Noi (migranti) saremo tutto

di Stefano Galieni (*)

ImmigratiPerFavore

«In Camerun mi sfruttavano ma potevo lavorare con dignità. Qui hanno provato a rubarmi anche quella». Sono parole pronunciate alcuni anni fa da Yvan Sagnet, studente d’inverno al Politecnico di Torino, lavoratore nelle campagne in estate per pagarsi gli studi. Alcuni anni fa lui insieme ad altri suoi compagni di lavoro – a Nardò, in Salento – incrociò le braccia, stanco di vedersi depredato da caporali e padroncini. Uno sciopero che ripropose il diritto a un giusto salario e a condizioni di vita, salute, accoglienza, decenti per chi si spaccava la schiena raccogliendo angurie e pomodori. Non accadde solo a Nardò. Era già successo a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro, nel gennaio 2010; a Castel Volturno nel settembre 2008, dopo la strage di camorra in cui rimasero uccisi 6 lavoratori immigrati; e dopo con lo “sciopero delle Rotonde” in cui si imposero di non lavorare per cifre misere. Ma non solo a Sud. Più tardi Alessandria e Saluzzo finirono agli onori delle cronache, per vertenze – sempre nell’agricoltura – in cui accanto alle vessazioni salariali si aggiunsero molestie nei confronti delle lavoratrici e recentemente è accaduto anche nelle campagne dell’Agro Pontino, in provincia di Latina, dove ad alzare la testa sono stati i lavoratori Sickh. Vertenze a volte condotte autonomamente e prive di qualsiasi sostegno sindacale ma che altre volte hanno incontrato il sostegno della Cgil o delle sigle extra confederali, spesso in ritardo rispetto alle necessità. E non solo in agricoltura. Il comparto della logistica – che vede impegnati tantissimi lavoratori, soprattutto immigrati, in particolare in Lombardia ed Emilia Romagna, spesso assunti in cooperative “rosse” o “bianche” – non si è mai fermato nel tentativo di veder applicato il contratto nazionale di categoria. Si tratta di persone la cui permanenza in Italia è strutturalmente legata a una assunzione (Bossi-Fini docet) che dunque, nella logica di chi vuole trarre il massimo profitto, dovrebbero accettare supinamente di lavorare al ribasso. Ma molti non ci stanno, si sono opposti, anche bloccando il passaggio dei camion con le merci da scaricare e per questo sono stati caricati e manganellati. L’informazione di regime – praticamente tutta – vuole considerare questi lavoratori come manovrati dai soliti “comunisti”. Ma nessuno li può manovrare. Se ne facciano una ragione. E a ribellarsi si inizia ormai anche in altri ambiti: da quello dell’accoglienza, dove sono impegnati molti cittadini stranieri come mediatori, all’edilizia dove però la parcellizzazione del lavoro e la crisi del settore non permettono ampi margini. Anche i sindacati tradizionali cominciano, finalmente, ad accorgersi che il loro stesso futuro dipende da questo settore di classe. Nel 2014 si sono iscritti alla Cgil oltre 400 mila lavoratori provenienti da altri Paesi. Sono ancora del tutto sotto-rappresentati negli organismi dirigenti, spesso rischiano di venire schiacciati anche in logiche di compromesso politico ma data l’età media, infinitamente più bassa di quella degli autoctoni, sanno che potranno prima o poi imporsi. Il sindacato – per quanto a volte fermo e ancora sottomesso a logiche concertative – crea cittadinanza sociale, quella comunanza che assurdità giuridiche come lo ius sanguinis continuano a negare. Nella lotta per il posto di lavoro, per condizioni di migliore sicurezza, ci si sente parte di un tutto.

Ma ci si organizza anche uscendo fuori dal seminato delle vertenze sindacali: dopo la strage del 19 aprile, si son fatti presidi di lotta in tutto il Paese nel tentativo di costruire fronte comune per impedire la complicità dell’Italia e dell’intera Europa in queste stragi. E ancora – a fronte della carenza cronica (altro che emergenza) di decenti condizioni abitative – le occupazioni meticce delle grandi metropoli (ma anche i picchetti antisfratto realizzati da chi si occupa della difesa dei diritti degli inquilini) sono un’altra dimostrazione di volontà di conquistare diritti che altrimenti nessuno concederà.

Oggi il rumore mediatico è costituito soprattutto dai rigurgiti xenofobi di alcune forze politiche e dalle rassicurazioni ipocrite di altri attori apparentemente migliori. Poco si scandaglia e poco si parla di queste lavoratrici e di questi lavoratori, che hanno nomi, storie personali, progetti di vita, qui o altrove e che non si rassegnano. Poco si parla di tante/i ragazze/i che crescono in Italia e imparano a considerare ricchezza e patrimonio la diversa provenienza culturale e nazionale. Questo Primo Maggio è già loro, dei nuovi resistenti, di chi malgrado tutto guarda avanti con rabbia e fiducia, senza cercarsi il nemico di comodo. Uomini e donne, che è limitante definire migranti, spesso fanno quello che molti “autoctoni” non sanno più fare. Lottare insieme per un futuro migliore.  

(*) Oggi la “bottega” dalle 7 in poi ha ospitato soltanto post legati alla guerra (non dichiarata) dell’Occidente a migranti e profughi. Chiediamo a chi ci legge di aiutarci prossimamente ad approfondire i temi che abbiamo affrontato oggi; anche raccontando le storie di chi viene accolto e di chi viene respinto, di chi è dalla parte dei migranti e dei profughi e per questo viene “intimidito” (esemplare la vicenda di Radio Onda D’urto a Brescia), di chi nelle istituzioni alimenta il razzismo dei fascioleghisti ma anche le voci di molte/i che si oppongono a ogni razzismo e fascismo.

 

Redazione
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