Né pulite né sostenibili: le grandi dighe…

… raccolgono nuove critiche

di Marina Forti (*)

MarinaForti-dighe

L’industria delle grandi dighe è in pieno boom. Centinaia di impianti idroelettrici sono in progetto o in costruzione sui maggiori fiumi del mondo. Sono presentate come una soluzione “pulita” per produrre energia: ma i sostenitori di questi progetti «spesso sopravvalutano i benefici economici e sottostimano gli effetti sulla biodiversità e sulla pesca», sostiene un gruppo di scienziati in uno studio pubblicato questa settimana su «Science». Si tratta di una delle critiche più argomentate alle grandi dighe mai venuto dalla comunità scientifica. Gli autori sono studiosi di 30 università, istituzioni scientifiche governative e istituti per la conservazione naturale di 8 Paesi.

Lo studio approfondisce i casi del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Mekong: solo su questi tre fiumi oggi ci sono 450 dighe in progetto o in costruzione, fanno notare gli autori. Questi tre fiumi sommati contengono oltre 4.000 specie di pesci noti, circa un terzo dei pesci d’acqua dolce al mondo; in molti casi sono specie che si trovano solo lì.

In addition to basin-wide biodiversity summaries (upper left in first two panels, middle in third panel), each basin can be divided into ecoregions (white boundaries). Many species are found only in a single ecoregion (black numbers), and subbasins within each river basin differ widely in their total species richness (shades of green illustrate breakpoints between quartiles in rank order within each basin)

Fiumi, dighe, ecosistemi. Oltre a sommari sulla biodiversità, ogni bacino è suddiviso in ecoregioni (contorni bianchi). Molte specie si trovano solo in una singola ecoregione (numeri in nero), e i sottobacini di ciascun bacino fluviale differiscono ampiamente nella ricchezza totale di specie (sfumature di verde) – «da Science», 8 gennaio 2016. Cliccare sull’immagine per mettere a fuoco

«Le grandi dighe invariabilmente riducono la diversità della fauna ittica ma bloccano anche i movimenti che connettono le popolazioni [di pesci] e permettono alle specie migratorie di completare il proprio ciclo di vita. Questo può essere particolarmente devastante per la pesca fluviale nelle regioni tropicali, dove molte specie tra le più importanti migrano per centinaia di chilometri rispondendo al ritmo stagionale delle alluvioni» scrivono i ricercatori. Il basso Mekong, popolato di specie di pesce migratorio, è un esempio drammatico: qui la pesca costituisce buona parte dell’alimentazione e dell’economia locale, ma è in declino proprio perché una serie di dighe ha cominciato a bloccare il fiume.

«Le grandi dighe ritardano e attenuano il ritmo delle alluvioni stagionali, riducendo l’accesso dei pesci agli habitat alluvionali che sono terreni essenziali per la crescita e alimentazione dei nuovi nati. Le alterazioni fisiche provocano un cambiamento dei regimi ecologici, dove sistemi dinamici e con alta complessità strutturale e funzionale divengono relativamente omogenei e poco produttivi» si legge sempre nello studio. Inoltre, «gli effetti ecologici delle grandi dighe non sono limitati ai fiumi; i sedimenti intrappolati [dalle dighe] alterano la dinamica dei nutrienti e altri processi bio-geo-chimici negli ecosistemi dei delta, estuari e piattaforme marine, cosa che ha un impatto sull’agricoltura, la pesca e gli insediamenti umani».

Lo studio pubblicato da «Science» nota che «i pianificatori non hanno valutato i reali costi e benefici dei grandi progetti idroelettrici». I guadagni sono sempre inferiori alle aspettative, e i costi lievitano regolarmente: circa tre quarti delle grandi dighe hanno sommato costi reali in media del 96% più alti delle previsioni fatte per giustificarne la costruzione. Senza contare che i costi di “mitigazione” ambientale sono di solito sottovalutati o esclusi dal conto – come nel caso dei 26 miliardi di dollari spesi dalla Cina per mitigare l’impatto della diga delle Tre Gole.

«La mancanza di trasparenza nei processi di approvazione fa dubitare che i finanziatori e il pubblico siano davvero informati sui rischi e l’impatto a lungo termine delle dighe sui sistemi fluviali tropicali che sostengono la vita di milioni di persone», si legge. Anche quando “valutazioni di impatto ambientale” sono condotte, «milioni di dollari possono essere spesi per studi che non hanno nessuna reale influenza sui progetti, anche perché spesso vengono completati quando la costruzione è già cominciata».

In definitiva, gli autori si dicono «scettici che le popolazioni rurali nei bacini dell’Amazzonia, Congo e Mekong riceveranno benefici, in termini di energia e lavoro, tali da compensare il costo della pesca, agricoltura e proprietà perdute».

Auspicano quindi un nuovo equilibrio «tra sfruttare il potenziale idroelettrico e salvaguardare risorse naturali chiave»: in particolare, suggeriscono alle istituzioni che autorizzano la costruzione di grandi dighe, e a quelle che le finanziano, di considerare nelle loro analisi l’intero bacino fluviale coinvolto e l’effetto cumulativo di molteplici dighe sull’idrologia, la dinamica dei sedimenti, la produttività degli ecosistemi, la biodiversità, la vita delle popolazioni rurali.

Altrimenti dicono «l’estinzione di specie e il declino della pesca e degli ecosistemi accompagneranno inevitabilmente i nuovi progetti idroelettrici nei fiumi tropicali ad alta diversità biologica».

Sono le critiche che numerose popolazioni locali e organizzazioni ambientaliste fanno da tempo, osserva Peter Bosshard, direttore e fondatore della rete International Rivers.

foto Marina Forti

Il Mekong in Laos (foto di Marina Forti)

Non è la prima volta che la razionalità delle grandi dighe viene messa in discussione. Alla fine del secolo, nel 1998, la Banca Mondiale fu costretta a istituire una commissione indipendente per riesaminare i progetti che stavano suscitando polemiche e proteste in po’ ovunque (qualche anno prima un grande movimento popolare aveva costretto la stessa Banca Mondiale a ritirarsi dal progetto di una grande diga sul fiume Narmada, in India). La World Commission on Dams presentò nel 2000 un rapporto in cui affermava che «in troppi casi per garantire quei benefici è stato pagato un prezzo inaccettabile, in termini sociali e ambientali, dalle persone sfollate, dalle comunità a valle [delle dighe], dai contribuenti e dall’ambiente naturale». Parlava anche di costi e benefici gonfiati. Dopo quel rapporto la Wcd fu sciolta; per qualche tempo il rapporto è rimasto online (oggi non più: c’è solo la sintesi fatta dall’Unep). Poi la Banca mondiale ha ricominciato allegramente a sostenere e finanziare progetti di dighe.

Governi e finanziatori oggi sono di nuovo chiamati in causa: ascolteranno?

(*) ripreso dal blog di Marina Forti «Terra terra on line» – è qui: http://www.terraterraonline.org – ovvero «Cronache da un pianeta in bilico»

 

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