Lavorando di meno

Non fare, non produrre” di Paolo Mottana e “Lavoro e natura” di Paolo Cacciari (da Comune-info)

Non fare, non produrre – Paolo Mottana

Uno dei più potenti tabù dei nostri tempi è certamente quello legato all’ozio. Figlio di una secolare e molto cristiana e poi calvinista ideologia della laboriosità e di un agire che non permetta ai demoni (specie quelli della lussuria) di manifestarsi e prendere possesso del nostro intelletto e soprattutto del nostro corpo, ha trovato il suo coronamento nella morale capitalista. La morale che finalmente ha fatto del lavoro l’unico sistema di valorizzazione dell’individuo e del suo grado di successo in ambito professionale il metro della sua statura umana. Man mano poi che l’accelerazione temporale di cui fin troppi filosofi han già parlato, la produttività, intesa anche come rapporto tra risultati e tempi e costi, nota a tutti noi come efficienza, è diventato il comandamento supremo del nostro collocarci all’interno del novero dei bravi cittadini.

Ma è fin troppo ovvia la genealogia di tutto ciò. E tuttavia, mentre per lungo tempo, quasi una risacca lunga della morale pagana (per non tirare in ballo gli orientali almeno fino a qualche decennio fa molto più astuti di noi) per la quale era considerato privilegio il non fare, l’astenersi dal fare e far fare agli altri, a sua volta inveratasi nello stile di vita aristocratico, ben scevro di ogni tentazione di farsi insudiciare e stritolare dal travaglio lavorativo, oggi il lavoro come valore (quasi un anagramma) è giunto a insediarsi, direi a sparapanzarsi all’articolo 1, dico 1 della nostra Costituzione, la beneamata carta cui tutti indistintamente, tranne i fascisti, continuano a rivolgersi per cercarvi i fondamenti del bene e del male. Qual terribile svista, quale cecità fallace, collocare lassù, in cima in cima, il valore del lavoro. Il lavoro come fondamento. Le conseguenze sono presto dette: chi non lavora non fa l’amore, come diceva la celebre quanto erronea canzone ma soprattutto chi non è occupato è giocoforza da annoverare tra i marginali, i tristi, i manchi. Ma non solo inoccupato nel senso di sprovvisto di un’occupazione, più corrivamente anche solo inoccupato nel senso di pigro, restio al fare, ozioso.

Che lavoro fai?

Tutti noi, molto spesso prima ancora di essere interrogati sul chi o sul come, veniamo immediatamente sottoposti al test occupazionale: “che fai tu?” o ancor più seccamente “che lavoro fai?”, test che misura il nostro grado di rettitudine sociale, anche nel caso la nostra attività ricada nell’illegalità più o meno scoperta, come nel mestiere di politico, di imprenditore (specie nel ramo edilizio), o di giornalista. Occhi che si spalancano di fronte alla risposta: “sono disoccupato”, che pone in fuga qualsiasi bella in cerca di ganzo ma anche qualsiasi uomo o donna in carriera nel titanico transatlantico del “prima fai, dopo pensa, eventualmente”.

Una morale ormai così conculcata nell’individuo medio del nostro universo sociale da aver ovviamente invaso anche la vita dei più piccoli. Si intende, in realtà i piccoli sono stati tra i primi ad esserne bersaglio, per i motivi già citati. L’inoperosità, l’appartarsi solitario, la siesta, lo “sdraiarsi” ben maleficato da certi stampaioli correnti, sono diventati da tempo sinonimo di destini catastrofici (leggere bene tra le righe uno dei grandi fautori dell’idiozia contemporanea, Daniel Goleman) o, comunque, un biglietto di sola andata verso il temibile spauracchio delle addiction, specie di quelle più orrende, come l’assumere sostanze che ostacolano il lavoro (non per niente negli ultimi decenni si sono affermate sostanze che non ti lasciano stare ferme neanche le orecchie) o addirittura perdersi in posture contemplative o di una sessualità come copula lenta e interrotta solo da riposo e libagioni (come predicavano i grandi libertini alla De Sade), dedicandogli tempo, dedizione e attenzione ai dettagli.

La nostra agende

Intendiamoci, intorno al disagio prodotto dal troppo fare senza capocchia si è sviluppata un’intelligente industria della ricarica che ci sforna quotidianamente sessioni di mindfulness, di yoga, di meditazione, di massaggi e agopunture, il tutto purché poi si sia di nuovo pronti per assicurare alla macchina che macina il nulla il contributo maggiorato derivante dall’essersi almeno un poco riposati.

Così i nostri cuccioli si vedono bersagliati da pubblicità in cui si incensa la loro capacità di correre per sette campi, salire cinque alberi e infilare dodici palloni nel canestro per poi fruire di impagabili barrette al cioccolato o altre misture ricostituenti e energizzanti. La quantità, la velocità, il tempo adeguatamente riempito, così come nelle nostre agende – si chiamano agende mica per niente – in cui uno spazio vuoto può precipitarci in un attacco di panico (cioè la natura- Pan – che si rifà viva per intimarci di smetterla di coglionare la vita), sono diventati gli organizzatori etici del nostro stare al mondo, fin dalla più tenera età. “Tenersi impegnati” è lo slogan infantile, sgobbare come schiavi quello dell’età adulta, anche quando ormai non ci sono più nemmeno padroni che ce lo chiedono: siamo diventati bravissimi, lo facciamo da soli. Toh, qui ho un pomeriggio libero, perché non ci metto un bel corso di Pilates?

Educazione all’ozio

A questa mistificazione drammatica della nostra società, della sua cultura induistriale e post-industriale (peggiore perché adesso il lavoro te lo porti comodamente a casa, con la scusa che ci piace…), vorrei, senza tema di affrontare uno dei tabù più coriacei, una pedagogia del dolce far niente, un’educazione all’ozio (eh si, perché bisogna reimpararlo, altrimenti è un attimo finire nel bricolage): otio, non fare (wuwei, dice quel saggio orientale), stare, godere, delibare, sorseggiare la vita, coccolarsi e coccolare, contemplare, ma soprattutto, se proprio si deve usare il corpo a qualche fine, lo si faccia purché quel fine non produca nulla, se non il puro piacere di farlo, senza ricompensa se non quella intrinseca.

Propongo, nella mia controeducazione, che almeno la metà della nostra vita, per cominciare, sia dedicata al non fare, al non produrre, a non massimizzare il plusvalore del capitale, umano, finanziario o psicologico che dir si voglia. Chiamatela pure filosofia del non fare un cazzo.

da qui

Lavoro e natura – Paolo Cacciari

È diventato un modo di dire di molti politici “responsabili”, economisti “realisti” e giornalisti “obiettivi” affermare che la “transizione ecologica” sarà “un bagno di sangue” per le imprese e quindi per l’occupazionale. Lo dicono sfacciatamente per allarmare i ceti sociali più deboli e cercare di metterli contro il processo di cambiamento auspicato anche dalla Commissione europea con il Green Deal, la legge sul clima, il Fit for 55. Ma, se non vogliamo cadere nel loro cinico gioco, sarà bene, da parte nostra, riconoscere che per rientrare nei limiti planetari della sostenibilità molti apparati produttivi inquinanti ed energivori oggi in funzione sono destinati ad andare fuori mercato, se non direttamente fuori legge, perché nocivi alla salute oltre che all’ambiente.

Qualsiasi serio processo di riconversione degli apparati produttivi in chiave ambientale non può non avere come primo obiettivo quello di ridurre drasticamente i prelievi di materie prime e il rilascio nell’ambiente di materiali di scarto non metabolizzabili dai cicli naturali. E non è garantito che tale processo possa avvenire mantenendo un bilancio economico e occupazionale positivo all’interno di ogni singola azienda, gruppo industriale o settore produttivo. La compensazione tra perdite e benefici (una just transition che non penalizzi nessuno) potrà avvenire solo nel contesto di un riassetto complessivo del sistema socioeconomico. Come è stato detto più volte, sarà possibile realizzare una green economy solo nel contesto di una green society. È quindi drammaticamente vero che senza politiche sistemiche e contestuali di riconversione industriale e rifinalizzazione dei sistemi sociali di garanzia e tutela del lavoro potremmo assistere a licenziamenti di massa ed esuberi a danno dei lavoratori meno tutelati.

Il sistema non si può più riparare

Molte delle “crisi industriali” sul tavolo di governo e sindacati sono la dimostrazione della mancanza di politiche organiche e di lunga prospettiva di trasformazione ecologica e sociale. Dovremmo, infatti, mettere in conto che il processo di “sostituzione” delle posizioni di lavoro più obsolete con nuove attività “verdi”, ecosostenibili, non avverrà automaticamente, né con la stessa velocità e per le stesse quantità. Le logiche spontanee di mercato, infatti, non rispondono alle esigenze della sostenibilità, ma solo a quelle dell’incremento esponenziale del valore delle merci immesse sul mercato. Comporre questa divergenza non è una mera questione aritmetica, di spostamento di alcune poste di bilancio da una tecnologia ad un’altra, dalle rendite finanziarie agli ammortizzatori sociali, dai profitti immediati alla preservazione di lunga durata del territorio, ma richiede un cambio dei criteri generali di valutazione del bene comune economico e sociale. Una efficace “transizione ecologica” non potrà scaturire da una impossibile giustapposizione di logiche inconciliabili, dal tracciare una via di mezzo tra l’accumulazione permanente di capitali e una vita decorosa di tutti gli abitanti del pianeta. Non pare esistano più margini di manovra tali da poter aggiustare il sistema economico dominante. Serve una vera rivoluzione del modo di concepire “questa economia [che] uccide” (Bergoglio), dell’idea di ricchezza e di benessere che discrimina e scarta, della politica asservita alla crescita dei rendimenti monetari. Insomma, una nuova forma di civilizzazione mai concepita prima.

È molto probabile che le azioni più efficaci per evitare la rovina ecologica e “guarire il pianeta” siano semplicemente quelle nature base solutions (rinaturalizzazione, afforestazione, rewilding, ecc.) che non richiedono, né grandi investimenti, né pesanti interventi umani, ma, al contrario, un drastico contenimento delle attività antropiche trasformative. Ha scritto Stefano Mancuso: “Eppure la soluzione per diminuire la concentrazione di CO2 esiste ed è semplice: piantare alberi. Non pochi: ne dovremmo piantare mille miliardi. Ma non è davvero un’impresa impossibile. I costi sarebbero irrilevanti rispetto ai benefici” (la Repubblica 23 settembre). È la stessa cosa che hanno scritto gli scienziati su Nature (Internazionale 4 dicembre 2020): riportare allo stato naturale il 15 per cento delle terre oggi compromesse dalle attività antropiche servirebbe a evitare il 60 per cento delle estinzioni previste di specie animali e a catturare centinaia di miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

Difficile immaginare una sostenibilità ecologica senza uscire dal produttivismo e dal consumismo. È necessario entrare nell’ordine di idee che per rimanere nei limiti della sostenibilità ecologica (ricordiamoli, non sono solo quelli climatici, ma riguardano anche i cicli dell’acqua, del fosforo e dell’azoto, l’acidificazione degli oceani, ogni forma di inquinamento e, in generale, la capacità di rigenerazione delle forme di vita animale e vegetale) sarà necessario ridurre drasticamente lo sfruttamento del “capitale naturale” non rinnovabile e l’utilizzo dei suoi “servizi ecosistemici”. Per dirla chiaramente, sarà necessario ridurre lo “sforzo produttivo” antropico diminuendo le quantità di beni e servizi da immettere nei circuiti dei mercati e dei consumi. Si suole dire che la sfida ecologica è quella di riuscire a “fare di più con meno”. O meglio: soddisfare i bisogni di ciascuno senza compromettere le risorse naturali e umane. In ultima istanza il raggiungimento dell’obiettivo della sostenibilità coincide con la diminuzione della quota di “lavoro vivo socialmente necessario” alla riproduzione del sistema economico. Le politiche economiche e sociali dovrebbero quindi realizzare una svolta epocale: liberare spazio e tempo da riservare ai cicli naturali e agli stessi esseri umani.

La riduzione del lavoro

È stato calcolato senza timore di errori che i prelievi di materie grezze è continuato a crescere in quantità vertiginose negli ultimi decenni, anche in presenza di politiche degli stati rispondenti agli obiettivi dello “sviluppo sostenibile”. Pensiamo alla deforestazione e al “consumo” di suolo. Pensiamo alla quantità di oggetti inerti che l’umanità prosperosa sta accumulando sulla crosta della Terra, tanto da superare in peso quella della biomassa (animale e vegetale). La cosiddetta “economia circolare” riesce a riciclare le materie prime solo per frazioni modeste e non indefinitivamente. Dal punto di vista della sostenibilità nemmeno la “green economy” è priva di impatti ambientali negativi. Pensiamo al litio e al cobalto delle batterie, ai minerali preziosi e rari che servono per gli apparecchi elettronici. Pensiamo al semplice fatto che la “digitalizzazione” richiede una quantità di energia che ha superato già oggi quella dell’intero settore aereonavale. Il paradosso studiato dell’economista William Stanley Jevons – più di centocinquanta anni fa – continua ad essere vero: in un contesto macroeconomico di tipo capitalistico i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa fanno aumentare il consumo di quella risorsa. Allora era il carbone utilizzato dalle macchine a vapore, oggi riguarda tutte le materie prime e ogni tipo di tecnologie.

Insomma, se vogliamo entrare in un processo virtuoso dobbiamo mettere nel novero delle cose che non tutta la capacità lavorativa disponibile (i “posti di lavoro” attualmente attivi) potrà essere impiegata nei processi produttivi di un nuovo mondo ecologicamente sostenibile. Ma questa eventualità non dovrebbe essere vissuta come una disgrazia per nessuno, poiché una vera transizione ecologica deve contenere in sé – pena il suo stesso fallimento – l’obiettivo della diminuzione del lavoro umano necessario al buon vivere dell’umanità. In tal modo, finalmente, obiettivi ecologici e sociali si salderebbero: lasciare più spazio alla natura e liberare più tempo di vita degli esseri umani.

Per realizzare questo sogno non serve tornare al genero di Marx, Paul Lafargue, e alle sue tesi radicali sul “diritto all’ozio”, basterebbe tornare al moderato Keynes che auspicava di “mettere in comune il lavoro superstite” e quindi prevedeva una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro (“tre ore al giorno potrebbero senz’altro bastare”) necessario a soddisfare le esigenze primarie. Una illusione fin tanto che le innovazioni tecnologiche saranno subordinate al dispositivo del profitto e non a ridurre le fatiche dei lavoratori. Liberati dall’ossessione di produrre sempre più cemento e acciaio, di scavare miniere e sintetizzare nuovi materiali, di assemblare, confezionare e distribuire in tempo reale oggetti inutili e dannosi… potremmo pensare ad altro: alla cura di noi stessi, degli altri, del pianeta.

Quel micidiale strumento di alienazione e distruzione

Vista così, la transizione ecologica non dovrà essere solo una riconversione degli apparati produttivi, ma una trasformazione sociale profonda capace di mettere in discussione cosa, quanto, come, dove e verso quali esigenze umane indirizzare la cooperazione sociale e la conoscenza scientifica. Non solo. Dovrà cambiare anche il sistema di riconoscimento sociale e di remunerazione (diretto, indiretto, simbolico) delle attività umane di produzione e riproduzione. Come ha scritto Laura Pennacchi (il manifesto 14 settembre 2021) dovremo riscoprire la triplice valenza del lavoro: antropologica ed etica, oltre che economica. Vale a dire: il lavoro deve servire a realizzare le proprie capacità, a relazionarsi con gli altri, a produrre benessere per tutti e tutte.

Costretto nel giogo del lavoro salariato, eterodiretto dagli interessi del capitale, il lavoro umano subordinato è diventato un micidiale strumento di alienazione personale e di distruzione della natura. L’unico modo per ridare centralità al lavoro è quello di riconsiderare la sua funzione sociale. La “transizione ecologica” potrebbe essere il punto di appoggio di una leva trasformativa dei rapporti sociali a partire da quelli di produzione.

Molte delle vertenze aziendali che segnano la “ripartenza” post-covid, sono originate fondamentalmente dalle contraddizioni generate da catene di creazione del valore allungate a dismisura (favorite dagli accordi di libero scambio) che portano a delocalizzare le attività povere e sporche nei Sud del mondo, da una parte, e a importare bastimenti di merci a basso prezzo per alimentare i mercati dei paesi ricchi, dall’altra. Un equilibrio che in un modo o nell’altro pagano i lavoratori e gli abitanti di ogni parte del mondo e che conviene solo ai pochi conglomerati (finanziari e industriali) transnazionali che controllano anche la ricerca scientifica, le innovazioni tecnologiche e le politiche di welfare degli stati.

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