No time for love like now

racconto di Diego Rossi (*)

Non so se scriverò mai un diario. 

Per ora lo sto immaginando, lo memorizzo a voce bassa o in silenzio. Non saprei dire nemmeno perché ho cominciato. Forse perché ho molto tempo per pensare o perché oggi è stato il mio compleanno ed è una specie di regalo che volevo farmi, forse perché soffro di insonnia e, sveglia nel buio, ho bisogno di una storia. 

Anche stasera continuavo a rigirarmi nel letto e ripetevo l’inizio: «La città era così ferma solo la domenica mattina, così vuota solo a notte fonda, quando le finestre erano chiuse, le tapparelle abbassate da un pezzo.»

Come farei col computer aggiungo frasi, le cambio. Sono molte sere che va avanti così. Vedo tante tessere di un mosaico, galleggiano nella penombra, diventano parole che si compongono nella mente, ricordi di dialoghi, versi di canzoni.

Torno spesso indietro, ricomincio, ho memorizzato interi brani. Sembrerà un gioco da svitati, ma ha un effetto sedativo. In fondo cosa c’è di normale in tutto quello che stiamo passando?

Il nostro appartamento al primo piano sembra più piccolo. Non che mi pesi dividere la stanza con mia sorella. Però a un certo punto Barbara, cinque anni, pretende di spegnere la luce e viene nel mio letto. 

Non posso più leggere il libro che aveva comprato mia madre su una bancarella. Cerco la sua testolina, l’accarezzo, affondo le dita fra i suoi riccioli scuri. 

Lei mi fa la stessa domanda ogni sera. 

Io butto dietro le lacrime, strizzo le ciglia: tanto la luce è bassa, resta solo quella di un angioletto di legno attaccato alla presa vicino alla porta. Stringo forte i denti per trattenere un groppo in gola.

Rispondo sempre la stessa cosa, badando che la commozione non mi tradisca, con tutta la falsità di cui sono capace: «Mamma tornerà presto, ti vuole bene.» Poi lei infila il pollice in bocca e si addormenta. 

Sento il ritmo del suo respiro, le accarezzo la schiena, la bacio sulla guancia, a un certo punto la manina le cade sulle coperte. Dorme, la rimetto nel suo letto a un metro dal mio. Torno a rigirarmi fra le coperte. Non riesco a dormire. Non posso leggere, non voglio svegliarla, ripeto mentalmente le frasi del mio diario, quelle che ho già imparato a memoria e ogni notte vado avanti di un pezzettino…

25 marzo

La città era così ferma solo la domenica mattina, così vuota solo a notte fonda, quando le finestre erano chiuse, le tapparelle abbassate da un pezzo. Il Duomo, la Madunina, Milano è deserta. Vedo una colomba bianca, vola in alto fra le guglie, si arrampica sollevata dal vento, splende, centrata dai raggi del sole. 

La facciata brunita, sfrangiata dalle ombre dei pilastri in rilievo, demolita e trasformata nei secoli, si alza sulla piazza massiccia, ricorda una gabbia di pietra vuota. 

Le mura del Duomo catturano la luce in pieno giorno, sulle navate ripide non ci sono splendori, né scintille di vetrate sfaccettate. 

Il marmo è solitario, avido, attrae il buio, lascia risaltare il pavimento lucente della piazza dai mattoni grigi. In primo piano un giornalista ricorda i tempi della peste: dietro di lui, sulla cupola e tra le guglie brilla di rame dorato la Madunina, che a quel tempo ancora non c’era. Durante la seconda guerra mondiale la coprirono di stracci bagnati per salvarla dalle bombe. Oggi brilla sulle creste più aspre, sui riccioli di pietra. Piange nel televisore, a ora di pranzo, sfida un rettangolo azzurro di cielo, spicca tra i ricami di nuvole e le punte altere, sottili come candele spente. 

Oggi ho festeggiato il mio compleanno. 

Papà fa il barista, non lavora da quando è iniziato tutto, ha le mani troppo grandi e ha fatto del suo meglio per mettere insieme una torta. Nessun regalo, i soldi sono pochi. Meglio lasciarli da parte per la risposta alla domanda che abbiamo evitato di dare a Barbara: «Mamma dov’è?»

«Torna presto, mangia tutto», ha detto papà.
Mia sorella affondava le dita nel pandispagna. Sulle labbra la nutella e la panna. Un momento fa rideva come se non fosse cambiato nulla, o quasi. Sente solo un grosso buco nel cuore ogni tanto. Va e viene, ma i bambini si adattano a tutto. Ci provano almeno. 

Mi sento sola mamma: abbiamo fatto appena in tempo a disegnare insieme un arcobaleno di carta e attaccarlo al vetro della veranda. 

I nostri palmi bagnati di colore sono lì, tutti e quattro, dal più grande al più piccolo. Prima papà con la sua manona rossa, poi tu gialla, vicino alla mia verde, e alla fine Barbara, blu. Guardo la TV, ho compiuto quattordici anni oggi, non trovo il coraggio di una preghiera, andrà tutto bene?

Mezzanotte del 25 marzo, inizio del 26

Non sapevo molto, solo l’essenziale. «Mamma stasera non torna» aveva detto papà quindici giorni fa. Mamma alla fine del turno in ospedale aveva la febbre, positiva. Ci hanno fatto i tamponi a casa, negativi. I primi giorni ci salutava dal tablet, la stanza della quarantena era piccola, la dividevano in sette. 

Lei fa l’infermiera, non dormiva da tre notti.

Forse aveva messo male la mascherina perché era troppo stanca. «È ancora giovane, ha quarantadue anni, la cureranno», aveva precisato a me papà mentre Barbara giocava nel salone. Poi mamma è peggiorata, ieri l’hanno intubata. Non poteva parlare, ma almeno era in terapia intensiva.

Mio padre era ancora sveglio, aveva il tablet acceso in camera. Mentre andavo in bagno ho visto la luce brillare da sotto la porta socchiusa e ho sentito un suo singhiozzo strozzato. Mi sono avvicinata senza far rumore. Lui è alto un metro e novanta, pesa centodieci chili, ha un lungo tatuaggio sull’avambraccio con un’aquila e sotto le ali i nostri tre nomi. Ho poggiato l’occhio sul buco della serratura. Stava in ginocchio. Ricorderò sempre le sue parole, rotte dalle lacrime: «Ti amo amore mio, torna a casa presto mi raccomando…»

Vedevo solo i guanti di un’infermiera che reggeva il cellulare, era coperta dalla luce bianca e non riuscivo a distinguere bene, sentivo il rumore di sottofondo delle macchine per respirare. «Barbara e Vittoria stanno bene. Andrà tutto bene. Vieni a vedere come si è fatta bella tua figlia, oggi è diventata quasi una donna. Ti amiamo amore mio.»

27 marzo

Le storie si consumano come i vecchi libri, a forza di rileggerli li riduci a brandelli. Per il troppo amore continui a sfogliarli, a cercarli. Forse dovresti buttarli via a un certo punto e iniziarne un altro. Il libro che stavo leggendo era quello che mia madre aveva preso alle bancarelle. Avevo preteso che fosse il mio unico regalo, lo stringevo ogni tanto, finché le dita diventavano bianche. Il titolo mi attraeva sempre, anche se lo stavo leggendo per la terza volta. Stava sempre con me, era il ricordo più recente di mamma. L’ultima cosa che aveva detto prima del suo turno in ospedale era stata: «Non sbirciare, non sei più una bambina.» L’avevo sorpresa mentre lo infilava nell’armadio della sua camera da letto. Era quello il nascondiglio dei regali. Quando era uscita, ero già lì che di nascosto lo sfogliavo sulle ginocchia.

Mancavano tredici minuti all’inizio della lezione on-line, il numero era uguale agli anni che avevo tre giorni fa. Sulla veranda il sole delle otto batteva già forte, Il computer mi ricordava l’appuntamento con la classe con un avviso sonoro, sotto c’era scritto che il prossimo avviso me lo avrebbe dato quando mancavano cinque minuti. 

Mi trovavo seduta nella nostra veranda verde, tenevo i piedi incrociati sul tavolo e il naso puntato sul libro aperto. Noi dentro le case e fuori la primavera. Alzando lo sguardo, ho visto sul balcone del palazzo di fronte un’anziana signora che si alzava e si sedeva su una sedia di plastica. Mi era sembrata buffa. Un casco di capelli grigi ricci e una blusa verde come la Regina d’Inghilterra. Ma poi, quando aveva preso una scopa e aveva cominciato a fare esercizi, tendendo e flettendo le braccia ero scoppiata a ridere. 

Per guardare meglio la Regina mi ero alzata e avevo poggiato la fronte sul vetro. In televisione era solo la quarta volta in assoluto che quella d’Inghilterra parlava…

Un messaggio ha fatto vibrare la tasca della felpa. «Giorgio ha detto che sei buffa quando ridi.» Ho alzato di corsa la testa verso l’attico dei signori Folli: sul balcone che girava tutto intorno il fratello della mia compagna di classe si era fermato dal fare jogging. Era più alto di lei, che gli arrivava alle spalle, portava ancora gli occhiali da sole e mi stavano salutando. Faceva il quarto ragioneria, noi il primo. Mi sono sentita le guance rosse e sono rimasta ferma. Ho alzato automaticamente la mano, scordandomi di tutto per un momento.

28 marzo

La veranda è il nostro giardino, un luogo che chiamiamo “fuori”. Ci permette di definire uno spazio esterno, la luce è più intensa, non abbiamo tende, l’alluminio verde slavato dal tempo, i vetri sottili e non termici, l’assenza di tende la rende una vasca di vetro di cui noi siamo i pesci. Il piccolo tavolino al centro. Pranziamo qui. Ogni tanto si apre la finestra di un palazzo di fronte. Qualcuno ci guarda incuriosito, poi torna dentro. La signora del pianoterra ha un giardino vero, metà in mattonato, metà con erba e siepi, tre vasi pieni di calle bianche, poi fiori viola alti e lunghi, spuntano da cespugli di spine tra i grigliati. Non ho ancora cercato su Google come si chiamano. Vive con il figlio più grande. 

Lei porta i capelli corti da uomo, è una donna dura e amara; hanno un bastardino chiazzato.Sul pavimento mattonato spiccano due tavoli più grandi del nostro, però non li ho mai visti fuori. Nemmeno il cane va all’esterno. Il loro giardino è perfetto e morto. Forse si sentono nudi in un acquario.

Mangiamo la pasta in bianco, scottata con l’olio, spaghetti. Li taglio e Barbara mastica con gusto, gira il cucchiaio, metà se li butta addosso. Ho imparato a distinguere le cose belle quando dentro c’è un pizzico di cuore. Questa semplicità, questa distanza forzata, terribile, è una cosa che tira fuori il meglio di noi, ci separa dal nulla.

Ogni sera alle 18 il notiziario fa la conta dei morti e dei guariti. In America sono preoccupati, la loro curva è diversa dal grafico della pandemia italiana. Ci studiano come i vicini, che spiano da dietro gli scuri delle finestre. Sull’attico dei signori Folli corre Giorgio. Ogni tanto lo cerco senza farmi notare, passa al piccolo trotto, fa esercizio girando intorno sul suo terrazzo. Chissà se si volterà, se guarderà giù nel nostro acquario verde. Chissà se usciremo ancora dalle case dove ci hanno detto di restare.
Mio padre sta appena dicendo che non sopporta quelli che mettono le bandiere sui balconi e che fanno i flash mob con le chitarre, peggio se suonano la tromba e cantano l’inno.
«Lockdown», grida Barbara senza sapere cosa significa e mi fa la linguaccia.

Giorgio rallenta, è solo, si ferma.
Prende fiato, stringe la ringhiera, proprio dove il signor Folli ha fissato con la corda un enorme tricolore. Poi guarda giù. Si toglie gli occhiali da sole, i suoi occhi sono azzurri.Li riesco a vedere oltre il vetro ingiallito, un po’ li immagino pure. Distinguo un cenno di barba, una fossetta sul mento e la linea dei denti bianchi di un sorriso.
Giorgio alza la mano, mi saluta. Per poco gli spaghetti non mi vanno di traverso. Spero che nessuno se ne accorga. La mia mano risponde al saluto e tremo, sento un brivido sulla schiena, nel centro del petto, sulle guance. La sua bocca disegna un ciao nell’aria. Mio padre si volta, di rimando mi fissa con gli occhi che aveva mio nonno. Severi parlano senza parole, Barbara posa il cucchiaio ridendo: «Finito tutto.»

Ci sono stati circa ottocento morti ieri, uno ogni quattro minuti: hanno fatto vedere tante bare allineate in una chiesa, numerate aspettavano di essere portate vie. Al funerale solo un parente, massimo due. Guardo la sedia vuota accanto a me, penso a mamma e mi viene da piangere, voglio abbracciarla, voglio dirle che un ragazzo carino mi ha salutata. Il telegiornale dice che oggi andrà peggio. Non so più cosa pensare, boccheggio incapace di parlare.
Mi sento un pesce in un acquario verde.

29 marzo, domenica

Ho sognato di svegliarmi nel mio banco a scuola. Da un mese le lezioni non ci sono e mi mancano, prima le odiavo. Dopo tanto tempo posso uscire. Una breve passeggiata fino all’edicola, a piedi. Ho l’autocertificazione, papà l’ha copiata a mano perché la stampante è rotta. Non ho voglia di ascoltare musica, non faccio altro da giorni. Porto con me il mio libro, non voglio separarmene. Ho incontrato Giorgio. Se non gli piacevo non sarebbe stato a un metro da me, cedendo tre posti per avvicinarsi. Abbiamo la mascherina. La fila è piuttosto lunga. La signora dell’edicola ha steso un filo davanti al gabbiotto con le saracinesche alzate, ai lati, dentro le vetrine, fumetti e riviste. Un foglio ondeggia con sopra scritto a caratteri cubitali:

“UNA PERSONA ALLA VOLTA, TENETE LA DISTANZA DI SICUREZZA”.

Sono lì per prendere un uovo di plastica rosa, pieno di giochi per mia sorella. Giorgio mi dice: «Vittoria, ti chiami Vittoria?» Annuisco, ha una bella voce, non so cosa rispondere. Legge il titolo del libro che tengo stretto in grembo: «La signora degli scarafaggi, Disch, non lo conosco, ma è un Urania!» Sta per aggiungere qualcosa, bisbiglia «Mio padre…» ma poi si trattiene. Ripete solo mentalmente il titolo. Allora io col cuore che batte a mille gli faccio: «Alla fine c’è anche la prima parte del romanzo di Kafka, le Metamorfosi.» Mi sento meschina, perché cerco quasi di giustificarmi. Lui torna a voltarsi. 

Mi piacerebbe vedere il suo sorriso, ma è coperto dalla mascherina. Chiacchieriamo un poco, mi racconta che prima del virus le edicole volevano chiuderle, ora sostituiscono temporaneamente le librerie. Mi cede il posto della fila. Siamo sempre distanti, con una app che si sono inventati diventiamo amici e ci scambiamo i contatti restando a un metro e mezzo l’uno dall’altra. Mi invia una canzone del cantante dei REM, mi dice che l’ha composta ieri per descrivere quello che stiamo passando. Sa di mia madre e mi incoraggia. Mi sembra che sia un libro aperto.

Per un momento non mi pesa più la fila per uno sul marciapiede, né mi stringono i guanti di plastica sui polsi del giubbetto. Non faccio caso alla strada vuota di macchine, a tutte le serrande dei negozi abbassate, né ai visi coperti dalle maschere da chirurgo delle persone dietro di lui. È il mio turno. Quando esco, gli lancio il mio libro. Lui l’afferra. «Dimmi se ti piace.» Scappo via, nascondendo gli occhi dietro il grosso uovo rosa per mia sorella.

“No time for love likenow”, nelle cuffie batte forte la canzone di Michael Stipe, quasi come il mio cuore mentre sto correndo a casa: 


“No time for breezy
No time for arguments
No time for love like now
There’s no time in the bardo
No time in the in-between
No time for love like now
There’s no time for dancing
There’s no time for undecideds
No time for love like now
Where did this all begin to change
The lockdown memories can’t sustain
This glistening, hanging free fall
I turned away from the glorious light
I turned my head and cried…
I am waiting for you
I am waiting for you.”

1 aprile

Da due giorni mamma è peggiorata. Ho aiutato Barbara a fare il suo lavoretto scolastico. Durante la lezione on-line le altre mamme erano nei quadrati sul monitor del portatile, poi c’ero io. Forse non avrei dovuto farla partecipare. Nessuna ha detto niente, nemmeno la maestra, ma sentivo addosso i loro sguardi. Abbiamo disegnato un pesce su un foglio e Barbara lo ha colorato di verde. Papà girava in pigiama e sulla sua schiena era finito quel pesce, attaccato col biadesivo. 

Barbara grida felice: «Pesce d’aprile, pesce d’aprile.» Porta solo le mutandine, il sole splende sulle gambine paffute, piccole, bianche come fiocchi di neve con appena un riflesso di rosa. Sto lavando i panni, proverò a fare la pizza. Non mi sono collegata alle lezioni della mia classe, non sono più uscita da giorni. Non vorrei ma… non faccio che pensare a Giorgio. Mi ha chiesto se ci vediamo all’edicola oggi pomeriggio alle 4. Cerco di memorizzare solo cose belle, perché non voglio piangere mentre cerco di addormentarmi.

Barbara stava frugando nell’armadio. Per farla stare buona, ieri le avevo detto che le abbiamo fatto un regalo per Pasqua. Con l’anta aperta, stamattina provava ad arrampicarsi e, guardandomi ha sgranato gli occhi, ha chiuso le labbra in una smorfia furba e mi ha chiesto: «Adesso è Pasqua?»
Ho chiuso l’anta e l’ho abbracciata stretta.

2 aprile

Sono le sei in punto di mattina. Lo so perché nella penombra più silenziosa irrompe la sveglia della caserma dei soldati, che è a tre chilometri dal nostro palazzo, sulla tangenziale. Le note della tromba superano le barriere acustiche della carreggiata, arrivano a bussare sulle finestre, danno la carica. Tutto è cambiato troppo velocemente. Visto il modo in cui le cose sono precipitate, si aspettano un lento ricostruire. La chiamano seconda fase. Dopo la quarantena arriverà la convivenza, gli esami di maturità solo orali, la riapertura dei negozi controllata e graduale. Invece, nel mio caso, tutto brucia velocemente ed è dentro che sento premere: sento la voglia di vivere, un urlo che non posso soffocare, il richiamo di donna che non vuole essere più bambina. La mia insegnante di spagnolo mi ha mandato un messaggio con l’estratto di un articolo boliviano:

“Tengo coronavirus, porqueaunqueparece ser que la enfermedadaún no ha entrado por mi cuerpo, gente amada la tiene; porqueel coronavirus estáatravesandociudades por lasque he pasado en lasúltimassemanas; porqueel coronavirus ha cambiado con un trinar de dedoscomo si de un milagro, una catástrofe, una tragedia sin remedio se tratara, absolutamentetodo.

Donde pisesestá, donde llegas ha llegadoantes y nada se puedehoy pensar, ni hacer, sin el coronavirus entre medio. Pareceser que no solo yotengo coronavirus, sino que lo tenemostodas, todes, todos; todas las instituciones, todoslospaíses, todoslos barrios y todas las actividades”.

Sono combattuta fra due “lui”: un lui che nega la vita e un lui che per me è sopravvivenza. Giorgio ieri mi ha riportato il libro di Disch che gli avevo prestato. Suo padre,“il fascista”, come lo chiama mio papà, colleziona tutti gli Urania, fin da quando era piccolo. Leggendo, Giorgio ha capito che la raccolta di racconti proseguiva su un altro numero. Lo ha rubato per me dall’infinita libreria di casa sua e me lo ha regalato. «Nemmeno se ne accorge», ha detto strizzando l’occhio.

Non ho ancora avuto il coraggio di aprirlo. Il titolo è: “La stanza vuota”: sta in un involucro di plastica, sigillato, protetto dal tempo. Non vedo neanche una piega. Nel cerchio rosso della copertina l’immagine di Thole è così inquietante, ispirata al finale delle Metamorfosi, una donna che spazza via uno scarafaggio gigante. Non so se avrò il coraggio di aprirlo. Ho paura che strappando i sigilli di quella copertina non potrò fare a meno di disobbedire all’isolamento. 

3 aprile

Scarafaggi, insetti… hanno detto che in Australia una cura sui pidocchi sta funzionando in laboratorio. Una dottoressaè morta ieri, era in quarantena con mia madre. Aveva un marito e due figli. Non si baciano i morti. Non si salutano. Non si vegliano. Finiscono in sacchi neri o bruciati. In America vorrebbero scavare fosse comuni nei parchi. Barbara era vicina all’armadio, mi ha chiesto: «Adesso è Pasqua?»

4 aprile, sabato

Papà è stanco di non lavorare al Bar, ha inviato una mail all’amministratore di condominio e ha chiesto di poter pulire le scale. L’impresa di pulizie non può venire. Lo spio dalla veranda verde. Trovo facilmente una scusa per uscire. «Vado a prendere il pane e il latte.» Invece entro di nascosto dall’uscita di emergenza rotta del cinema chiuso. Giorgio è già lì che mi aspetta. Non troviamo l’interruttore, accendiamo le torce dei cellulari. Giorgio mi accarezza la mano dolcemente, non abbiamo più i guanti di plastica. Mi sfiora il polso, lo prende, lo tiene. Abbasso lo sguardo sulle sue mani, sono forti, le cerco, le stringo. Sento le sue labbra premere sulle mie. La felicità mi riempie, mi aggrappo alle sue spalle, sono larghe e muscolose. Con la gamba faccio cadere i cellulari e la luce si spegne. Le mani diventano i miei occhi e sento le sue cercarmi. 

Ho voglia di ridere e sento inumidirsi le palpebre. Sento il suo viso ruvido su una guancia. 

I miei capelli lunghi si impigliano tra le labbra. Le narici tremano, assorbo avidamente l’aria come se corressi sulla neve. 

Lo sento vicino, i pollici si incrociano dietro la mia nuca. Le altre dita si posano, una dopo l’altra dietro le orecchie, restano lì qualche istante a recuperare energia, poi mi afferra. Il suo tocco e lieve sopra di me, intenso, leggero, tenero…

È tutto buio, ma non sono più invisibile, non sono più soltanto un quadratino animato su un monitor, un pesce in un acquario. Non sono più una bambina.

11 aprile

Mamma sta meglio. Ci ha salutato dal tablet.

È bellissima. Barbara teneva il broncio all’inizio. Alla fine ha riso di gioia, parlava a raffica e ha cominciato a premere a caso sulle emoticon. La lasciamo fare. Cerca le più strane: cuori colorati, sorrisi, ci ha messo dentro anche un albero di Natale. Nessuno corre sull’attico dei Folli. L’ambulanza si ferma in strada, dal palazzo di fronte scende una barella, sopra c’è il padre di Giorgio, ha la febbre e la tosse secca. Nel mio messaggio c’è scritto solo «scusa.» Giorgio non mi ha risposto.

12 aprile, Pasqua

Le chiese hanno ancora le porte chiuse. A Roma la basilica di San Pietro è abbandonata. Le file di colonne che Bernini aveva pensato come un abbraccio all’umanità sono solo braccia di marmo protese sulla piazza deserta. A Milano guardo tra le mensole di casa fotografie mute, brillano di luce: in una ci siamo tutti, vicini al Duomo, la folla di turisti intorno, poi in spiaggia, la mia comunione, il battesimo di Barbara. Disordinate scene di vita passata. Silenzio. Nessun rumore di scooter o di motori, la strada è vuota, le macchine parcheggiate. Solo nelle trasmissioni televisive registrate le persone non hanno le mascherine e i guanti, stanno vicine e ridono, come tre mesi fa. Mi sento un mostro, come quelli che disegnava Thole. 

Non posso scrivere, continuo a ripetere a bassa voce la mia storia di fantascienza, cercando di addormentarmi. A Napoli l’astronave è un cesto di vimini, un paniere rotondo, intrecciato a mano, con un filo annodato sul manico. Lo tirano su o giù da una finestra senza balcone. Ondeggia, vola e sembra un disco volante. Dentro ci sono cose da mangiare, sopra una scritta: «Chi può lascia, chi non può prende.» Prima era uno, poi due, oggi è Pasqua e i cesti sono tanti. Non vedo aerei di passaggionel rettangolo di cielo azzurro della veranda, tagliato dai palazzi. Prima gli aerei invadevano il cielo. Le strisce bianche diventano rare, ed è un modo come tanti per dire che mi manca la libertà. Se a gennaio qualcuno avesse letto il mio diario avrebbe detto che era un racconto di fantascienza. Invece, quello che ci è successo è vero…

E’ vero.

(*) ripreso da yohv.blogspot.com

Redazione
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