Noi sognanti, segnanti, significanti

«Ci manca(va) un Venerdì», puntata 109: con Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia e – in ruoli secondari – Magritte, Pazienza, Jung, Frigeri, Hillman, Kant, Zenone, Gaiman, Malebranche, una famosa tartaruga e persino… l’autostrada interminabile

«Per fare il fumetto bisogna partire dal segno. Il segno è una metafora meravigliosa… noi siamo circondati da oggetti tangibili depositari di un segno o di una serie di segni, dallo studio di questa serie di segni nasce la matematica del segno e cioè il disegno. […] Ora, per me l’importante è non giocarmi una univocità che mi stancherebbe e che non conterrei a facilità. Posso, invece, contenere una serie di segni diversi…» dichiarò il fume-Art-ista Andrea Pazienza in una intervista a Vincenzo Mollica, reperibile nella biografia “Paz”.

In un certo senso è vero, ma ci può venire in maggiore aiuto il gagliardo psicologo svizzero (e poco figliol prodigo di Freud) Carl Gustav Jung, il quale era solito affermare: «Dalla bocca esce la parola, il segno e simbolo. Se è segno, la parola non significa nulla. Se invece è simbolo, significa tutto».

Ecco dunque che la matematica del segno conquista la divina proporzione grazie al suo essere in relazione con i segni stessi, non senza una qualche autoreferenzialità. Il segno rimanda ad altro che a sua volta rimanda ad altro, a comporre un’immagine, anche un suono, che acquisisce il suo senso solo in un contesto di segni contenuti in un supporto anch’esso contenuto in altro. Un gioco da scatole cinesi da far venire il mal di testa persino al paradosso zenoniano di Achille e la tartaruga (*) o ad Aristotele, con conseguente cura pesante a base di “elenchòs” che era il metodo proprio della logica formale socratica, mirante non tanto a battere l’avversario dialettico, quanto a mostrargli di essere caduto in un’insanabile contraddizione con quanto asseriva all’inizio.

Il pittore e scultore surrealista italiano Lanfranco Frigeri sembra non avere dubbi a tale proposito: «Il lavoro di scultore: orientare il pensiero agli “archetipi”. Vi è un’arte rassicurante fatta di figure, paesaggi, impressioni di colore o concetti di realtà. Ma vi è un’altra arte inquieta e irrazionale che si presenta sconosciuta ed è sempre accompagnata da pericoli, specialmente quando varia ed esce dagli schemi e chiede una strada diversa. La ricerca dell’inesplorato archetipo che è dentro di noi. L’archetipo ancestrale che risale alla notte dei tempi e che giace nella coscienza collettiva degli uomini. Questa rinasce quando si entra volutamente nella “nube della non conoscenza”, quella cercata dai mistici per il contatto e la scoperta di messaggi e visioni inconoscibili».

La matematica dei segni forma a sua volta la matemagica degli archetipi che a loro volta rimandano alle profondità oceaniche dei sogni, i quali sbocciano poi nelle produzioni letterarie e artistiche degli esseri umani, a rappresentare non tanto l’imitazione del vero, quanto il far cose con la fantasia che è propria del procedimento filosofico più anarchico.

Su questo conferisce una certa garanzia lo psicologo e filosofo James Hillman – di cui ho già abusato in un precedente post – il quale dice: « [Gli archetipi sono] i modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo. Essi sono le immagini assiomatiche a cui ritornano continuamente la vita psichica e le teorie che formuliamo su di essa».

I segni dunque altro non sarebbero che i cromosomi della cellula archetipica, la quale a sua volta compone il corpo dell’anima psichica, la quale a sua volta è contenuta nel corpo fisico, che a sua volta troverebbe il suo riflesso nel mondo/universo fuori di essa ed espressione nelle opere artistiche?

Achille, aspetta che richiamo la tartaruga, qui urge un controllo doping” se non bastasse una bella aspirina per il mal di testa da paradosso mal digerito. “Lo so, Achille, bei tempi quelli dell’Essere di Parmenide e del Monismo di Spinoza, ma sai come va il mondo, vero?”. 

A fungere da aspirina abbastanza concreta potrebbe venirci un aiuto inaspettato dal filosofo francese Renè Guenon (molto amato dalla destra “colta” più estrema): «C’è da notare che, fra le facoltà sensibili, la vista è in rapporto diretto con lo spazio, e l’udito col tempo: gli elementi del simbolo visivo si esprimono in simultaneità, quelli del simbolo sonoro in successione» facendo notare dunque che a generare i simboli, altro non concorre che le categorie dello spazio e del tempo, che formano il mondo, esseri umani incliusi.

Sia lodato il buon Kant, che tutto ordina e pensa, o meglio, l’Io pensa. Eppure anche qui si potrebbe notare che i libri sono a loro volta composti da segni, che compongono parole, che esse sono generate in una lingua, non sempre comune, ed essa veicola solo se viene espressa nello spazio e nel tempo, o, per dirla meglio, per mezzo dello spazio e il tempo.

Dunque, a rigor di logica: «Però in Platone si dà un’enorme importanza agli archetipi, quali idee metafisiche, “paradigmi” o modelli, mentre gli oggetti reali sono trattati alla stregua di semplici copie di questi modelli ideali. La filosofia medievale, dai tempi di S. Agostino – dal quale ho preso l’idea di archetipo – fino a Malebranche e a Bacone, segue ancora le orme di Platone. […] Da Cartesio a Malebranche in poi, il valore metafisico dell’idea o archetipo va gradatamente deteriorandosi. L’idea diventa un “pensiero”, una condizione gnoseologica interna, come dice chiaramente Spinoza […] Infine Kant riduce gli archetipi a un numero limitato di categorie della conoscenza» conclude Jung.

Ok, Carl, non ti scaldare, non devi sempre avere l’ultima parola, anche se hai riassunto bene quello che viene espresso in diversi saggi sulla filosofia gnoseologica” (quella che studia la modalità della conoscenza umana a livello filosofico).

Che dici Carl, dobbiamo venire a un accordo prima di concludere questo scritto, ti pare?”. Ok, lo ha detto la tua migliore allieva, Marie Louise Von Franz: «Gli archetipi junghiani sono stati spesso paragonati alle idee platoniche. Va detto tuttavia che la differenza tra un’immagine archetipica dell’idea platonica consiste nel fatto che l’idea platonica è concepita come un puro contenuto di pensiero, mentre un archetipo si può esprimere anche come sentimento, emozione o fantasia mitologica. L’archetipo junghiano è perciò un concetto più ampio dell’idea platonica».

Dunque le fantasie mitologiche che ritroviamo nei libri altro non sono se non i punti carichi di energia psichica che testimoniamo l’effettiva esistenza dell’Inconscio Collettivo? Neil Gaiman – con il quale chiudo, non avertene a male Carl – in un discorso sull’importanza dell’alfabetizzazione e della lettura ai tempi dei video e di internet, sembra saperla lunga: «Se sei intrappolato in una situazione impossibile, in un posto sgradevole, e qualcuno ti offre una via di fuga temporanea, perché non dovresti prenderla? I libri fanno questo: aprono una porta, mostrano la luce fuori. E più importante ancora, durante la fuga i libri possono farti conoscere il mondo e la tua stessa condizione, ti danno armi, ti danno un armatura, cose che puoi portarti dietro quando devi tornare in prigione. Le abilità e la conoscenza sono strumenti che puoi usare per fuggire davvero. Come diceva Tolkien, le uniche persone che si arrabbiano per una fuga sono i carcerieri».

Fra carceri mentali e segni che compongono le strutture collettive della psiche, posso solo affermare che ai segni mancano più di un venerdì, magari un appuntamento dallo psichiatra o un thè con il Cappellaio Matto e il vostro Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico. Ci ritroviamo qui fra 7 giorni, nel resto della settimana ci immaginiamo.

L’immagine è tratta da uno dei più enigmatici dipinti del pittore surrealista Renè Magritte – “Golconda”, 1953 – che in Italia è famoso per essere stato “copertinato” sul fumetto «Dylan Dog».

(*) Il paradosso di Achille e la tartaruga potete anche prenderlo come una premonizione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, visto che Zenone era di Elea, appunto dove nella zona dove oggi c’è Salerno (nota di un bottegardo di passaggio)

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *