Narrator in Fabula – 29

dove Vincent Spasaro incontra Luca Masali (*)

LucaMasali

E’ un nome notissimo ai cultori di fantascienza dagli anni novanta in poi. Luca Masali ha esordito con «I biplani di D’Annunzio», uno dei migliori romanzi pubblicati nel prestigioso Premio Urania, e da allora non si è più fermato, distinguendosi nel giallo come nella spy story. Potete seguire le sue pubblicazioni sul sito: http://www.masali.com

Ma ora è qui tutto per voi e nel corso della lettura scoprirete che, fra l’altro, è simpaticissimo e molto autoironico.

Qual è stato il tuo approccio alla lettura?

«Avevo una nonna che viveva sul lago di Como. Era una nonna affascinante, aveva girato l’Europa infischiandosene della guerra, aveva conosciuto mio nonno – all’epoca fascinoso aviatore scampato al macello della Grande Guerra – sul treno che la portava a Parigi, dov’era scappata di casa per fare la modista contro il volere dei genitori. Entrambi avevano in tasca solo i franchi per il treno, non sapevano dove avrebbero passato la prima notte parigina e mai si sarebbero immaginati di passarla insieme. Le piaceva la fantascienza, quella dura e pura, con le astronavi e i disintegratori. Non puoi passare indenne l’infanzia con una nonna così, ti pare? E aveva una splendida collezione di Urania, quelli di una volta, con le copertine di Karel Thole. Prima ancora di imparare a leggere, passavo ore a vedere i meravigliosi mostri di Karel che sembravano aver sbudellato la copertina aprendo un oblò rosso sangue che prometteva storie deliziosamente orribili. Mi faceva impressione soprattutto la copertina di “Psicospettro” (un romanzo di L. P. Davies non certo indimenticabile) tutto viola con il disintegratore in mano. Ho imparato a leggere da solo, ripetendomi nella mente i titoli di Urania».

Quando hai iniziato a scrivere?

«Ho sempre scritto, anche da bambino. Giocavo a scrivere con un cuginetto ricco che alla fine si era fatto regalare una macchina per scrivere. Mamma quanto gliela invidiavo! Devo dire che ero un bambino fortunato: il babbo è stato un famoso scienziato ma all’epoca faceva l’assistente straordinario all’università (oggi diremmo un precario) quindi non poteva permettersela. Spesso quando c’era festa a scuola mi portava con lui al lavoro. Un posto perfetto per scrivere storie era il museo di Antropologia, pieno di teschi, cervelli nei vasi, mummie: avevo una mummia per amica che si chiamava Mara, anche se poi ho scoperto che non era il suo nome: MARA significava semplicemente Museo Antichità della Regia Accademia. Ma per me era solo Mara. Una giovane morta di parto, sepolta con le ossicine del suo bimbo che i medici egizi non erano riusciti a salvare, abbracciati perché lei potesse confortarlo nel lungo viaggio verso la terra delle ombre. E lì c’erano un sacco di macchine per scrivere che potevo usare. La prima storia che ho scritto era la storia di Mara, che si risvegliava nel museo e piangeva perché voleva tornare a casa ma non poteva perché non trovava più il cuore del suo bambino, che era in un vasetto rotto».

Com’è nata la tua passione per la storia che traspare dai tuoi romanzi?

«Con una nonna simile, che mi raccontava le storie delle epiche battaglie navali tra finanzieri e contrabbandieri (manco a dirlo teneva per questi ultimi) sul lago di Como in tempesta, il nonno con le sue storie di guerra aerea, il babbo tra egiziani, pitecantropi e scheletri (il più bello era quello del custode del museo, e non ho mai avuto il coraggio di chiedergli come fosse finito lì) beh, avevo materiale immaginario di primissima qualità ma effettivamente un poco datato.

Nelle interviste che hai concesso per il Premio Urania hai raccontato aneddoti divertenti su una tua fantozziana avventura saggistica. Ce ne vuoi parlare?

«Uhm, soprassediamo. Diciamo solo che mi occupai di odontoiatria egizia e una mummia mi morsicò. Ma non era Mara, lei l’avrei perdonata».

Il premio Urania. Come hai deciso di partecipare? Era la tua prima prova con la fantascienza?

«Urania era nel mio DNA. Da bambino una volta giurai a me stesso che avrei scritto una storia bellissima con aerei e una nuvola a forma di teschio. E Karel Thole me l’avrebbe disegnata, per far paura a un altro bimbo. Ho quasi mantenuto la promessa fatta a me stesso bambino. Purtroppo Karel non disegnava più e non ho avuto una copertina fatta da lui, e pure senza nuvola a forma di teschio, mannaggia. È stato un dispiacere enorme, ma poi la nuvola a forma di teschio me l’ha fatta l’editore Sironi, e finalmente ho chiuso il cerchio».

Come hai accolto il successo de “I Biplani di D’Annunzio” (Premio Urania 1995), tradotto in più lingue?

«Divertente. La cosa più interessante è vedere come cambia la storia con sensibilità e culture diverse. Per esempio in Giappone la storia si chiama “I biplani sulla campana del tempo”, è un concetto shintoista talmente sofisticato che, per quanto abbiano provato a spiegarmelo, non c’ho capito niente. Il fatto che il titolo sia più intelligente di me un poco mi indispettisce, ma mi intriga. Magari un giorno mi avvicinerò alle discipline orientali solo per capire che vuol dire davvero quel titolo. Poi, beh, la copertina per l’edizione sudamericana de “La Perla alla Fine del Mondo” è così complicata che sembra un fumetto concentrato in una pagina sola, ho provato a proporre loro semplificazioni e mi hanno risposto di no schifati, mentre l’edizione giapponese è di eleganza struggente, minimalista come un iPhone e quella francese sembra un disegno di Dalì. Mettere in moto l’immaginario dei professionisti della comunicazione, sia pure per una copertina o un titolo, è un privilegio che mi onora. E i risultati sono, come dire?, profondi».

L’avventura de “I Biplani” è continuata in due romanzi successivi. Avevi programmato questo svolgimento o ti è stato richiesto dall’editore? E come vedi ora la trilogia?

«Mah, la storia era piaciuta e quindi volevo vedere come andava a finire, quindi ho scritto il seguito, “La perla alla fine del mondo”. Poi però non volevo rimanere fermo a Matteo Campini e al suo mondo, quindi ho messo subito in cantiere quello dove muore, anzi svanisce, sui ghiacci del Polo nel disastro del dirigibile Italia».

Sei associato alla fantascienza ucronica. Cosa ne pensi?

«Penso che sia la forma più pura di gioco applicato alla letteratura. Discende direttamente dai giochi dei bambini, quelli dove “Facciamo che io ero Zorro e tu Godzilla” e giù a inventare finché la storia non convince più e si cambia idea, facciamo che tu non mi prendevi e io scappavo” e via a creare una versione alternativa della storia. Io scrivo per giocare e gioco scrivendo. L’ucronia è particolarmente divertente, ma non è l’unico modo di giocare, per cui alla fine l’ho abbandonata insieme a Campini. “Facciamo che Masali non scrive più ucronia” e vediamo dove ci porta il gioco».

Cosa ti piace della fantascienza attuale?

«La conosco poco, mea culpa. Mi piace l’immaginario navale di Dario Tonani, mi hanno impressionato e influenzato i piani temporali di Valerio Evangelisti, ma purtroppo la fantascienza non la seguo più granché. Mi ha molto deluso il Marte di Andy Weir (quello del film “Il sopravvissuto”): una bella storia, ma un Marte talmente noisoso che il pianeta vero si è rivelato mille volte più sorprendente di quello narrativo. Uno scrittore che si fa prendere così in contropiede dalla realtà, che riesce a descrivere un Marte senza neanche una goccia d’acqua mentre su quello vero l’han trovata pochi mesi dopo, beh, vuol dire aridità immaginativa. Io a Mark Watney avrei fatto trovare almeno un fossile di marziano morto da un miliardo di anni. Ma probabilmente ha ragione lui, visto che vende molto più di me».

Quali sono i tuoi autori preferiti?

«Mi appello al quinto emendamento».

Sei passato successivamente al giallo e al romanzo storico. Puoi raccontarci questa svolta?

«Voglia di provare strade nuove, altri linguaggi narrativi, altri mondi immaginari. Per me scrivere è un gioco, non l’ho mai considerato nulla di più, ed è il mio grosso limite. Mi stufo presto e cambio strada: posso permettermelo, non avendo nessun obiettivo professionale da raggiungere».

Con “L’Inglesina in Soffitta” sei entrato nel mondo della spy story, anche se si tratta di una spy story sui generis. Ce ne vuoi parlare?

«Oh, ti avevo parlato delle storie di battaglie navali fra contrabbandieri e finanzieri sul lago di Como, giusto? Ebbene, quelle vicende le volevo raccontare, inserite in un solido contesto di action story. I protagonisti sono bambini, com’ero io quando quelle storie mi sono state raccontate e quella freschezza voleva prepotentemente diventare un romanzo».

La Vergine delle Ossa” è un romanzo ancora più cupo, ambientato a Torino e nel manicomio di Collegno. Credo sia un nuovo punto di partenza per la tua scrittura. Ormai il romanzo storico potrebbe essere la tua strada letteraria. Cosa ne pensi?

«Questo romanzo nasce dai pomeriggi d’estate passati col babbo al museo di antropologia di Torino. Tutto trasudava Lombroso, in quel posto. Lombroso fa parte di me, scrivevo sotto il suo busto di bronzo e mi pareva di avere i suoi occhi piazzati dietro la schiena, così ogni tanto gli leggevo quello che scrivevo. Lui mi sentiva di sicuro: da qualche parte negli scaffali c’era il suo cervello a galleggiare nella formaldeide, anche se avevano scambiato i cartellini e non sapevo quale fosse il suo. Era un uomo straordinario: capace di intuizioni geniali e modernissime, per esempio il fatto che se uno commette un delitto perché è pazzo non dovrebbe essere affidato al boia ma curato, anche se a quei tempi la cura era peggio del cappio. Un uomo caparbio, capace di farsi sfuggire il colpo di genio che l’avrebbe reso immortale per troppa testonaggine: cercando di dimostrare che le vitamine non esistevano e cercando un misterioso veleno nel mais era arrivato a un niente dallo scoprire la pennicillina, quasi cent’anni prima di Fleming. Nelle sue carte c’era tutto per scoprirlo ma non se ne è accorto: aveva in mente solo il suo veleno inesistente e non aveva tempo per altro. Un uomo coraggioso, che seguiva il suo istinto e non temeva il ridicolo, tanto da cercare di studiare i fantasmi facendosi ridere dietro da tutto il mondo accademico. Volevo assolutamete metterlo alla prova, sfidare il suo intuito così ballerino, a volte impeccabile a volte miope, in una indagine criminale che mettesse in corto circuito il Lombroso giovane e vigoroso studioso di pellagra rispetto al Lombroso anziano e un poco svampito a caccia di spiriti».

Hai quasi sempre giocato con personaggi storici, spesso famosi. A cosa è dovuto questo marchio di fabbrica?

«Sono attori perfetti per definire un’epoca. Il Goering de “I biplani di D’Annunzio”, ma anche il Kissinger che scompagina le carte e fa quasi da supereroe suo malgrado in “La maledetta vecchia signora”, il Majorana che torna dall’oblio ne “L’inglesina in soffitta”, accompagnano il lettore a entrare nello spirito di un’epoca, che è fondamentale per gustarsi un romanzo ambientato nel passato».

Sei stato protagonista con Valerio Evangelisti e pochi altri di una stagione magica per la letteratura di genere in Italia fra l’inizio e la metà degli anni 90; come consideri quel periodo? Ti sembra riproponibile?

«Beh, è stato affascinante: ci portavano in giro per l’Europa a raccontare storie, cosa desiderare di più? Quanto a cosa ci riserverà il futuro, beh siamo noi a scriverlo. Se ci saranno storie abbastanza forti da superare i confini del genere, e magari anche le barriere della lingua, perché no? La storia è ciclica e noi che scriviamo ucronia lo sappiamo bene, visto che vogliamo spezzare questa ciclicità».

Sei appassionato di modellistica, aeroplani e droni. Ci vuoi parlare di questo tuo hobby?

«A volte la vita ti mette davanti a cose inaspettate, la fantascienza entra di prepotenza nella vita reale. Dopo quarant’anni che facevo aeromodelli, ci giocavo e la cosa finiva lì, adesso dagli aeromodelli è nato un mondo nuovo e affascinante, quello dei droni: non più aeromodelli ma robot volanti radiocomandati che stanno cambiando per sempre il mondo in cui viviamo. Lasciamo perdere quelli militari, che sono macchine particolarmente odiose, e pensiamo ai droni civili che volano sui campi per darci cibo più sano ed economico, a quelli che si buttano nel cuore delle tempeste per dare ai meteorologi gli strumenti per salvare vite umane, a quelli che in Kenia spaventano i rinoceronti per tenerli lontani dai bracconieri, a quelli che scovano gli abusi edilizi e le discariche criminali, a quelli che semplicemente verificano che i cavi elettrici siano a posto. O che – un domani più vicino di quel che sembra . ci porteranno a casa gli acquisti fatti su Amazon. O magari fanno solo riprese da un punto di vista impensabile pochi anni fa, dando a chiunque i mezzi che fino a oggi aveva solo la Rai. I droni ci danno un enorme potere, ci fanno volare come uccelli. O, meglio, come supereroi. Un potere immenso ma, come diceva l’Uomo Ragno, a un grande potere corrisponde una grande responsabilità. La responsabilità di chi vola, di chi deve fare leggi perché quel volo non leda i diritti altrui, di chi sta a terra, di non farsi prendere dalla paranoia e permettere a questa rivoluzione di farsi strada e migliorare la vita di tutti. I droni sembrano nati dalla fantasia di un grande scrittore di fantascienza: saranno sempre più presenti nella nostra vita, ma hanno davanti una strada piena di difficoltà e di incognite. Questa volta non mi sono limitato a giocare, come con la scrittura, ma ho preso il toro per le corna e ne ho fatto una professione, fondando una casa editrice specializzata che fa riviste e libri dedicati a loro, ai droni. Perché sentivo il bisogno di dare alla comunità le informazioni, la cultura e perché no, un poco di sogni».

Cosa dobbiamo attenderci dai nuovi romanzi di Luca Masali? Nuove svolte?

Il Masali al momento è in letargo. Non svegliate il masal che dorme 🙂


(*) In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» – 14 settimane – Vincent Spasaro ha intervistato per codesto blog/bottega autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. I nomi? Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. «Non finisce lì» aveva giurato Spasaro. Nel secondo ciclo: Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri, Giulio Leoni, Michele Tetro, Massimo Maugeri, Stefano Di Marino, Francesco Troccoli, Valerio Evangelisti, Alberto Panicucci, “Jessie James”, Silvio Sosio… Oggi Luca Masali, fra 7 giorni Giorgio Raffaelli. In disordine alfabetico seguiranno due, forse tre o quattro. Alla fine qualcuna/o inevitabilmente mancherà (per i motivi più vari e/o strani) ma insomma è una panoramica… come mai – io credo – tentata in Italia. Certo bisognerà completarla questa luuuuuunga “Narrator” con un’ultima intervista martellante e cattiva… a un certo Vincent Spasaro. Che ne dite? Qualcuna/o si offre? Già vi vedo divis* in due partiti: “l’auto intervista sììììì” contro “l’auto intervista nooooo”. Vedremo. In ogni caso restate in zona, qui “ai confini della realtà”. (db)

 

Redazione
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