No profit: il lavoro nero e…

… e il sessismo che non ti aspetti
di Barbara Bonomi Romagnoli (*)
«I buoni» di Luca Rastello (Chiarelettere editore, 2014) è una storia di fantasia, ma fatti e personaggi sono volutamente ispirati dal vasto mondo del no profit,

dell’associazionismo e del volontariato, dove le cose non vanno esattamente come dovrebbero andare.
Paola Carla è incinta, del suo primo figlio. È felice, non ha nemmeno paura di esserlo, quando cammina sente il mondo scricchiolare sotto le piante dei piedi, qualcosa le cresce nelle ossa, come una libertà nuova, invincibile, e lei non è solo cervello, ma anche pancia, nervi, tendini e pelle, non ha paura di niente, si è costruita un abisso personale dove si ferma a sognare e, quando esce, ride.
Ha un contratto atipico, un part time in scadenza. Chiede il rinnovo per avere una sicurezza prima del parto, è la Bislunga a riceverla: «Facciamo così, puoi scegliere tu. O recuperi prima o recuperi dopo».
«In che senso recupero?»
«Hai un part time. Ma per la maternità, diciamo a partire dal giorno del parto, puoi stare a casa… Facciamo quattro mesi? Poi quando torni, o se preferisci prima di andare, ti fai quattro mesi di full time per recuperare.»
«Ma mi pagate full time.»
«Be’ no, se no che recupero è? Quando dovrebbe nascere il bambino?»
«Sono al quarto mese.»
«Perfetto. Il tuo contratto scade giusto in tempo. Tu te ne vai a casa tranquilla e quando torni ne facciamo un altro. Contratto, non bambino, eh?»
In molte si rispecchieranno in questo brano dell’ultimo romanzo – magistrale – di Luca Rastello.
A quante donne è capitato di vedersi scippare i propri diritti in maternità anche in ambiti protetti?
E quante sono state ricattate o messe in condizione di accettare accordi come questo, per di più proposti da altre donne?
A partire dai rapporti fra i sessi, dal sessismo e maschilismo che permea luoghi e azioni di persone che credono – o dicono di credere – in un mondo diverso, migliore.
I “buoni” del romanzo di Rastello sono coloro che lottano per salvare l’umanità intera, «le loro crociate si chiamano progetti e il loro dio è la legalità», sono convinti di quello che fanno, ne vanno fieri. Sono le migliaia di donne e uomini che avvicinano barboni, tossici, prostitute, gli ultimi reietti del mondo perché c’è qualche uomo santo, in questo caso Don Silvano, che predica il bene, che fomenta gli animi, che da una parte strapazza i politici e i potenti per il male che fanno e dall’altra li frequenta per trovare risorse per le sue anime da riscattare.
I “buoni” sono anche quelli – pochi – che provano a dire che certe cose non si devono fare e a quel punto la loro carriera nel fantastico mondo del no profit, chissà perché, si blocca.
I “buoni” siamo tutti noi che in molti casi sappiamo e non facciamo nulla per quieto vivere.
A scanso di ulteriori polemiche, nel personaggio di Don Silvano, a differenza di altri colleghi, più che ritrovare pretestuosi don Ciotti, uomini di Emergency o di altre ong e associazioni, ho colto la capacità di Rastello di raccontare in maniera impeccabile e senza giri di parole il maschilismo che permea il Terzo Settore in ogni suo ambito e che si traduce nelle parole e azioni di questi uomini, Don Silvano e tutti i suoi fedelissimi. Ça va sans dire, anche nel mondo dei “buoni” è un tabù parlare del rapporto dei sessi. E allora, senza fermarci al gossip che ha accompagnato il lancio di questo bel libro, cominciamo la chiacchierata proprio da lì.
Hai scritto questo romanzo a partire dalla tua esperienza nel mondo del no profit: quanto è radicata la cultura maschilista e come è possibile che vada d’accordo con la visione di un altro mondo possibile?
È assolutamente inconciliabile. Non sono particolarmente ferrato in questioni di genere ma l’ho sempre trovato talmente offensivo e grave che non potevo non parlarne, è agghiacciante quanto sia pervasivo. Non c’è solo la doppia morale di alcuni uomini, è una mentalità fatta propria anche dalle donne. In una presentazione del libro si parlava appunto della questione dei contratti e della maternità, si è alzata una signora che ha rivendicato un caso simile, dicendo che lei lo aveva fatto per sé e altre e che era giusto farlo per la “causa”. Lavorava all’Arci. Temo soprattutto che sia un elemento di ritorno, il maschilismo era presente anche nelle generazioni precedenti ma, a me, sembra più forte nelle giovani generazioni, perché è saltato il tappo: prima c’era ma si cercava di contenerlo mentre adesso – dopo che sono stati scippati tutti i diritti – è come se si dicesse «da questo momento in poi va bene tutto, possiamo accettare tutto». Vedo giovani che pensano di avere un altissimo senso etico mentre sono affaristi senza scrupoli. Stiamo tornando indietro rispetto alle conquiste del Novecento.
Accanto a Don Silvano, la protagonista del libro è Aza, ragazza cresciuta nelle fogne fra violenze ed espedienti, portata via da un operatore umanitario e da un fotografo prestato al terzo settore. Hai visto con i tuoi occhi quello che succede nei cunicoli di Bucarest?
Sì, ci sono stato nei primi anni Duemila e per tanto tempo mi è frullata in testa quella esperienza. Nel pensare cosa gli avremmo potuto offrire noi in Italia, a quelle ragazze e ragazzi, è venuto fuori il romanzo.
Abbiamo nominato la causa, l’ideologia che diventa l’alibi per i peggiori sfruttamenti e nefandezze. Hai scritto pagine forti e inequivocabili, che lasciano poco spazio per la speranza: è proprio impossibile recuperare la causa giusta?
Si può fare, non è un compito insormontabile. Anche perché il settore no profit è certamente ipertrofico, ha avuto uno sviluppo eccessivo ma è relativamente recente, ha 20/25 anni di vita. È cresciuto enormemente in termini di risorse, potere e soldi ma lo ha fatto senza interrogarsi sulle proprie motivazioni. In un momento storico di privatizzazione del Welfare e del venir meno dei diritti nel lavoro, questo mondo è dentro una profonda crisi dei fondamenti. Manca l’abc, è come essere arrivati all’università senza aver fatto le elementari.
Da dove ricominciare allora?
Da una critica radicale, bisogna togliere la patente della santità che molti si sono auto-assegnati nel fare progetti di solidarietà o di aiuto in varie forme. Non esiste una via giusta, non bisogna sentirsi i migliori.
Credi che il problema sia anche il potere che si instaura nella relazione di aiuto, così come in tutte le relazioni?
È proprio questo il punto: proprio in questo campo bisogna avere una doppia consapevolezza di cosa sia il potere e tenere sempre lo sguardo vigile su questo. Altrimenti l’ideologia del sentirsi buoni diventa una falsa coscienza. Quando si arriva come associazione/ong ad avere un potere simile a quello che si cerca di cambiare, c’è qualcosa che non va: è necessario accettare di essere perdenti.
Dedichi quest’ultimo libro alle tue figlie con un solo pensiero «A Elena e Olga, perché sfuggano». Da cosa è necessario sfuggire oggi?
Dalla cultura dell’auto-legittimazione e dell’auto-santificazione, mi auguro che siano libere e sempre capaci di avere uno sguardo critico sul mondo.
(*) Questo testo è stato pubblicato su «27esimaora». Barbara Romagnoli si presenta così: giornalista professionista freelance, laureata in Filosofia con una tesi sul linguaggio del corpo nell’esperienza mistica, da allora è femminista e si interessa di studi di genere, storia e movimenti delle donne. Ex redattrice del settimanale «Carta – Cantieri Sociali», ha collaborato con diverse testate fra cui «Liberazione», «Peacereporter», «Aprile», «Left», «La nuova ecologia», «Marea»… Nel tempo libero è apicoltrice ed esperta di analisi sensoriale del miele.

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