Non è sano il business della Nestlé

La multinazionale svizzera, smascherata dal «Financial Times» che ha pubblicato un report interno, ammette che il 60% dei suoi prodotti fa male alla salute

di Marta Gatti (*)

Chi di noi da bambino non ha messo, almeno una volta, il Nesquik nel latte? Chi di noi non ha mai mangiato uno snack o una caramella della Nestlé? Solo in Italia il gigante alimentare svizzero è proprietario di decine di marchi: dalle acque minerali alle bibite per aperitivi, dalla polvere di cacao ai cereali della prima colazione, dalla pasta ai cioccolatini. Difficile trovare qualcuno che non si sia imbattuto in un prodotto Nestlé. Eppure, più del 60% dei suoi prodotti non raggiunge gli standard per poter essere definito sano. A dirlo è un report interno alla multinazionale, reso noto a fine maggio dal Financial Times. Nella presentazione, circolata tra gli alti dirigenti della Nestlé, si legge che «alcune categorie e alcuni prodotti non saranno mai salutari», indipendentemente dai tentativi di rinnovamento.

IL REPORT PRENDE COME RIFERIMENTO IL SISTEMA di valutazione utilizzato in Australia per indicare quanto i cibi e le bevande siano sani. Il modello va da un minimo di mezza stella fino ad un massimo di cinque. Per raggiungere la sufficienza è necessario superare la soglia di 3,5. È un sistema volontario di etichettatura che permette al consumatore di valutare il profilo nutrizionale dell’alimento e di confrontare facilmente diversi marchi. Più stelle ci sono sulla confezione più il prodotto è sano. L’algoritmo che definisce il numero di stelle per ogni alimento tiene conto delle componenti considerate più pericolose per la nostra salute: la quantità di zuccheri, di sale e di grassi saturi. Gli elementi che diminuiscono i rischi per l’organismo sono, invece: frutta e verdura, legumi, fibre e proteine. Il sistema australiano viene riconosciuto a livello internazionale da soggetti indipendenti come la Access to Nutrition Foundation. L’organizzazione con sede in Olanda fornisce strumenti e analisi per incoraggiare le aziende a produrre cibo sano e nutriente.

NELLA PRESENTAZIONE INTERNA, DIFFUSA dal Financial Times, solo il 37% (calcolo fatto in base ai ricavi) dei cibi e delle bevande Nestlé ha raggiunto un rating sufficiente, superando le tre stelle e mezzo. Dalla lista dei prodotti analizzati nel rapporto sono stati esclusi: il cibo per animali, i prodotti per neonati e quelli per i bisogni medici speciali. In poche parole: la maggior parte dei prodotti considerati nell’analisi non raggiunge la soglia per cui può essere definito salutare, basandosi su standard indipendenti. Non arrivano al target: il 70% circa dei cibi, il 96% delle bevande escluso il caffè puro e il 99% dei dolciumi e dei gelati. Arrivano, invece, alla sufficienza l’82% delle acque e il 60% dei latticini. I dati presi in considerazione corrispondono alla metà dei ricavi annui della Nestlé che, in totale, sono pari a circa 92 miliardi di franchi svizzeri, 84 miliardi di euro.

NONOSTANTE I MIGLIORAMENTI SIGNIFICATIVI, si legge nella presentazione, «il nostro portfolio è ancora sottoperformante rispetto alle definizioni di salute, in un contesto in cui la pressione regolatoria e l’attenzione dei consumatori è in forte crescita». La risposta all’articolo è arrivata qualche giorno dopo la sua pubblicazione, dunque non ci sono smentite. Nella replica la multinazionale ha sottolineato il fatto che i prodotti presi in esame rappresentano solo la metà del portafoglio. La multinazionale svizzera ha anche annunciato un progetto di aggiornamento complessivo degli standard nutrizionali, attraverso la Nestlé Nutritional Foundation, «per assicurarsi che i prodotti aiutino a raggiungere i bisogni nutrizionali e supportino una dieta bilanciata». Come? «Per esempio – dicono – abbiamo ridotto lo zucchero e il sale in modo significativo negli scorsi 20 anni, intorno al 14-15% solo negli ultimi 7».

«GOOD FOOD, GOOD LIFE» E’ IL MOTTO che accompagna il gruppo. Eppure, la presentazione interna riporta esempi di alcuni prodotti che difficilmente potranno essere sani se non cambiando la loro composizione. Uno degli alimenti citati è la pizza surgelata Croissant crust three meat della DiGiorno, commercializzata negli Stati Uniti, contenente il 40% del fabbisogno giornaliero di sale. Il Nesquik al gusto fragola venduto negli Usa, poi, contiene 14 g di zucchero nella porzione consigliata di 2 cucchiai (pari a 14 g). Praticamente solo zucchero, se si escludono coloranti e aromi. Il prodotto sulla confezione riporta la dicitura: For healthy Growth & Development, per una crescita e uno sviluppo sani.

ANCHE UTILIZZANDO IL SISTEMA NUTRI-SCORE (o etichetta a semaforo), il modello di etichettatura sviluppato in Francia e diffuso in altri paesi (Belgio, Paesi Bassi, Spagna, Lussemburgo, Svizzera e Germania), alcuni prodotti Nestlé non raggiungono la sufficienza. Il sistema utilizza una scala di colori dal verde al rosso e lettere dalla A alla E. Alla bibita all’arancia San Pellegrino assegna una E, il valore più basso nella scala. Su 100ml di prodotto può contenere 10 g di zuccheri. In Francia, dove il sistema Nutri-Score è applicato, i prodotti Kit-Kat vengono valutati con una E mentre arrivano a C i cereali per la colazione dei più piccoli, solo perché gli zuccheri vengono compensati da fibre e proteine.

MENO ZUCCHERO, MENO ATTRATTIVA? I tentativi di mantenere il gusto originale riducendo la quantità di zucchero non sempre hanno funzionato. Ne è un esempio l’innovazione della barretta Nestlé di cioccolato bianco Milkybar, nella sua versione Wowsomes. La nuova edizione della nota barretta era stata lanciata nel 2018 come innovativa: 30% in meno di zuccheri. Apparsa nel Regno Unito e in Irlanda è stata abbandonata dopo due anni perché le vendite sarebbero state deludenti. Dalla barretta originale, che in 100 gr di prodotto conteneva 52,5g di zuccheri, si passa alla versione con 36,6g, la quantità di grassi saturi cambia poco e vengono aggiunte fibre che non c’erano. Adesso Nestlé punta anche su prodotti come «hamburger» vegano o «latte» a base di piselli ma il processo più delicato è quello che coinvolge i suoi cavalli di battaglia: gusti consolidati come il Nesquik. Per migliorare il rating nutrizionale si aggiungono fibre e vitamine e si riducono gli zuccheri ma, in fondo, è la scelta consapevole del consumatore a fare la differenza.

(*) ripreso dal «L’Extraterrestre», supplemento ecologico (esce il giovedì) del quotidiano «il manifesto».

UNA NOTA DELLA “BOTTEGA”

E’ una lunga storia – inizia negli anni ’70 del secolo scorso – quella del boicottaggio contro la Nestlè. La principale accusa a Nestlè è di promuovere con pubblicità, pressioni e azioni molto aggressive il (suo) latte artificiale nei Paesi soprattutto del Terzo Mondo, di fatto scoraggiando l’allattamento al seno e dunque con grandi pericoli (e comprovati esiti tragici) per la salute dei bambini. Anche in Italia esce un libro che documenta la politica scorretta della multinazionale svizzera: cfr La Nestlè Le multinazionali del crimine: Stampa Alternativa … che ha un grande impatto e sarà poi seguito (nel 2006) da un altro libro di Stampa Alternativa: «Nestlè Non Ama I Bebè».

Partono in molti Paesi azioni di boicottaggio (più o meno organizzato) di consumatori e consumatrici contro alcuni prodotti Nestlè. L’azienda è costretta a trattare… e forse finge; ma questa è una storia che varrà la pena raccontare nei dettagli, magari riprendendo anche i libri di Stampa Alternativa (ormai introvabili) e altri testi che sono “misteriosamente” spariti dalla circolazione.

Qui in “bottega” continuiamo a tener d’occhio Nestlè. Vale segnalare: La cittadina che ha sconfitto Nestlé, Pakistan-Nestlè: bambini che muoiono, Nestlé a giudizio, avrebbe usato… e Brasile: seicento donne occupano la Nestlé, Chi si fida di Nestlé? e anche Le multinazionali che contano sull’Ue. [db]

 

Redazione
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