ne esce nei panni di un’altra persona. Dalla visione di questa scena si è sviluppata una riflessione che è poi scaturita nell’intreccio narrativo del romanzo, la cui struttura – in effetti – è piuttosto complessa. In estrema sintesi posso dirti che la suddetta riflessione aveva a che fare con la crisi di identità della società occidentale. Crisi appesantita dai “fatti” dell’11 settembre. Il periodo storico che presi in considerazione per ambientare il romanzo fu quello che va dall’inizio del 2000 alla fine del 2001. Potremmo dire: dal crollo delle Borse e dei titoli tecnologici della cosiddetta “new economy” al crollo delle Torri gemelle. È una crisi che si percepisce molto forte nelle pagine del romanzo e nei pensieri dei personaggi. La scena del personaggio Claudio Crivi che entra in un ascensore e ne esce, dopo aver accusato un malore nel corso di un black out, nei panni di un giovane dipendente della sua ditta, Stefano Re, può anche essere vista come metafora della suddetta crisi d’identità. Ho ambientato la storia nella Catania dell’Etna valley, collegandola però a New York attraverso i fili invisibili dell’high-tech e della new economy.

Considerando che si trattava di un romanzo d’esordio pubblicato da un piccolo editore, la “vita letteraria” di questo libro è stata piuttosto soddisfacente. Vinse la sezione opera prima del Premio Martoglio e fu tra i romanzi finalisti del Premio Brancati. Inoltre ricevette un buon riscontro dalla critica, con recensioni positive su molti quotidiani nazionali e riviste. All’epoca mi fece particolarmente piacere il commento critico di Sergio Pent su “Tuttolibri” de La Stampa, che definì “Identità distorte” come “un romanzo tra i più estrosi e psicologicamente forti del genere noir”.

A proposito di generi letterari, un’altra cosa che mi colpì fu la difficoltà a “incasellare” il libro: alcune volte fu considerato come un giallo, altre volte un thriller, altre ancora un noir, poi un romanzo psicologico e via dicendo. In effetti, la commistione dei generi letterari, che è una delle caratteristiche di “Trinacria Park”, trovava già riscontro in “Identità distorte”».

Sei famoso come curatore della rivista virtuale e del programma “Letteratitudine”; com’è nata l’idea e come l’hai sviluppata?

«Come ho avuto modo di sottolineare in altre circostanze, “Letteratitudine” è nato quasi per caso, nel settembre 2006 (dunque, poco più di un anno dopo la pubblicazione del mio primo libro). Per questioni famigliari avevo difficoltà a spostarmi da casa e desideravo incrementare le occasioni di “incontro” letterario. Da qui l’idea di creare un blog (“open-blog”) che si ponesse come obiettivo creare una sorta di luogo d’incontro virtuale fra scrittori, lettori, editori, librai, critici e giornalisti culturali (in un “momento storico” in cui eravamo ancora lontani dall’esplosione dei social network). Il blog, creato sulla piattaforma Kataweb, è stato inserito dopo pochi mesi tra i blog d’autore del Gruppo L’Espresso. Nel corso degli anni, con la collaborazione di qualche amico scrittore, e con l’indispensabile supporto di tanti appassionati di libri e letteratura, abbiamo affrontato vari dibattiti online e presentato libri con la partecipazione attiva degli autori. Negli anni più recenti è cresciuta la partecipazione di scrittori stranieri di calibro internazionale. Ho avuto il piacere di ospitare, fra gli altri, interventi di autori del calibro di Amos Oz e Pierre Lemaitre.

Per quanto riguarda l’omonima trasmissione radiofonica, l’idea è venuta al direttore di Radio Hinterland (radio indipendente della provincia di Milano) che mi ha proposto di curare e condurre un programma di libri e letteratura. Inizialmente ero molto perplesso e pensavo di rifiutare. Lui però ha insistito ed è riuscito a convincermi. Eravamo intorno alla fine del 2009. La trasmissione (“Letteratitudine in Fm”) è in onda da allora e ancora oggi continua a procedere a gonfie vele».

Quali sono i generi letterari che più ami oggi? Puoi farci qualche nome di narratore che ti ha colpito?

Nasco come lettore onnivoro e continuo a rimanere tale. Di conseguenza leggo di tutto. O meglio, cerco di leggere tutto ciò che, a mio avviso, meriterebbe. E qui potrei sottolineare un rammarico. Mi piacerebbe trovare il tempo per le ri-letture. Molti dei grandi classici li ho letti in età giovanile. E so per certo che la rilettura sarebbe un’esperienza di ri-scoperta che a volte non ha eguali. Lo so perché ho avuto modo di sperimentarla.

Ti cito cinque dei miei autori preferiti, due italiani e tre americani… ma ce ne sono molti (moltissimi) altri. Fra gli italiani: Pirandello e Calvino. Fra gli americani: Don DeLillo, Philip Roth e Stephen King. E voglio citare anche Amos Oz e il grandissimo Orhan Pamuk. E comunque, ripeto, ce ne sono tantissimi altri».

Qualche aneddoto sugli scrittori da te intervistati?

«La prima volta che intervistai Melania Mazzucco rimediai una figuraccia. Il registratore digitale si guastò e dovemmo rifare tutto da capo. Per fortuna Melania è una persona eccezionale e anziché manifestare fastidio, mi incoraggiò a proseguire. Fra gli autori internazionali, voglio ri-citare Amos Oz: mi ha particolarmente colpito per la sua disponibilità e la sua gentilezza; un gran signore, oltre che un grandissimo scrittore».

Cos’è accaduto nella tua carriera di scrittore fra “Identità Distorte” e “Trinacria Park”?

«Ho pubblicato tanti altri libri. Nel 2008, per i tipi della casa editrice romana Azimut, è uscito il primo libro tratto dalle attività letterarie del mio blog: “Letteratitudine, il libro – vol. I – 2006-2008”. Nel 2009, sempre per Azimut, ho curato una raccolta di racconti dedicata a Roma e alle sue strade (“Roma per le strade” è appunto il titolo) partecipando con un mio racconto e coinvolgendo nel progetto molti fra i principali scrittori nati o residenti a Roma. Nel 2010, con l’amica scrittrice Simona Lo Iacono ha pubblicato “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (edito da Sampognaro & Pupi): un racconto lungo a quattro mani, nonché una bellissima esperienza di condivisione letteraria, soprattutto a livello di scrittura. Nel 2011 sono usciti due libri: il saggio/reportage “L’e-book è (è?) il futuro del libro” (Historica) con riflessioni sul futuro del libro e sul confronto tra e-book e cartaceo, raccogliendo anche “opinioni emotive” fra vari addetti ai lavori; e la raccolta “Viaggio all’alba del millennio” (Perdisa Pop), un insieme di racconti intrecciati volti a esaminare alcune delle contraddizioni e dei rischi che accompagnano, a mio avviso, la nascita del nuovo millennio. Nel 2012, per Historica, è uscito il secondo volume tratto dalle attività del blog: “Letteratitudine, il libro – vol. 2”.

Il romanzo “Trinacria Park” esce nel 2013, per le edizioni E/O, all’interno della collezione Sabot/Age diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto.

Nel frattempo, con miei racconti, ho partecipato a diverse antologie di autori vari. A partire da novembre 2014 è andata in scena la pièce teatrale tratta da un mio racconto intitolato “Ratpus” per la regia e l’adattamento dell’ottimo Manuel Giliberti e con l’interpretazione della bravissima Carmelinda Gentile (nota al grande pubblico per aver interpretato il personaggio Beba della serie televisiva del commissario Montalbano)».

Veniamo a “Trinacria Park”. Puoi parlarci della sua genesi? Ispirazione, temi, numi tutelari a livello di scrittura eccetera.

«Avevo voglia di scrivere una storia visionaria che fosse capace di raccontare la nostra contemporaneità in maniera ancora più efficace di quanto possibile con un romanzo “neo-neorealista”. Volevo narrare una storia che raccontando la mia Sicilia come “metafora del mondo” (per dirla con Sciascia) finisse con il parlare a tutti. Avevo in mente l’idea della realizzazione di un mega parco tematico e, al tempo stesso, l’immagine di una sorta di “isola inesistente” che rappresentasse la Sicilia tutta. A quel punto le due “visioni” si sono unite e nella mia mente ha cominciato a germogliare la trama del romanzo, che aveva al suo centro la realizzazione di questo enorme parco tematico… così grande da ricoprire, in pratica, l’intera isola. L’intento doveva essere quello del riscatto del territorio (devastato dall’inquinamento derivante dalla costruzione di poli industriali e dall’edilizia selvaggia) attraverso una riconversione turistica… ma sapevo già che quel progetto nascondeva bel altro».

Si tratta di un romanzo dichiaratamente mainstream pur con caratteristiche di genere, molto moderno nello stile e nella sceneggiatura: quasi americano. Inoltre mi sembra che una volta tanto la denuncia sociale per la situazione siciliana sia sublimata più che urlata. Insomma, pochissimi cliché, a partire dall’idea di una Sicilia bis, sorta di luna park onirico.

«È proprio così. Questo romanzo conteneva diverse sfide. Due su tutte. La prima aveva a che fare con l’intento di raccontare le problematiche della nostra contemporaneità raccontando una storia che penetrasse sotto la pelle del lettore utilizzando un approccio visionario. Operazione molto rischiosa. Però ero convinto che, proprio per via del fatto che siamo continuamente bombardati da notizie provenienti da ogni versante mediatico, proprio perché siamo immersi nel reale fino al midollo, il racconto di una storia forte con un approccio visionario avesse maggiori possibilità di raccontare – paradossalmente – il nostro tempo in maniera ancora più reale del reale. Un’altra sfida consisteva nell’adoperare registri linguistici e approcci letterari diversi (una sorta di “sperimentalismo” presente anche in altre mie opere). Tenuto conto delle ottime recensioni ricevute da parte della critica, e del riscontro positivo del pubblico dei lettori, ritengo che entrambe le sfide siano state vinte».

Parlaci dei personaggi che, nella loro varietà, sono il fulcro del romanzo. Cosa li ha ispirati e come hai deciso di incrociare il tutto in maniera così originale?

«Un’altra caratteristica di “Trinacria Park” riguarda proprio la coralità dell’opera. Ci sono tantissimi personaggi che si muovono all’interno della storia, ognuno con un ruolo ben definito. C’è Monica Green, la direttrice del parco: una produttrice cinematografica italo-americana (figlia di un famoso produttore di Hollywood e di un’attrice italiana nota a livello internazionale). C’è Gregorio Monti, attore di teatro siciliano molto particolare (ama la Sicilia ma odia i suoi conterranei) che è diventato celebre persino a Broadway e adesso viene chiamato a svolgere il ruolo di direttore artistico del parco. C’è Manuel Vetri, un attore balbuziente (che però smette di tartagliare appena si accendono le luci delle telecamere) con una terribile storia famigliare alle spalle, che tenta riscatto attraverso l’ingaggio al Trinacria Park per recitare in alcune fiction – girate all’interno del parco – ispirate dai grandi film ambientati in Sicilia: da “Salvatore Giuliano” a “Il Gattopardo” (giusto per citarne un paio). C’è Marina Marconi, la giornalista che – tra le altre cose – ha il compito di condurre le trasmissioni televisive che vengono trasmesse in diretta satellitare dall’interno del parco. E tanti altri personaggi.

Poi, nella settimana di inaugurazione del Trinacria Park, in presenza di vip internazionali del mondo del cinema, dello sport, della politica e della televisione, accade qualcosa di terribile. L’isola di Montelava, che ospita la mega-struttura, diventa una sorta di isola trappola… dove nessuno può più entrare, né uscire. La storia vera e propria comincia qui. Una storia principale al cui interno si intrecciano le vicende dei singoli personaggi. Una storia di menzogne, dove nulla è come appare, che tocca problematiche attuali: il terrorismo internazionale a matrice islamista, la corruzione, la cattiva politica, l’esasperazione del marketing, il ruolo predominante dell’economia e della finanza, il fenomeno delle migrazioni, le differenze culturali, il ruolo della donna e l’uso del velo… e molto altro ancora. Su tutto aleggia il Mito delle tre Gorgoni (rese celebri per via del ritrovamento di antichi papiri in greco antico contenenti un poema a loro dedicato): Steno, la forte; Euriale, la spaziosa; Medusa, la distruttrice».

Qual è stata la vita del romanzo, uscito ormai da qualche tempo?

«Direi che è stata una vita molto soddisfacente. A distanza di tempo, il romanzo continua a riscuotere interesse e ancora ricevo inviti per presentarlo in festival ed eventi vari. Ha beneficiato di un ottimo successo sia dal punto di vista della critica, sia da quello dei lettori. Ha avuto ottimi riconoscimenti: per esempio, ha vinto il Premio Vittorini; è stato finalista al premio Minerva “Letteratura di impegno civile”; è stato selezionato dal “Premio dei Lettori” di Lucca; inoltre Panorama ha inserito “Trinacria Park nell’elenco dei 10 migliori romanzi italiani pubblicati nel 2013. Insomma: dal mio punto di vista il bilancio è più che positivo».

Cosa bolle nel pentolone? Un cambio di stile? Un romanzo noir? Altro?

«Sto lavorando su diversi fronti. Ho ultimato un romanzo breve e sto scrivendo un romanzo a largo respiro. Tra le altre cose, nel 2016 ricorrerà il decennale della nascita di “Letteratitudine” e… celebrerò la ricorrenza con la pubblicazione di un libro molto (ma molto) speciale. Poi mi frullano in testa idee per decine di romanzi. Tempo al tempo, caro Vincent. E grazie di cuore per l’intervista».

(*) In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» – 14 settimane – Vincent Spasaro ha intervistato per codesto blog/bottega autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. I nomi? Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. «Non finisce lì» aveva giurato Spasaro. Ed ecco il secondo ciclo: dopo Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri, Giulio Leoni, Michele Tetro e oggi Massimo Maugeri toccherà, fra 7 giorni a Stefano Di Marino. Poi, in disordine alfabetico, arriveranno Alberto Panicucci, Sergio Altieri, Sabina Guidotti, Francesco Troccoli, Silvio Sosio ma anche un paio di giovanissim* e un “mostro sacro” o magari due. Così mi sono seduto qui – e lo stesso spero per tutte/i voi – sulla riva del blog-bottega, sgranocchiando arachidi, per leggermi altre 14 puntate… almeno: anzi se fate bene i conti vedete che fra poco saremo oltre. D’altronde quando Vincent era piccolo ed era sull’uscio, sua mamma non gli diceva – come da copione – «sei qui intorno a giocare?» oppure «torni presto?» ma «vai oltre anche oggi?». Un destino da oltrista per la fortuna di chi legge queste bellissime interviste. (db)

 

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