Nessuna amnistia per l’Ucraina

immagini, video, appelli, articoli di Alfonso Navarra e Antonia Sani, Albert Camus, Carlos Latuff, Amnesty International, Laura Ru, Adriano Madaro, Comitato NoMuos-NoSigonella, Simon Jenkins, Antonio Mazzeo, Roberto Paura, Stefano Orsi, Nicola Rangeloni, Marco Bordoni, Fulvio Scaglione, Francesco Sylos Labini, Caitlin Johnstone, Massimo A. Alberizzi, Raniero La Valle, Annibale Scarpante, Pepe Escobar,

L’inferno e la ragione

di Alfonso Navarra e Antonia Sani (*). Con un testo di Albert Camus dell’agosto 1945.

Viene a cadere il 77esimo anniversario di Hiroshima (6 agosto) e Nagasaki (9 agosto), date che – all’insegna del “Mai più” – andrebbero incise nel corpo vivo dell’Umanità, soprattutto mentre un conflitto militare combattuto tra NATO e Russia sul territorio ucraino rende concreta la minaccia di una escalation nucleare. Il lancio di quelle bombe atomiche sulle città giapponesi nel 1945 dovremmo considerarlo un crimine contro l’umanità al pari, se non peggio, dei campi di concentramento nazisti per sterminare gli ebrei ad Auschwitz e Dachau. Il record mondiale dello sterminio nell’unità di tempo (110mila morti all’istante) ha cambiato per sempre la storia dell’Umanità ponendola di fronte al baratro di una “avventura senza ritorno”, destinazione fine del mondo. Eppure, l’opinione pubblica mondiale continua a sottovalutare, se non addirittura a ignorare, la minaccia atomica, nonostante essa sia sempre sullo sfondo della geopolitica odierna ed una situazione chiamata “equilibrio del terrore” abbia caratterizzato gli anni della Guerra fredda tra USA ed URSS.
La cultura mondiale è sempre stata colpevole di reticenza con poche voci che si sono levate contro. L’unica al momento del lancio delle bombe fu quella dell’umanista Albert Camus, in direzione ostinata e contraria rispetto al pensiero unico dominato dai vincitori della guerra (si veda l’editoriale di Combat dell’8 agosto 1945).
L’anniversario di quest’anno possiamo in parte rivestirlo di una luce di speranza, considerato che dobbiamo registrare positivamente i progressi della proibizione delle armi nucleari sulla base del diritto umanitario. Un Trattato internazionale (TPNW) in questo senso è stato adottato il 7 luglio del 2017, è entrato in vigore alla cinquantesima ratifica nel gennaio 2021; e la prima conferenza di revisione si è tenuta a Vienna nel giugno di quest’anno ponendo con forza la complementarità con il Trattato di non proliferazione (TNP). Si è aperto un dialogo con i Paesi della condivisione nucleare NATO (Germania, Belgio e Olanda erano presenti in qualità di osservatori. Italia: non pervenuta).
In questi giorni si sta appunto svolgendo a New York la conferenza di riesame del TNP con i delegati dei 190 Stati parte (termine dei lavori: 26 agosto). In vigore dal 1970, il TNP dà un ordine giuridico quasi universalmente riconosciuto alla materia nucleare, sia civile che militare. Esso stabilisce il “diritto inalienabile” all’energia nucleare, ma allo stesso tempo interdice la diffusione delle armi nucleari, temporaneamente legittime solo per le cinque potenze del Consiglio di Sicurezza.
Ma questo “diritto al possesso” era vincolato a una promessa, contenuta nell’articolo 6: l’impegno a negoziare subito, “in buona fede”, il disarmo nucleare. Nella realtà dopo decenni non si sono visti passi in avanti verso il disarmo nucleare anzi oggi si vedono soprattutto passi indietro con programmi di ammodernamento della “deterrenza” ingenti per dispendio economico (1.000 miliardi per i soli USA!) e terrorizzanti per la tendenza all’automazione, con delega all’Intelligenza Artificiale, che accresce la possibilità di guerra per errore.
La guerra in Ucraina oggi pone ulteriormente a rischio il TNP perché l’uso degli ordigni è esplicitamente ventilato e comunque l’attacco di una potenza nucleare contro uno Stato non nucleare incentiva i Paesi a rivedere la loro decisione di rinunciare all’arma nucleare.
A New York al TNP si vedrà se si riesce ad avviare qualche controtendenza. Sarebbe importante una sinergia tra campagna per la proibizione delle armi nucleari e campagna per il non primo uso di esse. Si dovrebbe far recepire nel documento finale, se si riuscirà a vararne uno, appunto l’interdizione del primo uso delle armi nucleari, che aprirebbe la strada alla loro “deallertizzazione”, separando le testate dai vettori (2.000 sono sempre pronte al lancio immediato). Un grimaldello per il riconoscimento del TPNW da parte del TPN potrebbe essere assicurato dal riconoscimento del primo come “zona denuclearizzate globale” deterritorializzata, da aggiungersi a quelle territorializzate già riconosciute: Africa, America Latina, Pacifico del Sud, Asia Sud Orientale, Asia Centrale.
L’ostacolo principale per il riconoscimento del TPNW da parte del TNP è la sua proibizione totale e quasi repentina dello stesso possesso delle armi nucleari. Queste disposizioni sono problematiche per i Paesi NATO perché incompatibili con la dottrina strategica dell’Alleanza che non esclude, in circostanze eccezionali, il primo uso dell’arma nucleare. Ma a Vienna si è appunto aperto un dialogo con i Paesi che dovrebbero, come l’Italia, ospitare le nuove B61-12 trasportate dagli F35, e se son rose fioriranno. Noi siamo qui per portare avanti il nostro impegno costruttivo e, ritenendo più importante “fare la pace con la Natura” che non accapigliarsi per i confini di imperi declinanti o sognati, dare basi concrete alla speranza di un mondo libero dalla minaccia nucleare…

 
Alcune riflessioni di Albert Camus
tratte dal giornale “Combat” – editoriale 8 Agosto 1945 

 

 

Albert Camus

 


Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie. Dovremo scegliere, in un futuro più o meno prossimo, tra il suicidio collettivo e l’impiego intelligente delle conquiste scientifiche.

Nell’attesa, si può pensare che vi sia una certa indecenza a celebrare in questo modo una scoperta che si pone prima di tutto al servizio del più formidabile accanimento distruttivo di cui l’uomo abbia dato prova da secoli. Che in un mondo esposto a tutti gli strappi della violenza, incapace di alcun controllo, indifferente alla giustizia e alla semplice felicità umana, la scienza si consacri all’omicidio organizzato, nessuno ormai, a meno che non sia affetto da idealismo congenito, troverà modo di stupirsi.


Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all’umanità, ci accorgiamo ancora di più che la pace è la sola battaglia che meriti di essere combattuta. Non è più una supplica ma un ordine che deve salire dai popoli ai governi, l’ordine di decidere definitivamente tra l’inferno e la ragione.

(*) Alfonso Navarra – Disarmisti esigenti; Antonia Sani – Coordinamento antinucleare europeo.

Il testo è ripreso «Odissea»: libertariam.blogspot.com

SE PUTIN CI GUARDA NEGLI OCCHI – Marco Bordoni

 …come convincere gli Ucraini delle zone occupate a farsi Russi. E qui la risposta può essere identificata in un programma più semplice a dirsi che a farsi: invertire il processo di “nazionalizzazione” portato avanti, prima timidamente, poi a marce forzate, dai Governi dell’Ucraina indipendente. La pratica di “acculturazione forzata, imposta da una società dominante a una più debole, la quale in tal modo vede rapidamente crollare i valori sociali e morali tipici della propria cultura e perde, alla fine, la propria identità e unità” ha un nome in antropologia: etnocidio. Ed è precisamente quello che abbiamo visto succedere in Ucraina negli ultimi anni. Putin ha torto (e, da giurista, non può non esserne consapevole) quando accusa gli Ucraini di genocidio  ma parlare, per il periodo 2014 – 2022 di tentativo di etnocidio dei Russi di Ucraina (e di bombardamenti terroristici a Donetsk) non è fuori luogo.

I valori di riferimento di chi si sentiva russo sono stati banditi da  ogni aspetto della vita pubblica (toponomastica, memorialistica, festività etc…) nell’istruzione e nel discorso pubblico: le espressioni culturali e politiche represse con efficienza, talvolta con brutalità. Menzione particolare, per la profondità dei sentimenti scossi, la creazione in vitro, da parte di Poroshenko, della chiesa “autocefala” nazionale, con tanto di “santa coercizione” per condurre all’ovile nuovo di zecca le pecorelle smarrite. Le comunità russofone sono state sottoposte ad uno shock culturale con appelli a (frase idiomatica) “uccidere il russo in loro” e politiche tese a “formattarle” per installarvi coordinate identitarie, politiche, etiche ed estetiche diverse. A chi non concordava una sola possibile alternativa: “valigia, stazione, Russia” (altra espressione idiomatica). Ora, nei territori occupati, la musica si inverte: i simboli non solo dei battaglioni “punitivi” ma anche della stessa statualità ucraina sono platealmente rimossi, sostituiti da statue di Lenin, bandiere “della vittoria” e russe, araldica dei tempi dello zar. Non c’è nemmeno bisogno di invitare i dissidenti ad andarsene, “valigia, stazione, Kiev”: ci hanno già pensato, a far terra bruciata, le bombe e la paura, ben fondata, per i patrioti ucraini, dell’arrivo dei Russi. Restano nelle retrovie unità di sabotatori, che creano alle truppe di Mosca non pochi problemi.

In un ambiente di frontiera permeabile come quello del Sud-Est ucraino, in cui l’humus cultural-identitario è neutro e fertile, in cui il senso di appartenenza nazionale è un costrutto recente, che interseca le linee di separazione sociali, linguistiche e religiose, e in cui solo una parte minoritaria della popolazione ha una identità ben polarizzata mentre la maggioranza “si adatta” per tirare a campare, facendo buon viso a cattivo gioco, il condizionamento ha funzionato tanto bene che alla fine i Russi (intesi come Stato) si sono sentiti costretti ad una scelta estrema: o perdere per sempre territori che considerano, a torto o a ragione, un loro retaggio ancestrale, o riprenderne il controllo con la violenza per (tentare di) invertire il processo. E pazienza se, nel tentativo, il pomo della discordia dovesse restare schiacciato.

All’ attuazione pratica di questa seconda guerra di conquista, diretta ai cuori e alle menti, deve pensare Sergey Kirienko, il manipolatore, che sta portando nella Novorussia l’approccio tecnocratico con il quale si è guadagnato la fiducia di Putin: uomini nuovi, specialisti, insegnanti russi, portati nelle terre controllate da Mosca dalle più remote regioni, assieme ad adeguati investimenti, in un clima di mobilitazione nazionale, per gestire la ricostruzione materiale ma soprattutto identitaria dei nuovi territori.  E l’odio della guerra? Le guerre si dimenticano, pensano (e dicono) i Russi. Si pensi ai Ceceni: venti anni fa nemici irriducibili, oggi in prima linea a fianco a noi. Si pensi a Giapponesi, Tedeschi, Italiani: a suo tempo bombardati dagli Americani, oggi vassalli fedeli. È un approccio brutale, che ricorda i tempi dell’assolutismo: “Gli uomini non meritano la verità”, scriveva Federico il Grande a Voltaire, proseguendo: “Sono un branco di cervi nel parco di un grande nobile, che non servono ad altro che a riprodursi, per popolare il parco”. Ma se vogliamo essere onesti fino in fondo dobbiamo ammettere che è la medesima logica messa in atto dai governi maidanisti e dai loro sponsor occidentali.

Identificate in questo modo, con pochi margini di errore, le caratteristiche e le modalità del programma russo, ci sarebbe da definire e calibrare le nostre possibili risposte. Nostre, dei Governi cosiddetti “occidentali”, fronte eterogeneo che comprende, ovviamente, chi i conti non sa o ha rinunciato a farli e altri che, invece, li sanno fare da tempo, e molto bene. Comunque è chiaro che alle iniziative russe ci opporremo. John Kirby lo ha già detto: le annessioni non rimarranno impunite. Benissimo. Del resto, in tutta questa faccenda, quando mai, da parte occidentale, si è vista un’ apertura?

Il 21 febbraio 2014 abbiamo rifiutato di ripristinare il quadro delle istituzioni democratiche ucraine, costringendo gli insorti a rispettare l’accordo con Yanukovich. L’inchiostro dell’accordo era ancora fresco, le firme dei garanti (Polonia, Francia, Germania), pure. Sarebbe stato un piccolo sacrificio, visto che l’ opposizione avrebbe comunque, di lì a poco, vinto le elezioni in un quadro legale, come era successo nel 2004. Poi abbiamo rifiutato di riconoscere i diritti all’autodeterminazione della comunità russa della Crimea e i diritti della Russia sulla penisola (che pure erano giuridicamente ben più fondati di quelli, da barzelletta, che Putin accampa per i nuovi territori occupati oggi). Sempre nella primavera del 2014 Mosca iniziò a soffiare sul fuoco della guerra civile in Donbass e chiese che venisse consentito il decentramento dell’Ucraina, una versione molto più blanda e incruenta di quello a cui aspira oggi. Richiesta respinta, non si sa bene perché.

Poi abbiamo rifiutato (“fermamente” come si dice in questi casi) di costringere Kiev ad applicare gli Accordi di Minsk, fingendo che fossero solo i Russi a violarli. La prima cosa da fare, trattato alla mano, dopo il cessate il fuoco, erano negoziati diretti fra Governo e separatisti. Kiev ha detto quasi subito che non ci pensava nemmeno. Eppure per anni i nostri politici hanno continuato a invitare Putin ad applicare gli accordi.

Ci avviciniamo ai giorni nostri. Poco prima dell’ inizio delle operazioni militari russe, quando già la diplomazia pattinava su un ghiaccio assai sottile, abbiamo respinto le richieste di Putin di accantonare la politica delle “porte aperte” per la NATO e di “finlandizzare” l’Ucraina (anzi, poco dopo l’inizio della guerra, praticamente senza alcun dibattito, abbiamo “ucrainizzato” la Finlandia). E oggi stiamo, nei fatti, assecondando le ardite speranze di Zelensky di vincere la guerra con Mosca, respingendo come folle questa soluzione “Coreana” che la Russia sembra preparare in punta di baionetta. Comprensibile, per carità: quello che stanno facendo i Russi non è uno spettacolo per stomaci delicati. Ma si noti: a ogni salto dell’escalation il prezzo (politico, economico e morale) del compromesso è sempre più alto. L’interlocutore sempre più ostile. Non ci piaceva parlare con la Russia del 2014, ancor meno ci piace farlo con quella di oggi. Ma non siamo a una festa, in cui si può parlare solo con quelli che ci stanno simpatici. Il tema è: non parliamo oggi perché pensiamo che la Russia di domani sarà più amichevole? Su quali basi? Oppure pensiamo si possa continuare a tirare dritto ignorando le loro richieste?

Gli Americani pensano di riuscire a controllare il processo, e pensano che fino a che non si va troppo in là, la cosa può anche fargli gioco. E va bene. Ma noi? Diseducati alla politica estera, avendo vissuto tutte le nostre vite sotto tutela, in un mondo in cui nessuna potenza ha mai avuto la forza di presentare all’alleanza occidentale il conto della sua intransigenza  e dei suoi errori, siamo diseducati all’ascolto e al compromesso. Ci facciamo spingere per inerzia verso il momento terribile in cui potremmo trovarci davanti alla prospettiva di un coinvolgimento diretto o a quella di una resa disonorevole in una guerra in cui abbiamo investito troppo, e perso moltissimo, senza nemmeno aver discusso se valesse la pena combatterla, e senza prendervi parte.

Eppure le dinamiche dei rapporti di potenza ci suggeriscono che almeno su questo punto Putin potrebbe aver ragione: la supremazia del “miliardo d’ oro” è agli sgoccioli. L’epoca delle scelte senza conseguenze, dell’intransigenza gratis come posa, dell’obbedienza docile e irriflessiva all’alleato, nella cieca fiducia del suo ombrello protettivo, sta per finire per sempre.

da qui

 

Russia-Ucraina: “La condotta di guerra delle forze ucraine ha messo in pericolo la popolazione civile”

Nel tentativo di respingere l’invasione russa iniziata a febbraio, le forze ucraine hanno messo in pericolo la popolazione civile collocando basi e usando armamenti all’interno di centri abitati, anche in scuole e ospedali. Queste tattiche violano il diritto internazionale umanitario perché trasformano obiettivi civili in obiettivi militari. Gli attacchi russi che sono seguiti hanno ucciso civili e distrutto infrastrutture civili.

“Abbiamo documentato un modello in cui le forze ucraine mettono a rischio i civili e violano le leggi di guerra quando operano in aree popolate”, ha affermato Agnès Callamard, Segretario generale di Amnesty International.

“Essere in una posizione difensiva non esenta l’esercito ucraino dal rispetto del diritto umanitario internazionale”.

In altre località in cui Amnesty International ha concluso che la Russia ha commesso crimini di guerra, incluse aree della città di Kharkiv, l’organizzazione non ha trovato prove di forze ucraine dislocate nelle aree civili prese di mira illegalmente dall’esercito russo.

Tra aprile e luglio, i ricercatori di Amnesty International hanno trascorso diverse settimane a indagare sugli attacchi russi nelle regioni di Kharkiv, del Donbass e di Mykolaiv. L’organizzazione ha visitato luoghi colpiti dagli attacchi, ha intervistato sopravvissuti, testimoni e familiari di vittime, ha analizzato le armi usate e ha svolto ulteriori ricerche da remoto.

Durante queste ricerche, i ricercatori di Amnesty International hanno riscontrato prove che le forze ucraine hanno lanciato attacchi da centri abitati, a volte dall’interno di edifici civili, in 19 città e villaggi. Per convalidare ulteriormente queste prove, il Crisis Evidence Lab dell’organizzazione per i diritti umani si è servito di immagini satellitari.

La maggior parte dei centri abitati dove si trovavano i soldati ucraini era a chilometri di distanza dalle linee del fronte e, dunque, ci sarebbero state alternative che avrebbero potuto evitare di mettere in pericolo la popolazione civile. Amnesty International non è a conoscenza di casi in cui l’esercito ucraino che si era installato in edifici civili all’interno dei centri abitati abbia chiesto ai residenti di evacuare i palazzi circostanti o abbia fornito assistenza nel farlo. In questo modo, è venuto meno al dovere di prendere tutte le possibili precauzioni per proteggere le popolazioni civili.

ATTACCHI LANCIATI DAI CENTRI ABITATI

Sopravvissuti e testimoni degli attacchi russi nelle regioni di Kharkiv, del Donbass e di Mykolaiv hanno riferito ai ricercatori di Amnesty International che l’esercito ucraino era operativo nei pressi delle loro abitazioni e che in questo modo ha esposto la popolazione civile alle rappresaglie delle forze russe.

“I soldati stavano in una casa accanto alla nostra e mio figlio andava spesso da loro a portare del cibo. L’ho supplicato diverse volte di stare lontano, avevo paura per lui. Il pomeriggio dell’attacco io ero in casa e lui in cortile. È morto subito, il suo corpo è stato fatto a pezzi. Il nostro appartamento è stato parzialmente distrutto”ha dichiarato la madre di un uomo di 50 anni ucciso da un attacco russo il 10 giugno in un villaggio a sud di Mykolaiv. Nell’appartamento dove, secondo la donna, avevano stazionato i soldati ucraini Amnesty International ha rinvenuto equipaggiamento e divise militari.

Questa è la testimonianza di Mykola, che vive in un palazzo di Lysychansk, nel Donbass, più volte centrato dagli attacchi russi:

“Io non capisco il motivo per cui i nostri soldati sparano dalle città e non dai campi”.

E questa è quella di un uomo residente nella stessa zona:

C’è attività militare qui nel quartiere. Quando c’è fuoco in uscita, subito dopo c’è fuoco in entrata”.

A Lysychansk i ricercatori di Amnesty International hanno visto soldati in un palazzo a 20 metri di distanza dall’entrata di un rifugio sotterraneo usato dagli abitanti e dove un anziano è stato ucciso.

In una città del Donbass, il 6 maggio, le forze russe hanno colpito con le bombe a grappolo (vietate dal diritto internazionale e inerentemente indiscriminate) un quartiere di case per lo più a un piano o a due piani dove era in funzione l’artiglieria ucraina. I frammenti delle bombe a grappolo hanno danneggiato l’abitazione dove Anna, 70 anni, vive con la madre novantacinquenne.

“Le schegge sono passate attraverso la porta. Io ero dentro casa. L’artiglieria ucraina si trovava nei pressi del mio giardino. I soldati erano dietro al giardino e dietro la casa. Da quando la guerra è iniziata li ho visti andare e tornare. Mia madre è paralizzata, per noi è impossibile fuggire”.

All’inizio di luglio, nella regione di Mykolaiv, un contadino è rimasto ferito nell’attacco delle forze russe contro un deposito di grano. Ore dopo l’attacco, i ricercatori di Amnesty International hanno notato la presenza di soldati ucraini e di veicoli militari nella zona del deposito. Testimoni oculari hanno confermato che quella struttura, situata lungo la strada che porta a una fattoria dove persone vivono e lavorano, era stata usata dalle forze ucraine.

Mentre i ricercatori di Amnesty International stavano esaminando i danni arrecati a palazzi e ad altre strutture civili nelle regioni di Kharkiv, del Donbass e di Mykolaiv, hanno udito spari provenienti dalle postazioni ucraine situate nelle vicinanze.

A Bakhmut, molte testimonianze hanno parlato di un edificio usato dai soldati ucraini e situato a neanche 20 metri di distanza da un palazzo a più piani. Il 18 maggio un missile russo ha colpito il palazzo distruggendo parzialmente cinque appartamenti e danneggiando edifici vicini.

Tre abitanti hanno riferito che prima dell’attacco delle forze russe, quelle ucraine avevano utilizzato un edificio dall’altra parte della strada e che due camion dell’esercito ucraino erano parcheggiati di fronte a un’abitazione rimasta danneggiata dal missile.

I ricercatori di Amnesty International hanno rinvenuto tracce, all’interno e all’esterno dell’edificio, della presenza dei soldati ucraini, tra cui sacchi di sabbia, pezzi di plastica nera per coprire le finestre e nuovi kit di pronto soccorso di manifattura statunitense.

“Non ci è permesso dire nulla su cosa fa l’esercito, ma siamo noi a pagare le conseguenze”ha detto ad Amnesty International un sopravvissuto all’attacco.

BASI MILITARI ALL’INTERNO DEGLI OSPEDALI

In cinque diverse località, i ricercatori di Amnesty International hanno visto le forze ucraine usare gli ospedali come basi militari. In due città decine di soldati stavano riposando, passeggiando o mangiando all’interno di strutture ospedaliere. In un’altra città i soldati stavano sparando nei pressi di un ospedale.

Il 28 aprile un attacco aereo russo ha ucciso due impiegati di un laboratorio medico alla periferia di Kharkiv dopo che le forze ucraine avevano installato una base nelle immediate adiacenze.

Usare gli ospedali a scopi militari è un’evidente violazione del diritto internazionale umanitario.

BASI MILITARI ALL’INTERNO DELLE SCUOLE

L’esercito ucraino colloca abitualmente le sue basi all’interno delle scuole dei villaggi e delle città del Donbass e della regione di Mykolaiv. Le scuole sono temporaneamente chiuse ma molte sono situate vicino a insediamenti urbani.

In 22 delle 29 scuole visitate, i ricercatori di Amnesty International hanno trovato soldati o rinvenuto prove delle loro attività, in corso al momento della visita o precedenti: tenute da combattimento, contenitori di munizioni, razioni di cibo e veicoli militari.

Le forze russe hanno colpito molte delle scuole usate dall’esercito ucraino. In almeno tre città, dopo i bombardamenti russi, i soldati ucraini si sono trasferiti in altre scuole, mettendo ulteriormente in pericolo i civili.

In una città a est di Odessa, Amnesty International ha notato in molte occasioni i soldati ucraini usare aree civili per alloggiare e fare addestramento, tra cui due scuole situate in zone densamente popolate. Tra aprile e giugno gli attacchi russi contro le scuole della zona hanno causato diversi morti e feriti. Il 28 giugno un bambino e un’anziana sono stati uccisi nella loro abitazione, colpita da un razzo.

A Bakhmut, il 21 maggio, un attacco delle forze russe ha colpito un edificio universitario usato come base militare dalle forze ucraine uccidendo sette soldati. L’università è adiacente a un palazzo a più piani, danneggiato nell’attacco insieme ad altre abitazioni civili a non più di 50 metri di distanza. I ricercatori di Amnesty International hanno visto la carcassa di un veicolo militare nel cortile dell’università bombardata.

Il diritto internazionale umanitario non vieta espressamente alle parti in conflitto di installarsi in scuole dove non sono in corso lezioni. Tuttavia, le forze armate devono evitare di usare scuole situate nei pressi di insediamenti civili, salvo quando non vi sia un’urgente necessità di tipo militare. Anche in questo caso, devono avvisare i civili e se necessario assisterli nell’evacuazione, cosa che nei casi esaminati da Amnesty International non pare si sia verificata.

I conflitti armati pregiudicano gravemente il diritto all’istruzione. Inoltre, l’uso a scopo militare delle scuole può dar luogo a distruzioni che, a guerra finita, possono continuare a negare quel diritto. L’Ucraina è uno dei 114 stati che hanno sottoscritto la Dichiarazione sulle scuole sicure, un accordo che intende proteggere l’istruzione durante i conflitti armati e che prevede l’utilizzo di scuole abbandonate o evacuate solo quando non vi siano alternative praticabili.

ATTACCHI INDISCRIMINATI DELLE FORZE RUSSE

Molti degli attacchi delle forze russe documentati da Amnesty International nei mesi scorsi sono stati portati a termine mediante l’uso di armi inerentemente indiscriminate, come le bombe a grappolo che sono messe al bando a livello internazionale, o di armi esplosive che producono effetti su larga scala. Altri attacchi sono stati condotti con armi guidate con vari livelli di precisione che, in alcuni casi, hanno effettivamente colpito il bersaglio designato.

La tattica delle forze ucraine di collocare obiettivi militari all’interno dei centri abitati non giustifica in alcun modo attacchi indiscriminati da parte russa. Tutte le parti in conflitto devono sempre distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili e prendere tutte le precauzioni possibili, anche nella scelta delle armi da usare, per ridurre al minimo i danni ai civili. Gli attacchi indiscriminati che uccidono o feriscono civili o danneggiano obiettivi civili sono crimini di guerra.

“Chiediamo al governo ucraino di assicurare immediatamente l’allontanamento delle sue forze dai centri abitati o di evacuare le popolazioni civili dalle zone in cui le sue forze armate stanno operando. Gli eserciti non devono mai usare gli ospedali per attività belliche e dovrebbero usare le scuole o le abitazioni dei civili solo come ultima risorsa, quando nessun’altra alternativa sia percorribile”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

ULTERIORI INFORMAZIONI

Il diritto internazionale umanitario chiede a tutte le parti in conflitto di fare il massimo possibile per non collocare obiettivi militari all’interno o nei pressi di centri abitati. Altri obblighi circa la protezione delle popolazioni civili prevedono la loro evacuazione da luoghi prossimi a obiettivi militari e un preavviso efficace su ogni attacco che possa avere conseguenze per le popolazioni civili.

Il 29 luglio Amnesty International ha trasmesso al ministero della Difesa di Kiev le conclusioni delle sue ricerche. Al momento, non è ancora pervenuta una risposta.

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Washington Post: sindaci e governatori ucraini contro Zelensky che tiene per sé gli “aiuti internazionali”Laura Ru

In Ucraina arrivano meno soldi, quelli che arrivano vengono dirottati sui conti della cerchia di Zelensky, e inevitabilmente cominciano a volare gli stracci.

RIA Novosti riporta un articolo del Washington Post secondo cui starebbero divampando disaccordi politici tra le autorità centrali e regionali dell’Ucraina. I sindaci delle grandi città, in particolare Dnipro, ritengono che Volodymyr Zelensky e la sua amministrazione stiano emarginando le amministrazioni regionali per mantenere il controllo su miliardi di dollari di aiuti internazionali e indebolire possibili oppositori politici. Inoltre, “c’è una crescente preoccupazione che l’ufficio di Zelensky sia pronto ad abbandonare le promesse e i piani per decentralizzare il potere”, afferma l’articolo.

I politici regionali sono anche insoddisfatti a causa della creazione di amministrazioni militari, i cui poteri superano notevolmente le prerogative delle autorità civili. In precedenza si è appreso che le contraddizioni interne stanno dilaniando anche l’ SBU, i Servizi di sicurezza ucraini.

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Zelensky definisce Amnesty International “terrorista” perché ha denunciato che Kiev utilizza i civili come scudi umani

L’organizzazione internazionale per i diritti umani Amnesty International ha dato un colpo insidioso a Zelensky e al regime di Kiev, le cui malefatte vengono taciute dai media mainstream.

In un nuovo rapporto, finanche questa struttura di cui più volte abbiamo evidenziato i lati oscuri, ha dovuto finalmente evidenziare che le forze armate ucraine piazzano le loro truppe e armamenti tra le infrastrutture civili. Un crimine di guerra che rende le popolazioni civili un obiettivo per attacchi militari.

Zelensky che evidentemente non si aspettava l’uscita di questo rapporto ha accusato Amnesty International di stare dalla parte dei “terroristi” dopo che l’organizzazione ha condannato l’esercito ucraino per aver piazzato armi in aree civili in violazione del diritto umanitario.

“Oggi abbiamo visto un rapporto di Amnesty International che, purtroppo, cerca di amnistiare lo Stato terrorista e di spostare la responsabilità dall’aggressore alla vittima”, ha affermato Zelensky in un videomessaggio.

“Se qualcuno fa un rapporto che mette sullo stesso piano l’aggressore e la vittima, questo non può essere tollerato”, ha detto il numero uno del regime di Kiev.

Zelensky ha ripetuto tre volte che “l’Ucraina è una vittima” e ha osservato che “chiunque dubiti di questo è un complice della Russia – un Paese terrorista – e un terrorista egli stesso e complice delle uccisioni”.

Il rapporto che ha fatto perdere le staffe a Zelensky, pubblicato giovedì, descrive in dettaglio 22 casi in cui le forze ucraine hanno lanciato attacchi dalle scuole e cinque esempi di utilizzo degli ospedali come “basi militari de facto”. Amnesty ha dichiarato “non essere a conoscenza” del fatto che nei casi documentati i soldati di Kiev abbiano chiesto ai civili di evacuare gli edifici circostanti o li abbiano aiutati a farlo prima di occupare le strutture civili.

“Abbiamo documentato che le forze ucraine mettono in pericolo i civili e violano le leggi di guerra quando operano in aree popolate. Essere in posizione difensiva non esime l’esercito ucraino dal rispettare il diritto internazionale umanitario”, ha spiegato nel rapporto Agnés Callamard, segretario generale dell’ONG.

Non poteva non aggregarsi alle proteste del regime di Kiev l’ineffabile ministro degli Esteri Kuleba, che accusa Amnesty di “creare una falsa realtà” in cui tutti “hanno la colpa di qualcosa”. Per poi concludere che l’organizzazione dovrebbe concentrarsi esclusivamente sulle presunte malefatte russe.

Evidentemente i gerarchi del regime ucraino non sono abituati a vedere apertamente esposte e condannate le loro malefatte e quindi protestano in maniera sguaiata.

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Taiwan, i danni di Pantera rosa – Adriano Madaro

Quella vecchia Signora vestita di rosa attillato che due sere fa è atterrata a Taipei, capoluogo dell’isola cinese di Taiwan, ha creato ai suoi amici separatisti un sacco di guai.

Tutti, perfino il titubante Biden, l’avevano sconsigliata di provocare la Cina in un momento tanto delicato. Avevano tentato di farla desistere sia la CIA che il Pentagono – il che è tutto dire – anche la stampa americana, New York Times in testa. Ma niente, quel “tiro birbo” rappresentava la sua gloria politica: portare tangibilmente al partito populista di Taiwan la solidarietà dell’America, sempre in nome degli abusati “diritti umani”.

Ordunque, quella donnetta apparentemente fragile si chiama Nancy Pelosi ed è fino a dicembre la terza carica dello Stato. Poi a casa, a fare la calza. Lo schiaffo che credeva di aver dato al governo di Pechino si è immediatamente abbattuto sulle ganasce paffute dei suoi sponsor taiwanesi.

La Cina, che aveva intimato di non toccare suolo a Taipei pena conseguenze serie, ha immediatamente sanzionato l’isola ribelle accerchiandola con un blocco navale tutt’intorno di centinaia di navi da guerra, e appena ripartita Pantera Rosa per Seul ha chiuso anche lo spazio aereo. Di più ha bandito 2.000 prodotti che acquistava dall’isola, contribuendo non poco a sostenere la sua economia, soprattutto agricola, e ha iniziato il count-down per il D-day, il giorno dell’invasione.

Quando? Se ne discuterà nella riunione plenaria del PCC (Partito comunista cinese) in calendario a ottobre, quando a Xi Jinping verrà rinnovato un terzo mandato proprio per riportare l’isola con tutti i suoi isolotti sotto la totale sovranità di Pechino. Nancy Pelosi cosa è andata a fare? Perchè quella provocazione di 20 ore sul suolo di Taiwan? Questa è la democrazia che Washington intende esportare? Uno solo che decide e spinge il mondo con un piede oltre l’orlo della Terza Guerra Mondiale?

Se lo è chiesto polemicamente anche Alan Friedman, giornalista americano corrispondente da Roma, il quale a “Coffee Break” de La7 ha demolito la Pelosi per l’inspiegabile viaggio in Oriente e soprattutto la sosta provocatrice a Taipei.”Nancy Pelosi – ha commentato Friedman – democrat di sinistra, donna di 82 anni, sta per lasciare il suo posto di lavoro (…) Lei ha un ego smisurato. Quello che ha fatto vuole essere il suo lascito, un qualcosa che si ricordi in politica internazionale (…) Biden ha cercato di fermarla ma non vi è riuscito, manifestando una debolezza sempre più eclatante”.

Queste persone pretendono di governare il mondo?

Il giornalista americano osserva inoltre che questo gesto insensato ha scatenato la reazione militare cinese accendendo i motori di navi, aerei, carri armati, missili e favorendo una alleanza Cina-Russia in maniera del tutto spontanea e pericolosamente anti-americana. Ma non basta: da ieri Pechino sta sanzionando Taiwan con il blocco dell’importazione di oltre 2.000 prodotti dell’isola e negando la fornitura delle sabbie speciali rare, indispensabili alla produzione di semiconduttori dei quali Taiwan è leader mondiale. Il resto verrà a giorni.

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Sigonella e le esecuzioni mirate – Comitato NoMuos/NoSigonella

Da anni sottolineamo come la Base USA di Sigonella, a pochi chilometri da Catania, costituisca un pericolo per la nostra terra e una evidente violazione dei nostri principi costituzionali.

In particolare tale condizione si è accentuata da quando nella base vengono ospitati droni armati utilizzati, quindi, non solo per attività di intelligence, ma per atti di guerra quando non per azioni definibili, alla luce del diritto internazionale, come ordinari omicidi.

Da qualche anno, il Comitato No Muos /No Sigonella ha iniziato una proficua collaborazione con l’ECCHR di Berlino – European Center for Costitutional and Human Right – associazione che si batte per la condanna delle operazioni Target Killing operate mediante l’uso di droni e il risarcimento delle vittime innocenti di tali azioni criminali. Le operazioni di Target Killing, infatti sono spesso azioni che, secondo il diritto internazionale, non avvengono all’interno di un conflitto dichiarato fra nazioni. Vengono individuati dei bersagli – “Target” – generalmente presunti terroristi e vengono uccisi, mediante attacchi di droni senza processo, al di fuori di ogni regola civile. Ovviamente simili attacchi, per quanto mirati, non possono svolgersi senza spargimento di sangue innocente. I cosiddetti effetti collaterali superano di almeno dieci volte il numero dei “Target” uccisi, lasciando una scia di sangue che a volte ha comportato l’intero sterminio dei partecipanti a cerimonie religiose, funerali, matrimoni…

Qualche anno fa, all’Università di Catania, ci eravamo occupati di questi temi con il convegno “Droni Armati a Sigonella” organizzato insieme a ECCHR. Successivamente la stessa ECCHR ha iniziato un’azione di “Accesso Civico” agli atti – FOIA – nel quale è intervenuta anche la nostra Associazione, per avere una conoscenza documentale riguardo al coinvolgimento dello Stato Italiano in tali azioni. Il giudizio, durato quasi cinque anni, svoltosi innanzi al TAR del Lazio e al Consiglio di Stato, si è da poco concluso e ha consentito di accedere ad accordi fra lo Stato Italiano e USA che disciplinano i rapporti fra le basi di Sigonella e Ramstein e la nostra Difesa.

Documenti che provano il pieno coinvolgimento del nostro governo e del nostro sistema di difesa in azioni che, non solo sono contrarie alla nostra Costituzione che non prevede giudizi di condanna a morte (per di più senza processo) ma che spesso si trasformano in autentici massacri di persone innocenti. Senza contare che la partecipazione a simili azioni e ad altre azioni di guerra operate in conflitti ai quali l’Italia ufficialmente non partecipa espongono il nostro territorio al rischio di ritorsioni, rappresaglie e atti terroristici.

Tale conoscenza potrà essere utilizzata per future azioni in difesa delle vittime e atti di denuncia. Intanto, come cittadini catanesi, continuiamo a subire anche le continue interferenze del volo dei droni con il traffico civile dell’Aeroporto di Catania.

Invitiamo pertanto tutte le realtà antimilitariste e pacifiste siciliane a rafforzare l’impegno e le mobilitazioni per smilitarizzare Sigonella e tutta la Sicilia e per contribuire alla costruzione di un movimento internazionale contro tutte le guerre.

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The Guardian: «A Taiwan, come in Ucraina, l’Occidente sta flirtando con il disastro»

Le attuali politiche avventuriste e guerrafondaie dei Paesi occidentali nei confronti dell’Ucraina e di Taiwan aumentano il rischio di “una guerra globale”, ha scritto il britannico Simon Jenkins in un editoriale apparso sul quotidiano The Guardian.

«L’Ucraina e Taiwan meritano tutto il sostegno diplomatico, ma non si può permettere che sbandino verso una guerra globale o una catastrofe nucleare», ha avvertito Jenkins, il quale nella sua disamina ha indicato che «ciò può ridurre l’effetto – sempre sopravvalutato – della deterrenza nucleare e renderli vulnerabili ai ricatti. Ma una cosa è dichiararsi ‘meglio morti che rossi’, un’altra è infliggere quella decisione agli altri».

Secondo l’editorialista gli Stati Uniti e i loro alleati stanno aderendo a una politica di “ambiguità strategica” quando dichiarano di essere pronti a fornire assistenza militare a Taiwan, pur rispettando il loro impegno al principio di una sola Cina. In questo contesto, ha definito “palesemente provocatoria” la visita del presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi sull’isola.

Lo stesso vale per l’Ucraina: Washington e Londra ribadiscono la necessità di sostenere Kiev per far fallire la Russia, ignorando però che le loro azioni portano a una reazione più forte da parte di Mosca, ha sottolineato il giornalista britannico.

Quindi Jenkins conclude: «Può darsi che un giorno una guerra globale, come il riscaldamento globale, rechi al mondo una catastrofe che potrebbe dover affrontare. Per il momento, la democrazia liberale deve sicuramente all’umanità scongiurare, piuttosto che provocare, questo rischio. Entrambe le parti stanno ora flirtando con il disastro. L’Occidente dovrebbe essere pronto a fare marcia indietro e non chiamarla sconfitta».

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Economie di guerra: la Nigeria – Antonio Mazzeo

La Turchia consegnerà elicotteri d’attacco alle forze armate della Nigeria ma a fregarsi le mani con Erdogan & C. ci sono pure i manager e gli azionisti di Leonardo SpA. Temel Kotil, direttore di TAI – Turkish Aerospace Industries, la principale azienda pubblica del comparto militare-industriale turco, ha reso nota l’esportazione alla Nigeria di sei elicotteri da combattimento avanzato T-129  “Atak”. Ignoto ad oggi il valore della commessa.

Il velivolo da guerra T-129  “Atak” viene costruito su licenza dell’azienda italo-britannica AgustaWestland, interamente controllata dal gruppo italiano Leonardo. Si tratta di un bimotore di oltre 5 tonnellate, molto simile all’A129 “Mangusta” in possesso dell’Esercito italiano. Nel 2007 AgustaWestland e Turkish Aerospace Industries hanno firmato un memorandum che prevede lo sviluppo, l’integrazione, l’assemblaggio degli elicotteri in Turchia, demandando invece la produzione dei sistemi di acquisizione obiettivi, navigazione, comunicazione, computer e guerra elettronica agli stabilimenti del gruppo italiano di Vergiate (Varese).

Gli elicotteri T129 “Atak” sono stati acquisiti dalle forze armate turche e utilizzati in più occasioni per sferrare sanguinosi attacchi contro villaggi e postazioni delle milizie kurde nel Kurdistan turco, siriano e irakeno.

Nel giugno del 2020 TAI – Turkish Aerospace Industries ha presentato una versione ancora più micidiale dell’elicottero “cugino” del “Mangusta”: con nuovi sistemi avanzati di individuazione e tracciamento dei bersagli e sofisticati sistemi per la guerra elettronica, il nuovo velivolo è armato con razzi non guidati da 70 mm e missili anti-carro a lungo raggio L-UMTAS.

Sei T-129 per un valore di 269 milioni di dollari sono stati venduti lo scorso anno alle forze armate delle Filippine; due velivoli sono stati già consegnati mentre i restanti quattro giungeranno a Manila entro la fine del 2023.

La conferma della commessa degli elicotteri alla Nigeria giunge un paio di giorni dopo la missione in Turchia del Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare nigeriana, il generale Oladayo Amao. Incontrando il comandante delle forze aeree di Ankara, il generale Hasan Kucukakyuz, Amao ha espresso l’intenzione di rafforzare la cooperazione industriale-militare con la controparte “in vista del miglioramento dell’efficienza operativa nella lotta al terrorismo, così come stanno facendo in questi mesi i due paesi”…

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Lo spettro del conflitto termonucleare globale durante la Guerra fredda – Roberto Paura

Una rassegna storica e tecnica delle previsioni, le strategie e le minacce degli anni in cui l’impensabile è stato pensato

Nel luglio 1985, in risposta a un colpo di stato promosso dai sovietici a Belgrado, le forze americane invadono la Jugoslavia. In Unione Sovietica il Politburo – che vede la sua sfera d’influenza scricchiolare dopo che la Corea del Nord e il Vietnam hanno intrapreso processi di liberalizzazione e i paesi del Patto di Varsavia sono squassati da movimenti di protesta – decide di rispondere mobilitando l’Armata Rossa e invadendo l’Europa attraverso la Germania ovest, la Norvegia e la Turchia. Ben presto, tuttavia, la forza d’invasione convenzionale si scontra con una dura opposizione e i sovietici non riescono a spingersi oltre l’occupazione dei Paesi Bassi. Frustrata dallo stallo, Mosca lancia un attacco nucleare su Birmingham, a cui gli americani rispondono distruggendo Minsk. Poco dopo, un colpo di stato da parte dei nazionalisti ucraini rovescia il governo sovietico e mette fine alla guerra.

Nel 1988 invece, per prevenire il dispiegamento di una rete intelligenti di satelliti anti-missili balistici in orbita da parte degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica fa esplodere sei bombe atomiche sopra i cieli americani, mettendone a tappeto le apparecchiature elettroniche. Prima che il suo aereo precipiti, il presidente statunitense riesce a dare l’ordine di una rappresaglia massiccia che distrugge le principali città sovietiche, inclusa Mosca. L’URSS reagisce con un altro lancio di missili balistici che spazza via le principali città della costa est, tra cui Washington e New York. Al termine di questo devastante scambio, durato appena 36 minuti, le vittime si contano in decine di milioni, mentre i paesi europei decidono di dichiarare la neutralità sulla base di un accordo segreto precedentemente siglato da Francia, Regno Unito e Germania ovest: la loro scelta mette fine all’escalation nucleare.

Questi due scenari provengono da due diverse opere apparse rispettivamente nel 1978 e nel 1984: la prima, La terza guerra mondiale, scritta da Sir John Hackett, fu uno dei maggiori successi editoriali di quell’anno, e si basava su considerazioni dei principali esperti di strategia nucleare dell’epoca; la seconda, Warday, rientra nel genere della “docufiction”: i due autori, Whitley Strieber e James Kunetka, ricostruiscono sotto forma di inchiesta le vicende che cinque anni prima hanno scatenato la terza guerra mondiale, attraverso interviste, documenti governativi e altri elementi fittizi. Ma fu nel 1983 che uscì la più spaventosa ricostruzione di un’ipotetica guerra nucleare: The Day After, il film prodotto dall’emittente americana ABC e diretto da Nicholas Meyer, fu visto da quasi cento milioni di cittadini statunitensi generando un tale sgomento che lo stesso Ronald Reagan ne fu atterrito al punto da abbandonare la sua spavalderia e ammettere che “una guerra atomica non si può vincere e non si deve mai combattere”.

Ripercorrere i dibattiti e gli scenari di un’epoca che pensavamo ormai passata può tornare di estrema utilità per il presente, soprattutto se vogliamo assicurare alla nostra civiltà un futuro.

Anche i suoi predecessori erano giunti alla stessa conclusione, benché le pressioni perché gli Stati Uniti si lanciassero in un conflitto nucleare con l’Unione Sovietica non mancassero. Per tutto il corso della Guerra fredda, americani e sovietici si prepararono alla terza guerra mondiale mettendo a punto strategie, scenari e piani d’azione che includevano un uso massiccio della bomba atomica, spingendo fino in fondo il pedale dell’acceleratore nella corsa agli armamenti e saturando il mondo con un arsenale sufficiente a spazzare via la vita umana dalla faccia della Terra.

Eppure, la Guerra fredda si concluse senza che quel conflitto distruttivo che tutti si aspettavano scoppiasse. Se ciò accadde fu anche grazie all’intenso dibattito sulla strategia nucleare, la cui evoluzione oscillò continuamente tra possibilismo e intransigenza, tra la possibilità di fare della bomba atomica un’arma come le altre nel vasto arsenale delle grandi potenze e la convinzione che si trattasse, all’opposto, di un’arma troppo terribile per essere usata. Lo scorso giugno sulla rivista Foreign Policy un articolo di Michael Auslin, ricercatore della Stanford University, ha suggerito che gli Stati Uniti debbano re-imparare la strategia nucleare, se vorranno riuscire a disinnescare la minaccia di una Terza guerra mondiale. Ripercorrere i dibattiti e gli scenari di un’epoca che pensavamo ormai passata può quindi tornare di estrema utilità per il presente, soprattutto se vogliamo assicurare alla nostra civiltà un futuro.

First strike

Nella seconda metà degli anni Quaranta gli Stati Uniti erano l’unica nazione al mondo dotata della bomba atomica; tutti sapevano che l’Unione Sovietica aveva piani per svilupparla, ma nessuno era in grado di dire quanto tempo sarebbe occorso per restaurare l’equilibrio di potenza. I più ottimisti parlavano degli anni Sessanta. I più pessimisti ritenevano, all’opposto, che l’URSS fosse molto avanti e che per questo bisognasse fermarla prima che scatenasse un conflitto atomico su scala mondiale. Tra i più insospettabili sostenitori di questa tesi figurava il pacifista Bertrand Russell, secondo il quale era preferibile nuclearizzare i sovietici prima che si dotassero a loro volta della bomba per evitare che arrivassero a soggiogare l’Europa e poi il mondo intero (nel 1955 Russell avrebbe firmato insieme ad Albert Einstein il celebre manifesto per chiedere il disarmo globale).

Più naturale era la determinazione di generali come Leslie Groves, che aveva diretto il progetto Manhattan e visto per primo di cosa era capace la bomba atomica, e soprattutto Curtis LeMay, che dopo aver comandato tutti i maggiori bombardamenti aerei in Europa e Giappone aveva assunto nel 1948 la guida del neonato Strategic Air Command (SAC), con l’obiettivo di trasformarlo nel comando centrale della guerra atomica.

LeMay era un convinto sostenitore della necessità di dotare l’Air Force del potenziale nucleare sottraendolo alla marina: in effetti, nel 1946 l’operazione Crossroads, che testò le potenzialità della bomba nell’atollo di Bikini su una flotta di navi, mostrò che l’arma atomica era poco efficace su bersagli sparsi su un’area molto grande, dato che la maggior parte delle navi (schierate in classiche posizioni di battaglia) rimase illesa; LeMay ne approfittò per enfatizzare la necessità di usarla non in contesti di teatro – ossia in battaglie terrestri o navali – ma contro le grandi città nemiche. E per distruggere le grandi città nemiche occorreva disporre di grandi flotte di bombardieri in grado di trasportare le pesanti bombe atomiche fin sull’obiettivo. Il piano Halfmoon, approvato nel 1948 dallo Stato maggiore USA, prevedeva dapprima 50, poi 133 bombe da sganciare sull’Unione Sovietica, otto delle quali destinate a Mosca. Quando, l’anno successivo, i sovietici eseguirono con successo il primo test atomico, lasciando pressoché di stucco gli americani, che non si aspettavano un così rapido ripristino dell’equilibrio di forza, il piano Halfmoon divenne il perno operativo di un possibile first strike, l’attacco nucleare da scatenare nel caso in cui l’Armata Rossa avesse invaso l’Europa occidentale – prospettiva considerata talmente imminente che il piano era stato redatto in emergenza – senza che le forze convenzionali alleate riuscissero a contrastarne l’avanzata.

Era questo lo scenario su cui si basava l’idea di una guerra combattuta attraverso le armi nucleari tra le due superpotenze. Per tutta la Guerra fredda, le forze convenzionali della NATO schierate in Europa occidentale furono in inferiorità numerica rispetto alle divisioni sovietiche e un attacco generale orientato all’invasione difficilmente avrebbe avuto altro esito – secondo gli strateghi dell’Alleanza atlantica – di una vittoria totale di Mosca. L’arsenale nucleare americano doveva servire a impedire una simile vittoria, attraverso la minaccia di un contrattacco devastante, del tipo nation-killing, orientato cioè alla completa distruzione dell’Unione Sovietica. Una simile prospettiva inorridiva il presidente Truman, che pure non aveva esitato a far sganciare le atomiche su Hiroshima e Nagasaki: il piano Halfmoon fu rispedito al mittente con la richiesta di svilupparne un altro che non prevedesse l’uso di bombe atomiche. “Una simile guerra non è un’opzione politica per una persona razionale”, dichiarò Truman nel 1953 nel suo ultimo messaggio al Congresso.

Ben presto, negli anni Cinquanta, divenne chiaro che non tutti i gradi di incertezza di una guerra potevano essere quantificati e quindi trasformati in valori calcolabili nell’ambito di una simulazione.

Ma gli scontri con le forze armate erano destinati a proseguire: dapprima per dirimere la “rivolta degli ammiragli”, ossia la reazione della Marina al progetto di LeMay di porre gli ordini atomici sotto la gestione del SAC e quindi dell’aviazione; poi per contrastare l’ambizione dell’Air Force di assumere il controllo diretto degli ordigni sottraendolo alla decisione di ultima istanza sul loro impiego che Truman intendeva riservare al potere civile, fidandosi poco dei vertici delle forze armate che considerava troppo imbevuti di anticomunismo; infine richiamando e destituendo il generale Douglas MacArthur dal comando supremo durante la guerra di Corea, a causa della sua inclinazione a estendere il conflitto alla Cina, sulla base della convinzione – sostenuta da LeMay – che si potesse far uso dell’arsenale nucleare per distruggere le principali città della Corea del Nord e costringere i cinesi a ripiegare.

Massive retaliation

L’irrazionalità di simili progetti fu confermata anche dalle prime simulazioni di guerra al computer. Nello specifico il piano di MacArthur in Corea del Nord fu passato al vaglio del SEAC (Standard Eastern Automatic Computer) in dotazione al governo a Washington: l’oracolo informatico concluse che le conseguenze per l’economia americana sarebbero state disastrose. Negli anni Cinquanta la fucina dei war games divenne la RAND Corporation, acronimo di Research ANd Development (“ricerca e sviluppo”), serbatoio intellettuale al servizio dell’Air Force e delle ambizioni di Curtis LeMay. Vi facevano parte fisici, ingegneri, sociologi, impegnati nello sforzo di rendere “razionale” e “calcolabile” le incertezze della loro epoca; o, per usare le parole di uno dei loro esperti più noti, Herman Kahn, di “pensare l’impensabile”. La guerra nucleare era ovviamente in cima all’elenco di incertezze da domare.

L’armamentario matematico per riuscirci spaziava dall’analisi dei sistemi alla teoria dei giochi fino a un’esotica applicazione di un metodo sviluppato per prevedere il comportamento stocastico delle particelle atomiche, chiamato Monte Carlo per richiamare l’aleatorietà delle roulette del casinò. Ben presto divenne chiaro che non tutti i gradi di incertezza di una guerra potevano essere quantificati e quindi trasformati in valori calcolabili nell’ambito di una simulazione. Alla meglio, osservò ironicamente LeMay, le simulazioni confermavano solo quanto egli già da tempo perorava: che servivano più bombardieri, più bombe, più soldi.

Altri studi giunsero a conclusioni diverse. Per esempio il progetto Vista condotto dal California Institute of Technology agli inizi degli Cinquanta, tra i cui esperti figurava anche Robert Oppenheimer, il “padre” della bomba atomica, suggeriva che fosse possibile sconfiggere le divisioni sovietiche in Europa usando armi nucleari tattiche sul campo, le cosiddette “armi di teatro”, anziché bombardare le città dell’URSS: si sarebbe in tal modo risparmiata la vita ai civili limitando danni e vittime. Il progetto Solarium voluto nell’estate del 1953 dal presidente Dwight Eisenhower, che riunì nel solario della Casa Bianca tre diversi team di consulenti esterni e ufficiali della Difesa per costruire strategie di reazione a un attacco sovietico, condusse il presidente a scartare l’idea di una guerra preventiva. Una stima della CIA richiesta da Eisenhower concludeva che una guerra nucleare avrebbe comportato un totale collasso economico, con due terzi degli americani bisognosi di cure mediche, anche in caso di vittoria. La sua conclusione riecheggiava quella di Truman: “L’unica cosa peggiore di perdere una guerra globale è vincerne una”.

Il generale LeMay non si diede per vinto e suggerì di cambiare strategia: anziché puntare alle città sovietiche, un attacco nucleare avrebbe dovuto prendere di mira gli arsenali nemici e le loro basi aeree e missilistiche, per impedire ogni possibile rappresaglia. Si trattava cioè di progettare un attacco di “controforza” (counter-force) al posto del tradizionale attacco “contro-risorse” (counter-value): ciò avrebbe reso l’eventualità di un attacco preventivo decisamente meno rischiosa, perché il nemico non sarebbe riuscito a lanciare il second strike, l’attacco di rappresaglia. Inoltre, usando una cinica finezza lessicale, si poteva sostenere che un simile attacco non fosse preventivo (preventive) ma pre-eventivo (pre-emptive), vale a dire teso a impedire un evento, in questo caso un first strike sovietico contro gli Stati Uniti: non appena lo Strategic Air Command fosse stato certo dell’imminenza di un attacco nucleare ai danni del territorio americano, sarebbe scattato il blitz controforze per annientare le forze d’attacco nucleare sovietiche prima ancora che si alzassero da terra.

La strategia, tuttavia, non mancava di difficoltà. Perché un attacco di controforza potesse funzionare, occorreva che tutti i bersagli militari nemici venissero distrutti. Se anche solo un bombardiere o un missile balistico fosse sopravvissuto abbastanza da raggiungere il territorio americano e colpire una grande città, le conseguenze sarebbero apparse alla popolazione civile inaccettabili. E tuttavia distruggere una base aerea o un silos missilistico è molto più complicato che distruggere una grande città densamente abitata: richiede enorme precisione e bombardamenti multipli per riuscire a distruggere i depositi spesso costruiti in profondità o al riparo sotto le montagne: si calcolò che per ciascuna base nemica occorressero 4-5 bombe atomiche, costringendo non solo ad aumentare significativamente l’arsenale americano, ma spingendo la corsa agli armamenti lungo una curva esponenziale, dal momento che per ogni nuovo missile costruito dal nemico sarebbe stato necessario costruire un numero di ordigni quattro o cinque volte maggiore. Come conseguenza, in appena cinque anni – tra il 1956 e il 1961 – l’arsenale nucleare americano passò da 4.618 bombe a ben 24.111.

A rendere politicamente credibile l’ipotesi di un impiego dell’arsenale nucleare americano fu il Segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles.

A rendere politicamente credibile l’ipotesi di un loro impiego fu il Segretario di Stato di Eisenhower, John Foster Dulles: pur consapevole quanto il suo presidente della necessità di usare l’atomica a scopo dissuasivo anziché operativo, vale a dire come deterrente, Dulles fu tra i primi a porsi il problema di come rendere tale deterrente credibile ed evitare che l’URSS lo prendesse per un bluff. Secondo la nuova concezione strategica americana definita “New Look” e presentata nel gennaio 1954 da Dulles in un discorso al Council on Foreign Relations di Washington, gli USA avrebbe dovuto “basarsi in primo luogo su una grande capacità di risposta immediata” contro ogni atto ostile da parte dell’URSS attraverso una rappresaglia massiccia (massive retaliation): ciò implicava che un attacco nucleare non si sarebbe verificato solo in caso di attacco diretto agli Stati Uniti, ma anche di fronte a episodi considerati inaccettabili come, per esempio, il tentativo dei sovietici di prendere Berlino. Si trattava di una strategia estremamente rischiosa, tipicamente definita di brinkmanship, ossia giocata sull’orlo del precipizio…

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Terrore in Donbass – Nicola Rangeloni

Nuovo sangue versato da innocenti continua a scorrere sull’asfalto del cuore di Donetsk, una città che oggi era in lutto per la scomparsa di Olga Kachura, meglio nota come “Korsa”, uno dei comandanti della milizia popolare.

Proprio a due passi dalla camera ardente allestita nel Teatro dell’opera, nel corso della cerimonia diversi colpi di artiglieria hanno colpito i pressi del teatro. Una donna è rimasta uccisa di fronte all’ingresso del Donbass Palace, l’albergo dove fino a pochi mesi fa alloggiava la missione ONU. Altri 4 civili sono rimasti uccisi sul boulevard Pushkin, fatti a pezzi da parte ai tavolini dei ristoranti. Non c’è via del centro in cui sui marciapiedi non ci siano macchie di sangue. Saranno 8 i morti in centro città e diversi i feriti gravi.

Per puro caso nel momento dell’esplosione del colpo che ha raggiunto l’albergo mi trovavo nel vicino sottopasso, a una ventina di metri. Sotto alla via Artyoma ho incontrato decine di persone che si nascondevano dalle bombe.

L’inferno continua.

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IL RAPPORTO AMNESTY E I TRE PORCELLINI – Fulvio Scaglione

Il rapporto di Amnesty International che ha fatto tanto infuriare i trinariciuti nostrani alla fin fine è un quasi banale esercizio di giornalismo, quel giornalismo che così tanto manca alla narrazione della guerra nata dall’invasione russa dell’Ucraina. A differenza di quanto sostiene il presidente Zelensky, nel Rapporto non c’è alcun tentativo di “spostare le responsabilità” né di mettere sullo stesso piano in contendenti. Nel Rapporto, per esempio, si parla esplicitamente dell’uso di bombe a grappolo (vietate dal diritto internazionale) da parte della Russia, ed è solo un esempio.

La vera colpa di questo Rapporto Amnesty è di graffiare l’immagine artificiale che i media occidentali hanno costruito di questa guerra, e che ha trovato la perfetta sintesi nel servizio di Vogue sui coniugi Zelensky: una guerra finta, patinata, dove il Paese aggredito, l’Ucraina, è popolato di eroi senza macchia e senza paura e il Paese aggressore, la Russia, di malfattori tanto vili quanto incapaci. Pensiamo alle cronache della guerra: per mesi ci è stato raccontato che l’esercito dell’Ucraina passava di vittoria in vittoria, fino al giorno in cui ci si è ritrovati con i russi in controllo del 20% del territorio ucraino. Idem con tutto il resto. Chi non ricorda “l’eroe” ucraino, il generale Zaluzhny, contrapposto al “macellaio” russo, il generale (poi vice ministro della Difesa) Dvornikov? L’eroe Zelensky con la maglietta da soldato contrapposto a Putin che molti, per settimane, hanno descritto malato e chiuso in un bunker?

E così via. La vera colpa del Rapporto di Amnesty è di rifiutare la trasformazione di una guerra in una favola, in una specie di tre porcellini e il lupo. Perché chi ha visto qualche guerra, come il sottoscritto che ha cominciato con la Cecenia nel 1994 e ha finito (forse) con la Siria degli anni scorsi, sa ciò che tutti coloro che hanno fatto queste esperienza sanno: sì, ci si nasconde dietro i civili, nella speranza che questo freni il nemico; sì, si spara anche dai centri abitati, da dietro i condomini, dai cortili, nella speranza di cogliere di sorpresa il nemico; sì, si spara al nemico anche sapendo che a essere colpiti potrebbero essere i civili dell’altra parte. Lo fanno tutti, in tutte le guerre. Perché il motto di chi combatte è: meglio loro di me. E non si vede proprio perché gli ucraini dovrebbero combattere in guanti bianchi di fronte a un avversario potente e senza guanti. Infatti non lo fanno per niente.

Purtroppo a pontificare qua e là sono soprattutto quelli che parlano delle guerre senza mai averne vista una. Se non fosse così, saprebbero non solo che cos’è successo a Grozny nel 1999 (ceceni asserragliati tra le abitazioni, russi a sparare a tappeto) o ad Aleppo nel 2016 (idem), ma anche ciò che successe a Fallujah nel 2004 (islamisti nascosti tra la popolazione, esercito Usa a usare anche il napalm) o a Raqqa nel 2017 (Stato islamico mischiato ai civili, bombe Usa che fecero migliaia di morti civili). È la guerra del nostro secolo, quella in cui muoiono molti più civili che militari. Poi, certo, i tre porcellini…

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Donbass – Artiglieria della milizia popolare puntata su New YorkVittorio  Rangeloni

Recentemente mi è capitato di visitare una delle posizioni dell’artiglieria della Milizia Popolare incaricata a coprire – e colpire – il settore di New York (comune non distante da Gorlovka), controllato dai militari ucraini. New York è un centro abitato fondato da una comunità di mennoniti (setta religiosa della chiesa anabattista) fuggiti dalla Germania e accolti da Caterina la Grande nelle terre della Novorossiya, nell’Impero Russo. Con l’arrivo dei bolscevichi questi questa comunità di predicatori della totale nonviolenza fu costretta ad abbandonare quella terra. Dopo qualche decennio, iniziata la Guerra Fredda quel paese venne rinominato in Novogorodskoe. Nel 2021 l’ex presidente ucraino Poroshenko in persona ha nuovamente inaugurato il cartello riportante l’originaria dicitura “New York”, come ai tempi degli zar.

La storia sta tornando sui propri passi non solo per quanto riguarda la toponomastica. Nei mesi precedenti su molti villaggi attorno a New è tornata a sventolare la bandiera russa. E proprio qui, tra i miliziani che combattono letteralmente a poche centinaia di metri dalle loro case – chi dal 2014, come il comandante “Zloy”, chi dal febbraio perché richiamato alle armi – ho trovato un altro fatto curioso: nel plotone degli artiglieri – nonostante la divisa militare a primo impatto tenda a far sembrare tutti uguali – un ragazzo magrolino si distingueva tra gli altri per via dei lineamenti insoliti da quelle parti. Si tratta di Hamza, un ragazzo finito in Donbass quasi per caso, appena un paio di mesi prima dell’inizio di questa nuova fase del conflitto. In russo fa ancora fatica a parlare del più e del meno, ma conosce tutti i termini tecnici legati al suo obice “d-20”. Mischiando russo, inglese e italiano in quale modo riesco a farmi capire.

“Solitamente buona parte dei tuoi connazionali puntano all’Italia, all’Europa…”

“Non mi piace né l’Unione europea, né gli Stati Uniti. E nemmeno Zelensky, il loro cane da guardia”, dice Hamza sorridendo.

Non é arrivato con lo scopo di combattere. Su internet ha conosciuto una ragazza e, dopo mesi di amicizia virtuale, ha raggiunto Gorlovka. Eppure ha confidato che quando è iniziata l’operazione militare speciale non è riuscito a rimanere in disparte, le bombe cadevano quasi tutti i giorni sul suo quartiere: “avevo due anni di esperienza nell’esercito del Marocco. Ho sentito che potevo dare una mano, ed eccomi qui”.

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Il dibattito sulla guerra in Ucraina fuori dall’Italia – Francesco Sylos Labini

Per capire come sia la discussione sulla guerra fuori dall’Italia è possibile ascoltare, ad esempio, un dibattito che si è tenuto poco tempo fa: si tratta di uno dei “Munk Debates”, una serie semestrale di dibattiti sulle principali questioni politiche che si tengono a Toronto in Canada. Sono gestiti dalla Fondazione Aurea, una fondazione di beneficenza fondata da Peter Munk, fondatore di Barrick Gold, e da sua moglie Melanie Munk.

Nel dibattito che si è tenuto il 13 maggio 2022, che ha avuto come argomento la guerra tra Russia e Ucraina, ed in particolare come risolvere la crisi in corso, hanno preso parte quattro importanti personaggi che hanno avuto una discussione sostenendo due “mozioni” contrapposte: da una parte Stephen Walt (politologo statunitense, docente di politica internazionale presso la John F. Kennedy School of Government dell’Università Harvard) e John Mearsheimer (politologo americano e studioso di relazioni internazionali, che appartiene alla scuola di pensiero realista ed è professore presso l’Università di Chicago; è stato descritto come il realista più influente della sua generazione) e dall’altra Michael McFaul (accademico e diplomatico americano; è stato ambasciatore degli Stati Uniti in Russia dal 2012 al 2014) e Radosław Sikorski (politico, giornalista e politologo polacco; è stato ministro degli Affari esteri dal 2007 al 2014).

Il dibattito si è svolto con una introduzione di 5 minuti iniziali per ogni relatore per illustrare la propria posizione, poi gli interventi continuano con un moderatore. Riporto quasi integralmente qui di seguito le quattro diverse posizioni iniziali così come era la scaletta degli interventi.

John Mearsheimer è il primo a parlare con la sua dichiarazione di apertura.

“Non stiamo parlando di chi ha iniziato e perché la crisi geopolitica: la questione è come porre fine a questa crisi. Il problema è trovare modo migliore per porre fine alla crisi geopolitica, è importante innanzitutto cominciare a riconoscere gli interessi della Russia. L’Ucraina è in procinto di essere distrutta, la guerra è iniziata solo 78 giorni fa e se continua si può solo immaginare cosa succederà all’Ucraina: già oltre 60 miliardi di dollari di danni sono stati inflitti, alcuni dicono che ci vorranno 600 miliardi di dollari per ricostruire il Paese; migliaia di persone sono state uccise, città sono state distrutte, 5 milioni di persone hanno lasciato il Paese, 6 milioni di persone sono sfollate internamente, 13 milioni di persone vivono in zone di combattimento: per il bene del popolo ucraino è essenziale porre fine a tutto questo. Inoltre, corriamo il rischio che questa guerra, che ora è tra l’Ucraina e la Russia, si trasformi in una guerra tra l’Ucraina e gli Stati Uniti, in una guerra tra grandi potenze: la minaccia di una guerra nucleare è sul tavolo.

Se ascoltate il generale Austin, che era il segretario alla difesa, parla fondamentalmente di mettere la Russia fuori dai ranghi delle grandi potenze: questo è un altro modo per dire che stiamo presentando alla Russia una minaccia esistenziale. Ora questo significa che useranno le armi nucleari? Nessuno può dirlo con certezza, ma c’è una seria possibilità. Avril Haynes, direttore dell’intelligence nazionale, ha detto martedì, in occasione della sua audizione a Capitol Hill, che uno dei due scenari in cui la Russia userà le armi nucleari è se verrà sconfitta in Ucraina. Quindi abbiamo un paradosso molto perverso: il paradosso è che quanto meglio gli Stati Uniti si comportano sul campo di battaglia con gli ucraini che combattono e più è probabile che la Russia ricorra alle armi nucleari e che si finisca in una guerra termonucleare generale.

Per assicurarci che questo non accada bisogna considerare gli interessi della Russia. Questo non significa che non consideriamo gli interessi dell’Ucraina, gli interessi degli Stati Uniti e gli interessi della NATO. Ovviamente teniamo conto dei loro interessi, ma il motivo per cui iniziamo con i russi è molto semplice: sono stati loro a iniziare la guerra. Hanno iniziato la guerra e quello che dobbiamo fare è capire quali sono i loro interessi perché se non sappiamo quali sono i loro interessi non c’è modo di chiudere la questione; quindi, iniziamo con gli interessi della Russia.

Ora la domanda è: quali sono gli interessi della Russia? Sono sicuro che tutti voi avete sentito fino alla nausea che Vladimir Putin è responsabile di questa guerra, che è un imperialista che sta cercando di creare una Russia più grande o sta cercando di ricreare l’Unione Sovietica e quello che sta succedendo è che l’Ucraina è un paese che egli vuole conquistare e incorporare nella Russia. Non c’è assolutamente alcuna prova a sostegno di questa tesi, non ci sono prove che lui pensi che sia auspicabile, non ci sono prove che lui pensi che sia fattibile e non c’è nessuna prova nei discorsi pubblici che abbia mai detto che questo è ciò che intende fare.

Il punto sono gli sforzi dell’occidente per trasformare l’Ucraina in un baluardo occidentale al confine con la Russia con una strategia su tre fronti: portare l’Ucraina nell’UE, trasformando l’Ucraina in una democrazia liberale filoccidentale e, terzo e più importante punto, facendo entrare l’Ucraina nella NATO. Se si ascoltano i discorsi di Putin e si leggono i suoi scritti, egli ha reso inequivocabilmente chiaro che questo è il problema principale dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato e ciò che deve essere fatto per risolvere questo problema è che l’Ucraina deve diventare un Paese neutrale. L’Ucraina non può diventare un baluardo occidentale ai confini della Russia. Può non piacervi questo risultato e lo capisco perfettamente, ma se siete interessati a impedire che l’Ucraina venga completamente distrutta e siete interessati ad evitare una guerra nucleare, dovreste essere a favore della mia posizione”…

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L’assalto delle multinazionali ai fertili terreni agricoli dell’Ucraina e al porto di Odessa comprato dagli americani – Massimo A. Alberizzi

Un anno fa il terminal sul Mar Nero è stato acquistato dall’americana Cargill, la società a conduzione familiare più grande del mondo

Ma di chi è il grano prodotto dell’Ucraina e bloccato nei silos senza possibilità di essere esportato, in Africa soprattutto? Un rapporto della Oakland Institut, anche se un po’ datato (è del 2014), spiega come alcune le imprese agroalimentari transnazionali stavano investendo sempre di più in Ucraina e come stavano prendendo il controllo di tutti gli aspetti del sistema agricolo ucraino. Tra le altre le americane Monsanto, Cargill e Du Pont.

Le imprese, sostiene il rapporto, sono riuscite ad aggirare i divieti sulle compravendite dei terreni e le norme che regolano l’investimento in strutture per la produzione di sementi, l’acquisizione di impianti per la lavorazione e il trasporto delle materie prime.

Ma non solo. Alla domanda, a chi appartiene il terminal del porto di Odessa rispondono le notizie di economia e finanza facilmente reperibili anche online.

Il 16 luglio 2021, cioè esattamente un anno fa, una delle società interessate all’acquisto dei terreni agricoli ucraini, la Cargill (società a conduzione miliare più grande del mondo, con sede in Minnesota e non quotata in borsa), è diventata proprietaria del 51 per cento della joint venture Neptune, possessore del terminal più profondo del Mar Nero.

Lo scalo portuale nelle acque di Odessa è utilizzato dagli agricoltori ucraini come punto di partenza altamente competitivo sui mercati cerealicoli mondiali. E, secondo i programmi, avrebbe consentito di incrementare ulteriormente la produzione di grano e mais.

La guerra del grano

La guerra del grano è un tassello che nessuno ha ancora analizzato nella giusta dimensione e piazzato al posto corretto nel mosaico del conflitto tra Stati Uniti e Russia in corso in piena Europa.

Un tassello che mostra come sia semplicistica e superficiale la narrazione di una guerra descritta come uno scontro tra aggrediti (gli ucraini) e aggressori (i russi).

La guerra del grano viene liquidata con la battuta: “Bastardi i russi che affamano mezzo mondo bloccando l’esportazione dei cereali”. Oppure: “L’africa muore di fame perché i russi impediscono agli ucraini di inviare a chi ne ha bisogno il proprio grano”.

La geopolitica è così. E’ una composizione di diversi elementi, ciascuno dei quali riveste un’importanza sia particolare, sia generale. Come le previsioni del tempo alcune variabili compaiono improvvisamente e scombussolano tutte le analisi e i pronostici validi fino a un attimo prima.

Forse è proprio analizzando gli interessi agricoli che si possono trovare alcune delle motivazioni che hanno portato alla guerra.

L’interesse delle grandi imprese agroalimentari per i terreni agricoli ucraini non sorprende. Il Paese è da secoli conosciuto come il “granaio d’Europa” e ospita oltre 32 milioni di ettari di terreni incredibilmente fertili (e coltivabili), noti come black soil, cioè “terra nera” (il termine tecnico è chernozem). Ovviamente la collettivizzazione sovietica non ha permesso uno sviluppo adeguato e uno sfruttamento intensivo delle risorse disponibili.

Sicurezza alimentare

Il direttore regionale della Du Pont Europa, Jeff Rowe, all’epoca aveva infatti dichiarato: “L’agricoltura Ucraina è in rapidissima crescita mondiale ed è diventata un attore importante della sicurezza alimentare globale”. Ovvio che le multinazionali dell’agricoltura abbiano preso al volo una buona opportunità di business.

L’Oakland Institut nel suo rapporto del 2014, pubblica anche una scheda piuttosto significativa che illustra dettagliatamente la portata degli investimenti agroalimentari su larga scala in Ucraina dal 2010, da parte di società multinazionali.

I dati non sono recentissimi; risalgono a poco meno di dieci anni fa, ma si può vedere come già allora gli interessi agricoli verso l’Ucraina fossero rilevanti. Alcune di queste società non esistono più, come la Mriya Agro Holding Public Limited, che peraltro a Cipro aveva solo la sede legale, mentre altre come la Kernel Holding spa, lussemburghese, sono sussidiarie di altre compagnie: la Kernel in realtà appartiene alla Kopernik Global Investors, con sede a Tampa in Florida.

Si noti la presenza del fondo sovrano dell’Arabia Saudita lo strumento di investimento pubblico statale più ricco e importante del mondo.

Una storia a sé meriterebbe la Glencore Xstrata che il 2 maggio 2013 era stata interamente acquisita dalla Glencore, la chiacchierata società gigante delle commodities, fondata nel 1974 da Marc Rich con sede a Baar, nel cantone di Zug, in Svizzera, assai vantaggioso perché quasi esentasse.

Graziato da Clinton

Marc Rich era un commerciante internazionale di materie prime, gestore di fondi speculativi, finanziere e presunto criminale finanziario.

Era soprannominato “il fuggitivo più famoso del mondo”. Incriminato negli Stati Uniti con l’accusa federale di evasione fiscale per 48 milioni di dollari, frode telematica, racket e accordi petroliferi con l’Iran durante la crisi degli ostaggi iraniani, insomma più o meno 60 capi d’accusa, rischiava 300 anni di carcere. Per evitare di finire in cella, era quindi riparato in Svizzera.

Il 20 gennaio 2001, il giorno della scadenza del suo mandato presidenziale, Bill Clinton gli ha concesso la grazia, criticata da molte parti. Poco dopo venne rivelato che Rich, attraverso la sua ex moglie Denise, aveva finanziato il Partito Democratico e la fondazione che porta il none dell’ex presidente.

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Interessi economici e terreni in mano alle multinazionali: a chi giova la guerra in Ucraina? – Massimo A. Alberizzi

Le società agroalimentari interessate alle coltivazioni OGM, permesse nel Paese ex sovietico e vietate in Europa. Il land grabbing pratica neocolonialista in Africa, ammessa in Ucraina. La guerra mostra due facce della stessa medaglia: da una parte le democrazie occidentali difettose e goffe che difendono interessi particolari, dall’altra il regime russo autoritario e repressivo che pratica soprusi e violenze devastanti. La domanda da porsi non è chi ha scatenato il conflitto, ma a chi giova

Esaminando gli investimenti in terreni, fattori di produzione agricoli e prodotti di base, si scopre come tutti gli aspetti del sistema alimentare ucraino e della catena di approvvigionamento siano in mano straniere.

L’Ucraina è un Paese povero, forse il più povero di tutta Europa. La sua agricoltura invece è la più ricca di tutto il continente. Dei suoi 60 milioni di ettari di superficie, il 55 per cento è classificato come terreno coltivabile, la percentuale più alta in Europa. La sua “terra nera” è stata definita “leggendaria”.

Una delle questioni più controverse dall’inizio del processo di riforma agraria, cominciata dopo la caduta dell’impero sovietico nel 1992, è la moratoria stabilita sulla vendita di terreni.

In vigore da poco meno di vent’anni, è stata pensata per impedire che la proprietà della terra passasse sotto il controllo di poche mani. In realtà è accaduto esattamente il contrario.

Aggirare la legge

All’inizio della riorganizzazione, milioni di ucraini che vivevano nei villaggi rurali hanno ricevuto piccoli appezzamenti di terreno (in media quattro ettari) che in precedenza, durante il periodo sovietico, erano di proprietà statale o comunque pubblica.

Ma gli investitori, soprattutto stranieri, si sono resi conto che avrebbero potuto aggirare il divieto di vendita della terra stipulando contratti di affitto.

Così i piccoli proprietari, senza capitali né organizzazioni cooperativistiche comuni che permettessero loro coltivare autonomamente, sono stati costretti ad affittare la loro terra per cifre irrisorie.

In questo modo migliaia di questi appezzamenti si sono gradualmente concentrati, passando sotto il controllo di grandi aziende agricole.

Peraltro il 31 marzo 2020 il parlamento ucraino ha eliminato del tutto il divieto di compravendita dei terreni. Il land grabbing è quindi diventato a questo punto possibile e legale.

Sul porto di Odessa, la cui proprietà come abbiamo sottolineato appartiene alla americana Cargill, la società Sintal Agricolture, formalmente cipriota, indicata nella tabella pubblicata nell’articolo precedente come uno degli investitori stranieri in Ucraina, scrive nel suo sito piuttosto scarno: “Riforniamo numerosi clienti in cinque continenti”.

“Grazie al porto di Odessa come punto d’accesso al mondo – c’è ancora scritto – assicuriamo percorsi di acquisto più rapidi, agevolati dal know-how assai valido del nostro reparto spedizioni”.

Altre società presenti in quella lista lasciano perplessi e stupefatti. La francese Agro Generation nel suo sito web si vanta di condurre “operazioni in modo socialmente responsabile, applicando tecnologie agronomiche avanzate ed economie di scala per creare un’industria agroalimentare sostenibile e redditizia con un approccio globale alla produzione di beni agricoli”.

Gioco d’azzardo

Sul suo sito inoltre c’è scritto: “In un’epoca di opportunità derivanti dalla crisi alimentare globale, Agro Generation opera su alcuni dei migliori terreni del mondo in Ucraina, un Paese che è già uno dei principali esportatori di cereali e che aumenterà la sua produzione di diverse volte”.

Si resta però sconcertati (e anche un po’ stupefatti) quando in basso sulla home page del sito della società, vengono indicati i partner d’affari. Oltre alla già citata la Glancore e alla molto conosciuta Kernel (che fa parte, dopo vari incastri societari, di un enorme gruppo agroalimentare trasnazionale basato a Singapore), c’è anche un sito di gioco d’azzardo online, Vip Casino.

Che ci fa un partner di questo genere, che imbonisce i clienti per indurli a giocare sul web, accanto a una società che si vanta di operare “in modo socialmente responsabile”, non è chiaro. Il sito casinos.net, inoltre è registrato in Ucraina, ma le sue scritte in cirillico sono in lingua russa. Quindi ci si aspetta che sia rivolto a una clientela russa.

Rapporto della FAO

Anche la FAO nei suoi rapporti considera l’Ucraina un Paese dal notevole potenziale agricolo e Christina Plank, nello studio “Land Grabs in the Black Earth: Ukrainian Oligarchs and International Investors” edito nel 2013 dal Transnational Institute (un think tank internazionale di ricerca e difesa senza fini di lucro fondato nel 1974 ad Amsterdam), scrive che quei 32 milioni di ettari di terreni fertili equivalgono a un terzo dell’intera superficie coltivabile dell’Unione Europea.

Non solo. Poi fornisce qualche dato sull’importanza che riveste l’agricoltura nell’economia del Paese: rappresenta l’8 per cento del prodotto interno lordo e dà lavoro al 17 per cento della popolazione attiva. L’Ucraina è il terzo esportatore di mais e il quinto esportatore di grano al mondo.

Nel 2014, quando è stato pubblicato lo studio dell’Oakland Institute, i terreni agricoli ucraini erano soggetti a un blocco commerciale che ne vietava la vendita fino al 1° gennaio 2016.

Nonostante questa moratoria, come scrivono Jettie Word, Alice Martin-Prevel e Frederic Mousseau nel rapporto “Walking on the West Side: The World Bank and the IMF in the Ukraine Conflict”, almeno 1,6 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono passati in mani straniere. Secondo altri rapporti, solo 10 grandi aziende agroalimentari controllano ben 2,8 milioni di ettari.

Ma sono le conclusioni del rapporto dell’Oakland a inquietare maggiormente. Il 9 ottobre 2014, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) ha annunciato di avere dieci aziende agricole private che nell’ambito di un piano d’azione per il settore appena creato, sono disposte a investire nel 2015 un miliardo di dollari nell’agricoltura ucraina.

Investiamo sì, ma cambiate la legge

Il comunicato stampa della BERS che conteneva l’annuncio, aveva sottolineato che questi investimenti avrebbero richiesto diverse modifiche alla normativa in materia di tasse, leggi sull’importazione e sull’esportazione e vendita di terreni, liberalizzando il più possibile il settore.

Molti altri investitori avevano già richiesto alle autorità ucraine modifiche in questo senso. Nel gennaio 2014 si era già tenuto un incontro tra funzionari ucraini e rappresentanti di venti grandi aziende agroalimentari tedesche. Investiamo sì, ma cambiate la legge in nostro favore.

Via libera agli OGM

Secondo notizie pubblicate da agenzie di stampa dell’epoca, si era parlato della necessità “di semplificare le attività commerciali nel Paese” facendo “saltare la moratoria sulla vendita dei terreni”. Altro punto controverso era la richiesta di permettere coltivazioni OGM, anche autorizzando procedure vietate dall’Unione Europea.

Ma già nel 2007 l’ambasciata americana a Kiev aveva chiesto al governo ucraino di prendere provvedimenti contro i venditori di semi “falsi” (con questo indicando le sementi non transgeniche).

Per altro successivamente nel giugno 2011 l’amministratore delegato di Cargill, Greg Page, aveva candidamente dichiarato che l’Ucraina è un “ottimo posto per far crescere più cibo nel mondo. Ma tutti i doni che la natura ci offre possono essere vanificati da politiche sbagliate”. La Cargill è potentissima ed è una delle aziende leader mondiali nella produzione di Organismi Geneticamente Modificati.

Il sito Il Salvagente, che si occupa di truffe ai consumatori, riporta che nel 2019 l’ex deputato americano Henry Waxman ha definito la Cargill la “peggior azienda del mondo” tra l’altro per la sua “ripetuta insistenza nel ostacolare il progresso globale sulla sostenibilità”.

Liberismo sfrenato

Inoltre la BERS e altre istituzioni finanziarie internazionali spinte da un forsennato liberismo economico fratello della globalizzazione senza freni, per far digerire investimenti a gogo avevano sostenuto che le modifiche normative e le agevolazioni fiscali per le imprese agroalimentari avrebbero migliorato il tenore di vita della popolazione perché sarebbero aumentati gli investimenti stimolando nel contempo la crescita economica.

Tuttavia, non è stato mai chiarito come gli investimenti stranieri avrebbero avuto ricadute positive sulla crescita economica, glissando, almeno in parte, sugli interessi che invece avrebbero mosso le grandi imprese agroalimentari.

Lobby già al lavoro

Le colture OGM sono state introdotte legalmente sul mercato ucraino nel 2013 e secondo varie stime sono state piantate fino al 70 per cento di tutti i campi di soia, al 10-20 per cento dei campi di mais e a oltre il 10 per cento di tutti i campi di girasole.

Ciò equivale a circa un milione di ettari coltivati a OGM (ovvero il 3 per cento).

L’ingresso dell’Ucraina nella UE rischia di avere un impatto rovinoso se i negoziati per l’adesione non saranno improntati a una tutela delle norme che regolano l’agricoltura dell’Unione. Ad Africa ExPress risulta che multinazionali del settore stiano da tempo esercitando forti pressioni per allargare le maglie degli attuali divieti. Le lobby, insomma, sono in azione.

Due facce della stessa medaglia

Ecco così che si manifestano con chiarezza due facce della stessa medaglia: da una parte le democrazie occidentali difettose (in alcuni momenti molto difettose e addirittura mostruosamente goffe) che si muovono per difendere interessi particolari, dall’altra regimi autoritari e repressivi come quello russo di Putin, che praticano soprusi e violenze con conseguenze devastanti. In mezzo, intrappolate tra due fuochi, le popolazioni civili, sudditi inconsapevoli di una guerra che si combatte sulla loro testa.

In Africa il land grabbing ha avuto conseguenze devastanti sull’economia delle campagne e dei villaggi. Si calcola che negli ultimi anni nei Paesi in via di sviluppo, 227 milioni di ettari, una superficie grande quanto l’Europa Occidentale, sia stata data in concessione a società straniere, cinesi e indiane soprattutto, ma anche coreane o europee. Su queste espropriazioni  di fatto sono stati scritti fiumi di inchiostro.

Land grabbing sistema neocolonialista

Il land grabbing è stato definito un sistema neocolonialista studiato per impadronirsi pacificamente (almeno apparentemente) delle risorse di un Paese. Già, ma queste analisi, spesso impietose, si riferiscono all’Africa, un continente comunque lontano, dove questa pirata è cominciata.

Laggiù i beneficiari non sono – tranne in pochi casi – società occidentali. Certo è bene sapere l’Oakland Institute è politicamente orientato e lotta contro lo sfruttamento dei territori nei Paesi in difficoltà, ovunque nel mondo, ma soprattutto in Africa.

Ma le osservazioni contenute nella sua ricerca, tra l’altro pubblicata molto prima dell’attuale conflitto, sono interessanti e degne di considerazione. Se in Africa il land grabbing è considerato uno strumento politicamente e socialmente deplorevole per i danni che provoca alle popolazioni locali, impoverendole, e perché favorisce i grandi gruppi industriali, per quale regione la stessa pratica invece passa inosservata quando è utilizzata in Ucraina?

Argomento di riflessione

Forse sarebbe bene che la politica delle multinazionali agroalimentari diventasse un argomento di riflessione, soprattutto per chi erroneamente crede ancora che la geopolitica della guerra si descriva con la semplice equazione aggressori/aggrediti. Non è così. Le sfumature degli interessi in gioco sono essenziali e vanno capite, osservate e studiate.

Le guerre non vengono scatenate per ottemperare a qualche romantico ideale, ma, molto più materialmente, per difendere affari e prebende. O per impadronirsi di risorse e profitti di altri. Le sfaccettature di una guerra sono spesso inconfessabili.

Anche la semplice osservazione che a scatenare il conflitto sia stata la Russia è assolutamente semplice e naïf. E’ vero che i cari armati russi il 24 febbraio sono entrati in Ucraina, ma la guerra si può provocare in vari modi. Occorre scomodare la storia per spiegare perché Cartagine attaccò Roma? Fu una guerra per l’egemonia nel Mediterraneo. E così, per prevenire le ambizioni romane i cartaginesi attaccarono.

La domanda giusta da porsi non è chi ha scatenato la guerra (cui è facile rispondere con disarmante semplicità, “la Russia”), ma a chi giova questa guerra. Rispondendo a questa questione si riescono a chiarire responsabilità, cause ed origini e affinare i giudizi ora troppo spesso improvvisati e abborracciati.

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UN APPELLO AI CANDITATI DEL 25 SETTEMBRE – Raniero La Valle

NOI  ELETTORI, SOVRANI E SOVRANE, SENSIBILI  AI PRINCIPI  COSTITUZIONALI  E  AGLI  IDEALI  PERSEGUITI DA “COSTITUENTE TERRA”, “ LAUDATO S Ì”, “ CHIESADITUTTICHIESADEIPOVERI”,  “RETE PACE E DISARMO”,  “SBILANCIAMOCI”,“NOI SIAMO CHIESA”, “FONDAZIONE BASSO ISSOCO”,” CENTRO DI RICERCA PER  LA PACE DI VITERBO”,  “FONDAZIONE INTERNAZIONALE  PER  IL DIRITTO E LA LIBERAZIONE DEI POPOLI””,  “COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE”, “ PAX CHRISTI”,” CENACOLO IN ASCOLTO  DI  PAPA FRANCESCO”,”COMITATI  DOSSETTI E  PER LA COSTITUZIONE”, “ACI”  E DA ALTRE ASSOCIAZIONI ANALOGAMENTE ISPIRATE,

RIVOLGIAMO  AI CANDIDATI DI TUTTE LE LISTE  ALLE  ELEZIONI  DEL 25 SETTEMBRE 2022 UN FERVIDO APPELLO IN FAVORE DELLA PACE.

LO FACCIAMO SPINTI DALL’URGENZA DI USCIRE  DA UNA GUERRA INCONTROLLATA  E  FATTA SPETTACOLO, MEMORI DELLE TRAGEDIE PASSATE, COMUNICANDO NEL DOLORE DELLE VITTIME, DEI  NAUFRAGHI,  DEI  PROFUGHI, DELLE DONNE UMILIATE E OFFESE, CONFIDANDO NELL’ASCOLTO DI QUELLI CHE SARANNO I NOSTRI RAPPRESENTANTI.

La guerra, maturata nella sfida e nei sospetti reciproci, cominciata sciaguratamente come guerra tra la Russia e l’Ucraina, divenuta inopinatamente guerra tra la NATO e la Russia, pronosticata come guerra tra l’Occidente e la Cina  e incombente come guerra mondiale, non si fermerà da sola e senza una straordinaria iniziativa politica che la intercetti precipiterà verso un esito infausto per l’umanità tutta. Questa Iniziativa politica resiliente però  sarebbe vana se limitata a sospendere  la guerra in atto e non invece a estromettere la guerra dal diritto e da ogni eventualità futura.

Chiunque può prendere questa iniziativa. Sappiamo dalla storia che la salvezza può venire dal forte come dal debole, da più Stati insieme ma anche da un solo Paese, dal concorso di molti ma anche dal personale operato di  una sola o di un solo.

Noi pensiamo che possa essere l’Italia a prendere questa iniziativa e che la grande opportunità offerta da queste elezioni possa  far  sì che a condurla siano il prossimo governo e il prossimo Parlamento.

La richiesta ai candidati al prossimo Parlamento è pertanto di impegnarsi con gli  elettori  a far sì che l’Italia, governo e popolo, promuova un generale ripudio della guerra quale scritto nella sua Costituzione e già fatto proprio dalla Carta dell’ONU. Questa iniziativa politica dovrebbe prendere la forma della proposta alle altre Parti contraenti dei Trattati europei e dello Statuto delle Nazioni Unite di un Protocollo sul ripudio  della guerra e la difesa dell’integrità della Terra. (Quarantatre, compresi  quelli soppressi, sono i Protocolli già allegati ai Trattati europei, da quello sul ruolo dei Parlamenti nazionali a quello sui privilegi dell’Unione Europea).

IL PROTOCOLLO SUL RIPUDIO DELLA GUERRA

Il Protocollo sul Ripudio Sovrano della Guerra da discutere in Parlamento dovrebbe avere i seguenti contenuti.

Le Alte Parti Contraenti hanno convenuto le Disposizioni seguenti, che vengono allegate al Trattato che istituisce l’Unione Europea e allo  Statuto delle Nazioni Unite

La guerra è ripudiata in tutte le sue forme, comprese le sanzioni indiscriminate e ogni altra modalità di genocidio,  a cominciare dalla definitiva abolizione e interdizione delle armi nucleari e delle altre armi di distruzione di massa, biologiche, chimiche, radiologiche, come delle mine antiuomo.

Un nuovo  sistema di sicurezza collettivo, garantito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adempierà alle funzioni di mutuo aiuto e di difesa  già esercitate dalle alleanze militari di parte e comporterà una  riduzione graduale e condivisa delle spese militari nonché della fabbricazione e del commercio di tutti gli armamenti.

Dovere di tutti i popoli e Stati è la difesa della Terra, patria e madre di tutti. Compito e obiettivo comune è arginare un uso delle risorse lesivo dell’ambiente naturale, ripristinare l’equilibrio ecologico e salvaguardare le specie viventi.

La coesistenza fraterna  degli Stati in ogni circostanza, favorevole o avversa, la rinunzia a modificarne con la forza i confini, la liberazione e il riconoscimento del diritto e dell’autodeterminazione dei popoli sono norma comune e bene fondamentale dell’intera Comunità della Terra.

A partire dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, dalle culture e valori dei popoli e dalle esperienze di convivenza pacifica già in atto nella famiglia umana assumiamo l’impegno di predisporre con un’ampia consultazione e promulgare  una Costituzione della Terra che garantisca giusti ordinamenti,  la dignità del lavoro e il godimento universale dei diritti e dei beni fondamentali a tutti  gli uomini e le donne del Pianeta  nessuno escluso.

Nel chiedere questo impegno legislativo e politico ai nostri futuri rappresentanti in Parlamento noi sappiamo che il ripudio della guerra  nella sua piena effettività comporta il rovesciamento di una cultura millenaria e il passaggio a un nuovo corso storico che è compito della politica assecondare e governare. Le candidate e i candidati che condivideranno e manterranno l’ impegno che qui viene loro richiesto sj segnaleranno in tal modo agli elettori per affidabilità e lungimiranza.

Seguono le prime firme…

Chi intende aderire a questo documento può aggiungere la sua firma scrivendo all’indirizzo mail: ripudiosovrano@gmail.com

https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/un-protocollo-sul-ripudio-della-guerra/

 

 

UNA COALIZIONE CONTRO LA GUERRA. UNA PROPOSTA SULL’ORLO DEL BARATRO – Annibale Scarpante

Una premessa necessaria
Per il rinnovo del Parlamento si vota il 25 settembre. Le scadenze per gli adempimenti per poter partecipare alle elezioni sono le seguenti: il 12-14 agosto occorre presentare i simboli delle liste elettorali; il 21-22 agosto le liste complete.
Per chi non usufruisce dell’esonero, c’e’ anche l’incombenza della raccolta delle firme: un impegno assai faticoso da adempiere in una manciata di giorni intorno a ferragosto.
Credo che ogni persona ragionevole percepisca il pericolo della vittoria elettorale della destra neofascista, razzista, schiavista, riarmista, bellicista, corrotta e corruttrice, barbara e folle.
Credo che ogni persona ragionevole si renda conto del rischio che le guerre in corso diano luogo a una guerra mondiale, quindi nucleare, che puo’ distruggere l’intera umanita’.
Cio’ che occorre: una coalizione contro la guerra
La cosa che in questo momento mi sembra piu’ necessaria e’ una coalizione contro la guerra.
Una coalizione contro la guerra che si presenti alle elezioni con un simbolo che rechi soltanto queste poche, semplici, chiare parole: “coalizione contro la guerra”.
Un appello a quel che resta dell’Italia civile
Credo che tutte le forze che restano dell’Italia civile – femminista ed ecologista, socialista e libertaria, pacifista e solidale, antirazzista ed antimafia, in una parola: nonviolenta – dovrebbero unirsi in questa coalizione, come fosse un nuovo Cln, il Cln dell’umanita’.
Credo che tutte le organizzazioni, le associazioni, i movimenti, le personalita’ che condividono il cruccio di questo tragico momento dell’umanita’ dovrebbero mettersi a disposizione di questo impegno comune.
Quali candidate e candidati
Credo che le liste della “coalizione contro la guerra” dovrebbero candidare solo persone anziane che abbiano alle spalle mezzo secolo d’impegno nitido e intransigente per il bene comune.
Persone che abbiano gia’ costantemente dato buona prova di se’, persone che non si sono mai arrese alla corruzione e alla barbarie, persone che sarebbero eccellenti legislatrici.
Il tempo e’ poco
Il tempo evidentemente e’ poco, anzi pochissimo. E sarebbe necessario che qualche organizzazione diffusamente presente sul territorio italiano si facesse promotrice e coordinatrice di questa proposta.
So che scrivere queste righe in questo momento puo’ suonare irrealistico e finanche grottesco.
Ma queste parole andavano pur dette, questo appello andava pur formulato. Che possa non cadere nel vuoto.

Come un missile a Kabul si collega a uno Speaker a Taipei – Pepe Escobar

The Cradle

Questo è il modo in cui la “Global War on Terror” (GWOT) finisce, ancora e ancora: non con un botto, ma un piagnisteo.

Due missili Hellfire R9-X lanciati da un drone MQ9 Reaper sul balcone di una casa a Kabul. L’obiettivo era Ayman Al-Zawahiri con una taglia di 25 milioni di dollari sulla testa. Il leader invisibile della “storica” ??Al-Qaeda dal 2011 è stato finalmente licenziato.

Tutti noi che abbiamo trascorso anni della nostra vita, specialmente negli anni 2000, scrivendo e rintracciando Al-Zawahiri, sappiamo come le “intelligenze” americane hanno giocato ogni trucco nel libro – e al di fuori del libro – per trovarlo. Ebbene, non si è mai esposto sul balcone di una casa, tanto meno a Kabul.

Un’altra risorsa usa e getta

Perché ora? Semplice. Non è più utile – e molto oltre la sua data di scadenza. Il suo destino è stato segnato come una “vittoria” di politica estera pacchiana – il remixato “Osama bin Laden moment” di Obama che non si registrerà nemmeno nella maggior parte del Sud del mondo. Dopotutto, regna la percezione che il GWOT di George W. Bush sia da tempo metastatizzato nell’ordine internazionale “basato su regole”, in realtà “basato su sanzioni economiche”.

Ritorno a 48 ore dopo, quando centinaia di migliaia di persone in tutto l’occidente sono state incollate allo schermo di flighradar24.com (fino a quando il sito Web non è stato violato), rintracciando “SPAR19” – il jet dell’aeronautica americana che trasportava la presidente della Camera Nancy Pelosi – mentre attraversava lentamente Il Kalimantan da est a ovest, il Mare di Celebes, è andato verso nord parallelamente alle Filippine orientali, e poi ha fatto una brusca oscillazione verso ovest verso Taiwan, in uno spettacolare spreco di carburante per aerei per eludere il Mar Cinese Meridionale.

Nessun “momento Pearl Harbor”

Ora confrontalo con centinaia di milioni di cinesi che non sono su Twitter ma su Weibo e una leadership a Pechino che è impermeabile all’isteria prebellica e postmoderna manifatturiera occidentale.

Chiunque comprenda la cultura cinese sapeva che non ci sarebbe mai stato un momento di “missile su un balcone di Kabul” nello spazio aereo taiwanese. Non ci sarebbe mai stato un replay del perenne sogno bagnato dei neocon: un “momento Pearl Harbor”. Questo semplicemente non è il modo cinese.

Il giorno dopo, quando l’oratore narcisista, così orgoglioso di aver portato a termine la sua acrobazia, è stato insignito dell’Ordine delle nuvole di buon auspicio per la sua promozione delle relazioni bilaterali USA-Taiwan, il ministro degli Esteri cinese ha rilasciato un commento che fa riflettere: la riunificazione di Taiwan con la terraferma è un’inevitabilità storica.

È così che ti concentri, strategicamente, nel gioco lungo.

Quello che succede dopo era già stato telegrafato, in qualche modo nascosto in un artciolo del Global Times. Ecco i due punti chiave:

Punto 1: “La Cina la vedrà come un’azione provocatoria consentita dall’amministrazione Biden piuttosto che una decisione personale presa da Pelosi”.

Questo è esattamente ciò che il presidente Xi Jinping aveva detto personalmente all’inquilino della Casa Bianca che leggeva il gobbo durante una telefonata tesa la scorsa settimana. E questo riguarda l’ultima linea rossa.

Xi sta ora raggiungendo la stessa identica conclusione raggiunta dal presidente russo Vladimir Putin all’inizio di quest’anno: gli Stati Uniti sono “non in grado di accettare accordi” e non ha senso aspettarsi che rispettino la diplomazia e/o lo stato di diritto nelle relazioni internazionali.

Il punto 2 riguarda le conseguenze, riflettendo un consenso tra i massimi analisti cinesi che rispecchia il consenso del Politburo: “La crisi Russia-Ucraina ha appena fatto vedere al mondo le conseguenze di mettere una grande potenza in un angolo… La Cina accelererà costantemente il suo processo di riunificazione e dichiarare la fine del dominio statunitense sull’ordine mondiale”.

Scacchi, non dama

La matrice sinofobica ha prevedibilmente respinto la reazione di Xi al fatto sul campo – e nei cieli – a Taiwan, completa di retorica che denunciava la “provocazione dei reazionari americani” e la “campagna incivile degli imperialisti”.

Questo può essere visto come Xi nel ruolo del presidente Mao. Può avere ragione, ma la retorica è pro forma. Il fatto cruciale è che Xi è stato personalmente umiliato da Washington, così come il Partito Comunista Cinese (PCC), una grave perdita di faccia – qualcosa che nella cultura cinese è imperdonabile. E tutto ciò si è unito a una vittoria tattica degli Stati Uniti.

Quindi la risposta sarà inevitabile, e sarà il classico Sun Tzu: calcolato, preciso, duro, a lungo termine e strategico, non tattico. Ciò richiede tempo perché Pechino non è ancora pronta in una serie di domini prevalentemente tecnologici. Putin ha dovuto aspettare anni perché la Russia agisse con decisione. Arriverà il momento della Cina.

Per ora, quello che è chiaro è che, così come con le relazioni Russia-USA lo scorso febbraio, il Rubicone è stato attraversato nella sfera USA-Cina…

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Quando i leader stranieri inizieranno a chiedere di parlare con il vero governo americano? – Caitlin Johnstone

Durante il furore per l’incendiaria visita di Nancy Pelosi a Taiwan la scorsa settimana, ho assistito a un’apparizione di Dave DeCamp di Antiwar nello show Rising, che ha sollevato il punto poco discusso che i funzionari statunitensi che si recano a Taipei sono in realtà una continuazione di una tendenza che si era già verificata sotto l’amministrazione Trump.

DeCamp ha sottolineato che la Cina ha iniziato a far volare regolarmente aerei nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan dopo che i funzionari dell’amministrazione Trump hanno fatto visite simili a quella di Pelosi.

“Questo ha iniziato ad accadere regolarmente dopo l’agosto 2020, quando il presidente Trump ha inviato Alex Azar a Taiwan”, ha detto DeCamp. “Era il suo segretario alla Sanità. È stato il funzionario di gabinetto di più alto livello a visitare Taiwan dal 1979″. Il mese successivo, nel settembre 2020, ha inviato Keith Krach. Era il sottosegretario all’Economia del Dipartimento di Stato ed è stato il più alto funzionario del Dipartimento di Stato a visitare Taiwan dal 1979. Si tratta quindi di passi senza precedenti, e da allora abbiamo assistito a una maggiore attività militare cinese nella regione”.

Più avanti nell’intervista, Briahna Joy Gray di Rising ha chiesto a DeCamp se questa escalation contro la Cina dall’amministrazione Trump all’amministrazione Biden fosse una “sorta di decisione di politica estera non di parte”. DeCamp ha spiegato come nel 2018 le forze armate statunitensi abbiano iniziato a passare ufficialmente dall’enfasi sulla “lotta al terrorismo” in Medio Oriente alla “competizione tra grandi potenze” con Cina e Russia, con la Cina come obiettivo finale.

“Se si guarda a tutti i think tank fautori della guerra di Washington, finanziati dall’industria degli armamenti, tutto ruota intorno alla cosiddetta competizione tra grandi potenze”, ha detto DeCamp. “La Russia in questo momento sembra essere il problema più imminente, ma la Cina sembra esserlo nel lungo periodo. E abbiamo visto che quasi tutte le agenzie governative – il Pentagono, l’FBI, il Dipartimento di Stato, la CIA – dicono che la Cina è la cosiddetta minaccia a lungo termine. Lo abbiamo visto dire anche a Biden, e questo è il gioco a Washington in questo momento”.

In vista della visita di Pelosi, Moon of Alabama ha messo in luce questo strano fenomeno per cui la politica estera degli Stati Uniti si muove lungo la stessa traiettoria a prescindere dal partito politico o dai risultati delle elezioni con una raccolta di articoli recenti che hanno tutti sollevato questo argomento in modo indipendente. Questo di Naked Capitalism è il più importante in questo momento:

I leader nazionali non hanno mai piena libertà di azione; anche gli autocrati hanno circoli o blocchi di potere che devono accontentare. Negli Stati Uniti, è ormai chiaro che il Presidente ha un grado di libertà limitato sulle questioni di politica estera; sono gli interessi militari e dei servizi di informazione a decidere. Certo, ci sono delle fazioni per cui un Presidente può spingere l’ago della bilancia fino a un certo punto; ecco perché, ad esempio, Obama è riuscito a bloccare i piani di escalation della Clinton in Siria. Ma il rovescio della medaglia è che i Presidenti che vogliono migliorare le relazioni con i propri nemici non ottengono nulla. Nelle interviste di Oliver Stone, Putin racconta di aver avuto discussioni produttive con Bush e di aver concordato misure concrete di de-escalation. I contatti successivi non hanno avuto risposta. Alla fine Putin ha ottenuto una rinuncia scritta in un linguaggio ambiguo. Questo e altri esempi hanno portato Putin a concludere che i presidenti degli Stati Uniti sono ostaggio di interessi burocratici e commerciali.

Biden è un presidente visibilmente molto debole. E sembra che questo abbia permesso ai neocons di avere un’influenza ancora maggiore sulla politica estera rispetto al solito.

Si presume che Xi debba capirlo. Tuttavia, secondo la lettura cinese, Xi parte da nobili principi per sostenere che gli Stati Uniti e la Cina, in quanto principali potenze mondiali, hanno il dovere di promuovere la pace, lo sviluppo globale e la prosperità. Da qui, Xi sostiene che considerare la Cina come un rivale strategico significa “fraintendere” le relazioni tra Stati Uniti e Cina e fuorviare la comunità mondiale.

A chi sta parlando Xi quando si esprime in questo modo? Sicuramente non a Biden.

Un esempio dei suddetti commenti di Putin è stato quando Oliver Stone gli ha chiesto: “Lei è passato attraverso quattro presidenti degli Stati Uniti: Clinton, Bush, Obama e ora Trump. Cosa cambia?”.

“Quasi nulla. La vostra burocrazia è molto forte ed è quella burocrazia che governa il mondo”, ha risposto Putin.

È questa “burocrazia” che è responsabile del fatto che l’impero centralizzato statunitense continua a muoversi nello stesso modo lungo la stessa traiettoria, indipendentemente dai partiti politici e dai risultati delle elezioni.

Nessuno elegge quella burocrazia. La maggior parte di essa non è nemmeno visibile dietro i veli della segretezza governativa e aziendale. Potete studiarla per tutta la vita e, nella migliore delle ipotesi, ve ne uscirete con un elenco di agenzie governative opache, militari di lunga data e operatori dell’intelligence, plutocrati, corporazioni, banche, profittatori di guerra, think tank, società di lobbying e ONG con legami con diverse nazioni e governi in tutto il mondo, ma esattamente chi è responsabile di quali decisioni specifiche dietro ogni specifica mossa dell’impero rimarrà avvolto per voi un mistero. È solo un’accozzaglia di nomi e parole senza alcuna applicazione utile.

Gli occidentali amano vantarsi della libertà che hanno di criticare il loro presidente o primo ministro in qualsiasi modo vogliano, dicendo che se si provasse a criticare la leadership di uno dei regimi stranieri che siamo tutti addestrati a odiare si verrebbe sbattuti in prigione per questo.

E a seconda della nazione può essere vero, ma è davvero “libertà” poter criticare un funzionario eletto che non è altro che una figura di riferimento? Certo, si può criticare il presidente quanto si vuole. … farà la stessa differenza. Almeno le persone che vivono sotto governi più apertamente autoritari sanno chi governa su di loro e chi comanda. In questo senso, hanno più libertà di noi.

Come australiano, so di vivere in uno Stato membro dell’impero centralizzato degli Stati Uniti, che in pratica è solo una base militare americana con dei canguri, ma non riesco a capire chi prende le decisioni effettive su come agirà l’impero, su come si muoverà il capitalismo e se i miei figli saranno arruolati nell’esercito per combattere una qualche guerra idiota con la Cina provocata per Taiwan o per le Isole Salomone. Se fossi cinese saprei esattamente chi è il responsabile ultimo delle decisioni importanti in materia di economia e politica estera nel mio Paese, ma come australiano non posso sapere queste cose.

La verità è che gli occidentali vivono in un gigantesco impero vagamente centralizzato intorno agli Stati Uniti, sulle cui operazioni non hanno letteralmente alcuna influenza, i cui responsabili non hanno nemmeno la possibilità di conoscere e i cui meccanismi sono completamente nascosti. Se questa la chiamate libertà, vi do dello stupido.

Possiamo vedere che l’impero si muove allo stesso modo su questioni importanti, indipendentemente da chi eleggiamo, semplicemente osservando a occhio nudo il comportamento dell’impero di anno in anno. Lo si vede anche dal fatto che il leader ufficiale del governo più potente della Terra è ovviamente affetto da una sorta di demenza e non è chiaramente colui che comanda.

Tutto questo mi porta a chiedermi: a che punto i leader stranieri cominceranno a chiedere di parlare con chi comanda? A che punto Vladimir Putin e Xi Jinping cominceranno a dire: “No, non faremo un’altra falsa telefonata con il falso governo americano. Mettetemi in contatto con i veri responsabili delle questioni che mi preoccupano. Chi prende le decisioni effettive su queste questioni specifiche? Fatemi parlare con loro. Esigo di parlare con il vostro vero governo”.

da qui

 

 

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

2 commenti

  • leandro locatelli

    Chi non conosce la Verità è uno sciocco, ma chi conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente
    Petizione diretta al Presidente Mario Draghi e al ministro Cartabia
    Andrea Rocchelli, fotogiornalista italiano era andato a documentare gli orrori della guerra in Ucraina, precisamente nel Donbass, ed è stato ucciso per questo. E’ stato assassinato insieme all’attivista per i diritti umani (e interprete) Andrej Nikolaevič Mironov, dal fuoco ucraino, il 24 maggio 2014. William Roguelon, unico sopravvissuto all’attacco, dichiarerà che il gruppo è stato bersagliato da numerosi colpi di mortaio e armi automatiche dalla collina Karachun, dove era stanziata la Guardia nazionale dell’Ucraina e l’esercito ucraino. Gli assassini non sono i russi ma i nostri alleati, addestrati e armati da noi. I “buoni”. Quelli che difendono la libertà. Nel luglio 2017 le indagini hanno portato all’arresto di Vitaly Markiv mentre rientrava in Italia, militare della Guardia nazionale ucraina col grado di vice-comandante al momento dell’arresto ma soldato semplice all’epoca dei fatti, con cittadinanza italiana. Markiv è stato sottoposto a misure detentive di custodia cautelare in attesa del processo che si è aperto a Pavia nel maggio 2018. Durante lo svolgimento del processo, Markiv viene anche accusato dentro e fuori l’aula di simpatie neonaziste. Si legge su Wikipedia: “Il 12 luglio 2019 la corte penale di Pavia ha giudicato Vitaly Markiv colpevole per concorso di colpa nell’omicidio di Rocchelli e Mironov e lo ha condannato a 24 anni di reclusione. Lo stato Ucraino è stato anch’esso giudicato colpevole nella medesima sentenza quale responsabile civile”. Markiv però se la cava, dopo l’intervento delle autorità dell’Ucraina che prendono le sue difese. Ed ecco il colpo di scena: “Il 3 novembre 2020 la Corte d’Assise d’appello di Milano, pur ritenendo colpevoli le forze armate ucraine dell’omicidio dei giornalisti, ha assolto Vitaly Markiv con formula piena escludendo alcune testimonianze chiave dall’impianto accusatorio per un vizio di forma”. Sul tablet e sullo smartphone sequestrati a Markiv, secondo i Ros, sono conservate oltre duemila fotografie. Alcuni scatti mostrano un uomo incappucciato, con una catena di ferro al collo, rinchiuso nel bagagliaio di un’automobile, una Skoda Octavia. In alcune immagini scattate poco dopo, si vede lo stesso uomo, con il volto ancora coperto, gettato in una fossa mentre qualcuno non inquadrato nella ripresa lo ricopre di terra. Altre fotografie ritraggono Markiv davanti alla stessa Skoda Octavia. Quando nell’aula è stata mostrata una foto di agenti della guardia nazionale ucraina con alle spalle una bandiera nazista, Markiv ha chiesto di prendere la parola e ha detto: «Non voglio che la guardia nazionale sia presentata come nazista. La bandiera ritratta in quella foto è soltanto un bottino di guerra» Peccato che il nemico fossero gli autonomisti del Donbass. Non c’è pace senza giustizia, non si annulla una sentenza per vizio di forma, dopo l’intervento delle autorità Ucraine che hanno parlato di complotto e di processo politico, intervento supportato anche da politici di lungo corso italiani. Chiediamo al presidente del consiglio Draghi ed al ministro della Giustizia Cartabia la revisione del processo. Ci sono due vittime innocenti, assassinate perché testimoniavano con il loro lavoro verità scomode, non ci possono essere colpevoli in libertà. La responsabilità penale è personale, indicare come responsabile l’intero esercito ucraino è inutile e sbagliato. Verità e giustizia per Andrea e Andrej.
    Puoi firmare la petizione qui: https://chng.it/J4kY6Zdj

  • Gian Marco Martignoni

    Oggi su Alias nell’articolo a pagina 4 di Dario Bellini si può leggere che ” le perdite ucraine ammontano a 5000 civili e 10000 militari, mentre quelle russe sarebbero, sotttolineo il probabilmente, 50000 “.Non viene citata alcuna fonte di riferimento, e sinceramente, per tutto quello che ho letto in questi mesi, è la prima volta che trovo dei dati simili.Qualcuno- a ha qualche notizia in materia ?

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