Niort contro Italia alla Corte Europea

La Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) condanna l’Italia per il caso di Simone Niort

“Sebbene non vi sia un obbligo generale di liberare una persona detenuta per motivi di salute, in certe situazioni il rispetto dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti, può imporne la liberazione o il trasferimento in una struttura di cura. Ciò si verifica, in particolare, quando lo stato di salute del detenuto è talmente grave da rendere necessarie misure di carattere umanitario, oppure quando la presa in carico non è possibile in un contesto penitenziario ordinario, rendendo necessario il trasferimento del detenuto in un servizio specializzato o in una struttura esterna”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a seguito della sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Niort c. Italia“. Una decisione con cui la Corte ha riconosciuto la responsabilità dello Stato italiano per la violazione del diritto alla salute e alle cure mediche di questa persona detenuta.

In particolare il ricorrente era una persona affetta da importanti disturbi psichiatrici, appurati da una relazione compilata da un tecnico nominato d’ufficio che, dopo un periodo di osservazione psichiatrica aveva accertato che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in carcere dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”, come racconterà uno degli avvocati che ha curato il ricorso alla Cedu. Una relazione che rimane tuttavia riservata e che il ricorrente e il suo difensore non riusciranno a vedere.

A leggerla fu invece l’ufficio di sorveglianza che nel novembre 2022 indica che Simone ha un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo, ordinando al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di individuare un istituto penitenziario che potesse farsi carico e seguire il disagio psichico dell’uomo. Una richiesta che non riceve nessuna risposta, neanche nella sua reiterazione nel 2023, perché – spiegava ancora l’avvocato Antonella Mascia in un articolo su l’Unità del febbraio 2024 – era stata rivolta all’amministrazione non competente, cioè il DAP, mentre sarebbe dovuta essere inoltrata all’autorità amministrativa sanitaria competente.

Nel frattempo il ricorrente aveva continuato a tentare il suicidio più volte e a commettere numerosi atti di autolesionismo. Una condizione che aveva portato il suo difensore, insieme agli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e al docente di diritto pubblico dell’Università Statale di Milano Davide Galliani, a rivolgersi ai giudici di Strasburgo che, ieri, hanno condannato l’Italia.

“La Corte – dichiara l’avvocato Antonella Calcaterra – ha rilevato la mancanza di un adeguato trattamento medico e di una presa in carico da parte delle autorità competenti, nonostante la gravità accertata dei suoi disturbi psichiatrici. In particolare, oltre a riconoscere la vulnerabilità del ricorrente, ha ritenuto che le autorità nazionali non abbiano dimostrato di aver valutato in modo sufficientemente rigoroso la compatibilità del suo stato di salute con la detenzione. La Corte ha inoltre accertato la violazione del diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, a causa della mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento del ricorrente in una struttura penitenziaria più adatta alle sue gravi condizioni. Infine ha riscontrato la violazione dell’articolo 38 del regolamento della Corte per il mancato rispetto dell’obbligo, da parte dello Stato italiano, di fornire tutte le informazioni necessarie e richieste espressamente per accertare i fatti della causa”.[1]

Questo riporta Antigone parlando della sentenza arrivata ieri, venerdì 28 marzo, dalla Corte di Strasburgo.

Simone Niort

“ la via giudiziaria alla risoluzione dei problemi sociali mi fa orrore”, scrisse in una lettera al quotidiano la Nuova Sardegna l’insegnante sassarese Franca Puggioni, nel giugno del 2016, quando l’allora diciannovenne Simone Niort fu arrestato per aver massacrato la sua fidanzatina, e sui social si scatenò “la solita ondata di indignazione, richiesta di inasprimento delle pene, castrazioni, calci e schiaffi (gli stessi che Simone Niort ha riservato alla sua donna), pena di morte, invocazioni a ministre e istituzioni e così via.“ (sempre dalla lettera di Puggioni)[2]

Il caso di Simone Niort (dal punto di vista politico, oltre che giudiziario e umano) è uno di quei casi paradigmatici per affrontare il tema dell’abolizionismo e della battaglia per il superamento del sistema carcerario. Il reato di cui è stato imputato (tentato femminicidio nei confronti della sua fidanzata) indubbiamente fra i più odiosi. L’aumento dei casi di violenza sulle donne, soprattutto da parte di maschi della cerchia famigliare o comunque affettiva delle vittime, rende difficile resistere all’istintiva repulsione e condanna “senza appello” per violentatori e assassini. Sdegno e orrore aumentano con l’aumentare dei casi, che fa apparire quasi inutili le numerose e apparentemente unanimi condanne sociali e politiche. E quasi non stupisce più che “l’aguzzino” si nasconda sempre più spesso dietro una faccia e una vita da bravo ragazzo, da buon marito o padre.

Queste settimane si discute molto attorno a questi temi sulla scia della miniserie televisiva inglese “Adolescence[3], con approcci da vari punti di vista. Fra le critiche alla serie quella di aver voluto centrare tutto sulle ripercussioni che la storia ha sul colpevole, trascurando quasi totalmente la vittima. Ma da tempo le sacrosante campagne di indignazione e lotta contro la violenza sulle donne e di condanna del patriarcato (non solo vivo e vegeto, ma alimentato ancor più dai rigurgiti di militarismo, maschilismo e cultura fascistoide di questi tempi), non riescono a tenere l’indispensabile “visione complessiva” e unitaria dei diritti, di tutti i diritti; arrivando ad auspicare che alcuni di questi diritti, quando riguardano persone che non ci piaciono o combattiamo, possano essere disattesi o cancelalti, come ricordava anche l’insegnante sassarese nella sua lettera a La Nuova Sardegna dopo l’arresto di Simone, che riportiamo nelle note. Diritti e principi che, in altri contesti, si sarebbero naturalmente ritenuti sacrosanti e inderogabili.

Coniugare le varie lotte e mobilitazioni, a tutti i livelli, uscendo dalla propria specificità, appare sempre più impellente proprio in tempi in cui non esistono più i grandi partiti e movimenti complessivi, che riuscivano bene o male a fare sintesi e “dare la linea” sulle varie articolazioni delle battaglie politiche e civili da portare avanti. Mantenendo nei casi migliori una certa coerenza al tutto. In parte, credo di aver capito, è quello che intendeva Michela Murgia col femminismo intersezionale, portandone il dibattito anche da noi.

Ma su questo chi meglio, con più autorevolezza e senza dubbi sulla sua integrità, oltre appartenenza ultradecennale al movimento femminista, di Angela Davis:

La lotta abolizionista, ci insegna Davis, è una lotta intersezionale che metta prima di tutto al centro la restituzione dell’umanità che non si riesce a riconoscere ai soggetti detenuti, la possibilità radicale che le loro vite, come quelle di chiunque altro, valgano la pena di essere vissute. Se guardiamo ai movimenti femministi, Aboliamo le prigioni vede la luce in un’epoca diversa dalla nostra, prima della «quarta onda», del #metoo e di Ni una menos. Una contraddizione sembra più che mai attuale: come è possibile conciliare l’abolizionismo con un femminismo incentrato sulla questione della violenza? Il movimento femminista si è dovuto confrontare con un sistema giudiziario e legislativo patriarcale, che tende a disconoscere la violenza di genere mediante condanne lievi – quando non inesistenti – agli aggressori. Istanze punitive sono emerse davanti a sentenze di assoluzione o pene estremamente lievi – come nel famoso caso de La Manada in Spagna: di fronte al costante disconoscimento della violenza di genere e al diffuso senso di sospetto nei confronti delle vittime – fortissimo laddove la cultura dello stupro è dominante – il tribunale diventa l’unico spazio creatore di verità inoppugnabili, la pena si trasforma nell’unica modalità possibile per essere credute o protette.

Senza operare nessun giudizio sulle scelte individuali e continuando a sostenere collettivamente le sopravviventi che denunciano, come si può continuare ad esercitare un pensiero ed una pratica abolizionista? Di fronte ai crimini sessuali e di genere l’atto immaginativo che ci viene richiesto per pensare un mondo senza prigioni si fa esercizio estremamente complicato e doloroso, eppure necessario. Ci viene in aiuto Davis, che traccia un’articolazione piuttosto chiara della violenza patriarcale, sessista e razzista delle istituzioni, che si concentra sulla figura dello stupratore nero – ma, potremmo aggiungere, dello stupratore migrante, del musulmano sessista, dello straniero violento – a discapito di quella che, già nel 2003, Davis definiva una «pandemia di violenza domestica» passata completamente inosservata, perpetrata da soggetti rispettabili, integranti il tessuto sociale produttivo, per i quali la prigione non è stata prevista né pensata.

Davis ci ricorda, in altre parole, che la credibilità delle donne che subiscono violenza passa ancora dalla profilazione degli aggressori e che un sistema strutturalmente costituito per riprodurre diseguaglianza difficilmente potrà assicurare giustizia sociale. Come ha scritto l’antropologa Rita Segato, uscire dal binomio violenza/punizione è difficile proprio perché questa è l’unica alternativa da sempre proposta. Molto più difficile è immaginare una lotta alla violenza patriarcale che non passi tanto dalla punizione di violenza già accadute quanto dalla trasformazione sociale – sul piano dell’educazione affettiva, della creazione di nuove forme di relazione tra generi – affinché queste non accadano.

Tanto quanto immaginare un futuro in cui le donne che denunciano la violenza di genere vengano semplicemente, prima di tutto, credute, senza il bisogno di una sentenza – il più delle volte viziata da bias razzisti e patriarcali – che stabilisca la verità in base ad anni di galera commisurati oppure no. L’atto di credere alle persone che subiscono violenze è la condizione necessaria e minima per la presa in carico collettiva della loro storia dolorosa, per la riparazione sociale – non di un torto individualmente subito, ma di una ferita alla società intera – per immaginare nuove forme di giustizia comunitaria che rompano l’incantesimo ineluttabile che la prigione esercita sulle nostre vite.

da qui ilmanifesto angela davis-lottare-per-nuove-forme-di-giustizia

Per approfondire sul caso di Simone Niort:

Irene Testa su Radio Radicale,  14.02.2024  il-caso-di-simone-niort

lanuovasardegna mio-figlio-e-malato-non-puo-stare-in-cella-1.14618979

https://www.open.online/2025/03/28/cedu-condanna-italia-violazione-diritti-deteuto-malato-simone-niort/

ansa.it/sardegna/notizie/2025/03/28/cedu-condanna-litalia

https://www.unionesarda.it/news-sardegna/sassari-provincia/violato-diritto-alla-salute-stato-italiano-condannato-caso-simone-niort-pgh4rlli

https://www.sassaritoday-simone-niort-20-tentativi-suicidio-carcere-strasburgo-condanna-italia-violazione-diritti-umani.html

Adolescence

NOTE

[1] https://www.antigone.it/news/3585-carceri-antigone-importante-la-sentenza-che-condanna-l-italia-per-la-violazione-del-diritto-di-cura-in-carcere

[2] A Sassari qualche giorno fa un diciannovenne, Simone Niort, quasi uccide la fidanzata a sprangate. L’episodio è preceduto da una scenata in strada con minaccia di accoltellamento per un passante che cerca di interporsi. I carabinieri intervengono e nonostante la reazione scomposta del giovane, dopo avergli sequestrato il coltello lo rilasciano. Lui, nel pomeriggio, quindi a mente fredda, si arma di spranga, va a casa della fidanzata e la massacra. È viva, malconcia, forse con qualche danno permanente ma insomma, se la caverà, speriamo.

L’episodio provoca la solita ondata di indignazione, richiesta di inasprimento delle pene, castrazioni, calci e schiaffi (gli stessi che Simone Niort ha riservato alla sua donna), pena di morte, invocazioni a ministre e istituzioni e così via. Lo dico subito, così togliamo di mezzo questo argomentò: la via giudiziaria alla risoluzione dei problemi sociali mi fa orrore.

Simone Niort ha 19 anni, se anche gli dessero dieci anni di carcere e li scontasse tutti, uscirebbe di galera rafforzato nella sua visione violenta del mondo e avrebbe 29 anni e una vita davanti per fare danno.

Che fare dunque? Io non lo so.

Però conosco un mondo, quello degli adolescenti che provengono dai quartieri della nostra città, o dai paesi vicini, spesso da situazioni familiari di estremo degrado, nelle quali la violenza nelle relazioni padre/madre, genitori/figli è l’unica modalità conosciuta, che vivono nutriti di Tv e poco altro. Questi ragazzi consumano alcol, droghe di varia natura, praticano sesso senza grandi protezioni (il numero di gravidanze precoci è impressionante), vivono senza regole e spesso non tornano a casa per giorni senza che nessuno si preoccupi di loro, sono razzisti, omofobi, violenti.

E questo vale anche per le ragazze che vivono però nella speranza di essere la prescelta del bullo di turno. Qualcuna di loro offre soldi, per comprare il fumo, in cambio di un pomeriggio di sesso che credono, solo loro, amore. Qualcuna in discoteca si presta a rapporti orali in cambio di un drink e una pasticca. È una realtà nella quale l’idea di una relazione rispettosa, civile, matura è, semplicemente, una faccenda per alieni.

Questi ragazzi, dei nostri discorsi su educazione al rispetto, campagne anti-femminicidio, dichiarazioni di ministre e assessore, non sanno nulla e nemmeno ne vogliono sapere. Per essere più esplicita penso che la lingua che parliamo, noi emancipate e colte, sia per loro una lingua straniera ed estranea.

Nel caso specifico Simone Niort aveva una storia personale e familiare che le forze dell’ordine, servizi sociali, scuola, quartiere conoscevano benissimo. È un ragazzo con disturbi patologici del comportamento, che non aveva nessun autocontrollo, viveva tra palestra e la strada e purtroppo aveva una folta schiera di ammiratrici tra ragazzine che hanno la sua stessa storia. Il sollievo di sapere che non fosse una mia alunna mi consola ma non mi alleggerisce dall’angoscia.

La famiglia di Simone, la scuola di Simone ha chiesto aiuto molte volte. La scuola aveva chiesto un sostegno per tutta la durata dell’orario scolastico e uno specifico percorso di “riabilitazione sociale alla convivenza”. Per questo intervento non c’erano soldi, nemmeno per un percorso ridotto alla metà dell’orario. È chiaro che l’esito inevitabile è stato la sua esclusione dal percorso scolastico.

Nessuno può immaginare di tenere in una prima classe un ragazzo che passa da momenti di tranquilla serenità a momenti di violenza incontrollata contro compagni e insegnanti. Quello che è certo che i segnali di pericolo c’erano tutti, in passato anche tragici segnali.

Penso però che se qualcosa vale la pena di fare, è quella di ripensare radicalmente le politiche sociali, ci sono luoghi nelle nostre città dove bisognerebbe entrare con strumenti nuovi, più efficaci, meno burocratici, penso ad affiancamenti alle famiglie, sostegno alle scuole, operatori di strada per i ragazzi. Invece, noi insegnanti, le madri e i padri, i ragazzi siamo soli, ci parliamo con difficoltà, e restiamo poi muti davanti al sangue. Muti e sgomenti.

Franca Puggioni, Insegnante

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Adolescence_(miniserie_televisiva)

Benigno Moi on EmailBenigno Moi on FacebookBenigno Moi on Instagram
Benigno Moi

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *