Nobel per la paleo-genomica: non solo Neanderthal

di Giorgio Chelidonio

 

«Dopo tanti anni, finalmente un Nobel evoluzionistico! Una scelta coraggiosa e pionieristica dell’accademia svedese, che premia un archeologo del DNA e una disciplina, l’antropologia molecolare, che indagando il DNA antico ci ha fornito informazioni di straordinaria importanza sul nostro passato e sul posto di Homo sapiens nella natura. Basti pensare al sequenziamento del DNA neandertaliano e poi a quello di Denisova, alla scoperta delle ibridazioni fra le tre specie umane, alla ricostruzione della loro diversità genetica e dei loro spostamenti geografici, ma anche alle informazioni di tipo medico che si possono ricavare dallo studio dei geni del passato e delle loro mutazioni» [LINK 1]. Questo è l’autorevolissimo commento di Telmo Pievani sul Nobel attribuito al genetista svedese Svante Pääbo, fondatore nel 1999 dell’ormai prestigiosissimo Istituto Max Planck per l’Antropologia Evolutiva – Lipsia/D [LINK 2].
Da oltre 20 anni, il nome di Pääbo è noto non solo agli specialisti di antropologia evolutiva ma anche a chi legge le principali riviste di divulgazione scientifica [LINK 3]. I suoi studi rivoluzionari hanno contribuito a fondare la paleo-genomica, cioè la disciplina scientifica che analizza le differenze genetiche che distinguono tutti gli esseri umani viventi dai loro paleo-parenti estinti, fornendo le basi per esplorare ciò che ci rende unicamente umani.
Vedo nelle bibliografie citate in proposito che la sua prima pubblicazione risale al 1997 [LINK 4]: è stato proprio in quell’anno che ho avuto modo di ascoltare una sua relazione: stavo partecipando, a Ravenna, al III Congresso dell’European Archaeology Association [LINK 5] dove avevo presentato una mia relazione [LINK 6] sui manufatti paleolitici veronesi riferibili a circa 500-400 mila anni fa.
Quel personaggio allampanato ci stava parlando delle tracce genetiche risalenti a più di 40 mila anni fa, cioè del DNA neanderthaliano, un aspetto allora poco noto non solo sul piano divulgativo ma anche a buona parte dei paletnologi stessi.
Da allora ho cercato di seguire gli articoli pubblicati da Svante
Pääbo, magari limitandomi solo alle sintesi perché i dettagli degli studi del DNA implicano un linguaggio disciplinare poco comprensibile per chi non possiede un specifica preparazione. Però il passaggio più rilevante dei suoi studi l’ho percepito dal 2010, quando Pääbo e i suoi collaboratori pubblicarono [LINK 7] di aver scoperto che una piccola percentuale di tracce del DNA neanderthaliano è tuttora presente nel genoma della nostra specie. In che quantità e che con diverse combinazioni analizzabile è stato, in breve, il seguito del suddetto studio. Da allora però il suo metodo scientifico si è esteso e perfezionato in continuazione abbracciando anche il DNA fossile dell’altra specie di ominini, i Denisoviani, coevi ai Neanderthal ma che si erano diffusi in Asia dove in alcuni siti (la grotta siberiana di Denisova, nei monti Altai) le due “specie” si erano ibridate già 90 mila anni fa circa [LINK 8]. Nel 2018 questo studio allargava quindi, sia nello spazio che nel tempo, il campo di ricerca paleo-genomica sulla complessità delle origini degli ominini. Si apriva, così, la percezione di un modello multi-migratorio “out of Africa” [LINK 9] articolato in fasi di “diffusione esplorativa”, di isolamenti di singole popolazioni sufficientemente lunghi da produrre variazioni (fisiche e genetiche) e di “reincontri” durante i quali i meticciamenti erano però in grado di riprodurre individui fertili.
A questo già problematico scenario evolutivo si aggiunge che il DNA, nel tempo, va soggetto al degradarsi e, nonostante il progredire delle tecniche di analisi, in non pochi casi risulta non più leggibile: anche se si tratta di resti conservati in contesti riparati, come grotte o ripari sottoroccia, il DNA risulta spesso illeggibile. In questa ultima casistica ricadono alcuni fossili di ominini risultanti da meticciamenti molto antichi e/o da condizioni di isolamento assai prolungate.

Ad esempio il cosiddetto
Homo florensiens [LINK 10] i cui resti sono stati scoperti in una grotta dell’isola indonesiana di Flores: le loro ridotte dimensioni corporee, dovute a fenomeni di “nanismo insulare” e la morfologia arcaica (capacità cranica di 380 cc. circa) ne hanno proposto la discendenza da ominini molto antichi (Homo erectus, se non addirittura un suo antenato), mentre le loro tracce finora rinvenute li collocano fra 190 e 54 mila anni fa.
Ad oggi, il DNA fossile più antico è quello estratto dal sito spagnolo di Sima de los Huesos [LINK 11], i cui resti umani sono stati datati a circa 430 mila anni: sebbene che, mediamente, la morfologia dei crani li avvicini a quelli neanderthaliani, il loro DNA mitocondriale risulta essere più prossimo a quello dei Denisoviani. Questo raffronto suggerisce la loro derivazione da un ceppo di ominini più antichi, forse diversificatosi da 750 mila anni fa.
Ma i progressi nelle analisi del DNA fossile non si sono fermate a queste “specie” [LINK 12]: con l’affinamento delle tecniche e la loro diffusione sono stati avviati progetti di indagine paleo-genomica anche su semplici sedimenti che ne abbiano conservato tracce. Questo tipo di tracce (dette seda/DNA, sigla per “
sedimentary ancient DNA”), stanno trovando nuove, molteplici applicazioni, ad esempio:
– il
metabarcoding (per microrganismi e piante) e la meta-genomica (per ecosistemi) sono altri approcci del sedaDNA. Questi ultimi tipi di analisi sono già stati applicati con successo in laghi glaciali profondi (in cui prevalgono sedimenti argillosi, potenzialmente adatti a conservare tracce significative di DNA) dell’altopiano tibetano meridionale e sudorientale [LINK 13];
– test di analisi paleo-genomica sono stati effettuati in sedimenti marini campionati nel cosiddetto Mare di Scozia (fra Sud America e Antartide) per visualizzare quali organismi vi siano vissuti nell’ultimo milione di anni. Questa ricerca è finalizzata ad indagare i dettagli dei cambiamenti climatici avvenuti nel suddetto periodo e per meglio delineare le relazioni fra la vita marina antartica attuale e futura.
Insomma, sembra che approfondire la paleo-genomica su organismi terrestri e marini sia sempre più destinato a rivoluzionare non solo gli studi sugli ominini ma anche la complessità dell’insieme delle relazioni evolutive.

LINKS

  1. https://pikaia.eu/un-nobel-evoluzionistico-premiato-l-archeologo-del-dna-svante-paabo/
    Da questo ulteriore link, si accede ad una serie di articoli apparsi su “Pikaia-Il portale dell’evoluzione” >> Hai cercato paabo – Pikaia
  2. https://www.eva.mpg.de/index/
  3. Es. https://www.nationalgeographic.com/science/article/neanderthal-neuroscience (2011)
  4. Pääbo S. et alii, 1997: Neandertal DNA sequences and the origin of modern humans. Cell. Vol. 90, pp.19-30.
  5. https://www.e-a-a.org/
  6. Chelidonio G., Zielo A., 1998: I bifacciali del Paleolitico Inferiore in Lessinia, in “Papers from the EAA Third Annual Meeting at Ravenna 1997: Volume I: Pre- and Protohistory “, a cura di M. Pearce e M. Tosi, British Archaeological Reports (International Series S718), pp. 1-5, Oxford.
  7. http://news.bbc.co.uk/2/hi/science/nature/8660940.stm
  8. https://www.nature.com/articles/d41586-018-06004-0
  9. https://www.lescienze.it/news/2017/12/11/news/out_of_africa_homo_sapiens-3784826/
  10. https://it.wikipedia.org/wiki/Homo_floresiensis
  11. https://www.mpg.de/10364707/hominins-sima-de-los-huesos
  12. In senso generale per “speciazione” si intenderebbe una separazione sufficientemente prolungata da rendere reciprocamente infertili i rappresentanti di animali che ne derivano. Ciononostante, si usa dire “specie” anche per popolazioni di ominini che rincontrandosi, pur dopo prolungati isolamenti, risultarono capaci di riprodursi in individui meticciati ma ancora fertili https://www.treccani.it/enciclopedia/speciazione/
  13. https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0277379122003341
  14. https://www.heritagedaily.com/2022/10/1-million-year-old-marine-dna-found-in-antarctic-sediment/144904

Mappa (https://www.researchgate.net/publication/308393620_Genomic_analyses_inform_on_migration_events_during_the_peopling_of_Eurasia ) della più recente diffusione “out of Africa” di Homo sapiens, che si stima avvenuta fra 130 e 120 mila anni fa circa. Occorre però considerare che gli antichi rappresentanti della nostra “specie” incontrarono, nel loro diffondersi, popolazioni più o meno consistenti di gruppi umani diffusisi in almeno 2 altre precedenti migrazioni esplorative: una riferibile già a 2 milioni di anni fa, l’altra a circa 800 mila anni di fa. Quest’ultima avviò la “speciazione” dei Neanderthal in Europa e dei Denisoviani in Asia: ad oggi, ci sono tracce che le due specie si incontrarono e si “ibridarono” in alcuni territori dell’Asia nhttps://www.researchgate.net/publication/308393620_Genomic_analyses_inform_on_migration_events_during_the_peopling_of_Eurasiaord-occidentale.

 

 

Giorgio Chelidonio

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