«Non possiamo passare sotto silenzio…

il muro di separazione, le case distrutte, i cheekpoint della vergogna, la quotidiana vita sotto assedio, il grido di libertà che viene dalle carceri in cui sono detenuti moltissimi palestinesi, le continue violenze e intimidazioni che subiscono i difensori dei diritti umani sia palestinesi che internazionali». Un report dai territori palestinesi occupati da Israele (23-31 dicembre 2012) di Arianna, Marco, Matteo, Nelly e Simona

SOLO DALLA GIUSTIZIA NASCE LA PACE”

(Mahmoud Darwish)

24 Dicembre

La prima cosa che si vede lasciando Tel Aviv per Gerusalemme è il muro, odioso, massiccio, incombente: 750 km di separazione tra due popoli, nonostante l’illegalità di questa costruzione, edificata sulla terra della Palestina al di fuori della Green line.

Arriviamo a Gerusalemme est, scrigno di monumenti e scorci da perdere il fiato, ci avviciniamo al Muro del Pianto, dove gli ebrei ultraortodossi compiono i propri riti e preghiere separati dalle donne, relegate in un piccolo angolo.

Proseguiamo per la spianata delle moschee Al Aqsa e ci incantiamo davanti allo splendido azzurro della cupola della Roccia.

Qui ebbe inizio la seconda intifada in seguito alla nota passeggiata di Sharon all’interno dell’area , poi passeggiamo sulle antiche mura, lungo la via dolorosa fino ad arrivare al Santo Sepolcro.

Il nostro viaggio di conoscenza, inizia soprattutto a Betlemme, nel campo profughi di Deishe con i suoi 13000 abitanti.

E’ il più grande campo rifugiati della Palestina, dormiamo in uno dei due ostelli, nell’ Ibdaa Cultural Centre, sede anche di una fortissima squadra di basket e di diverse attività scolastiche e ludiche per i bambini.

La nostra serata si conclude con il concerto di Natale nella piazza antistante la basilica della Natività. Qui oltre al Natale si festeggia la giornata dell’orgoglio palestinese: il concerto, non a caso, inizia con la cover dei Pink Floyd “The Wall”.

25 e 26 Dicembre

La nostra unica speranza sono gli ospiti internazionali che vengono a trovarci e raccontano le condizioni di occupazione in cui viviamo: loro sono liberi e non possono tacere»

(Hafes)

Di buon mattino andiamo alla “Tenda delle nazioni”, per arrivarci da Betlemme, non si può percorrere la strada principale, breve, bloccata dagli israeliani, imbocchiamo una stradina tortuosa e ben più lunga, quella per i palestinesi.

Arriviamo in questo luogo davvero particolare, pieno di ulivi, 400 ettari di terra posseduti dalla famiglia di Daher e suo fratello Daoud dal 1916.

Tutto intorno ci sono 5 colonie israeliane, dotate di tutti i confort, mentre qui i coloni impediscono addirittura di edificare una casa per i volontari internazionali che aiutano la famiglia a coltivare la terra e con la loro presenza possono raccontare al mondo ciò che accade.

Infatti i ragazzi e le ragazze che vengono da ogni parte del mondo vivono il loro campo di volontariato in tende, da qui il nome.

C’è una disputa sulla terra, che gli israeliani vorrebbero annettersi, con un disegno preciso: dividere in due la Cisgiordania attraverso l’edificazione di una serie di insediamenti da Gerusalemme al Mar Morto.

Daher conserva però i documenti di proprietà e, aiutato da un avvocato, si sta battendo da 20 anni, per mantenere ciò che appartiene alla sua famiglia. Frequentemente deve subire le incursioni dei coloni e dell’esercito, ma non si dà per vinto.

Nel pomeriggio raggiungiamo At Twani, incontriamo Hafes, capo del comitato di lotta popolare ,organizzazione che cerca di resistere in modo non violento all’occupazione .

Dal ’67 c’è stato un susseguirsi di edificazioni di insediamenti, frutto di una feroce evacuazione di chi, i palestinesi, viveva sulla propria terra.

Chi vive in questi avamposti illegali sono ebrei ultraortodossi, aggressivi, che non risparmiano nemmeno i bambini che, per andare a scuola, devono percorrere una strada vicino alla colonia di Maon, pericolosa per loro, tanto che addirittura il governo israeliano ha dato mandato ai soldati di scortare questi bimbi a scuola, sia all’andata che al ritorno. Peccato, però, che a volte i militari non svolgono il loro lavoro di scorta, come è capitato quando eravamo là e che , quindi, i bambini siano stati costretti a fare un cammino di 2 ore per tornare a casa, anziché di quindici minuti. Per garantire l’istruzione a questi pochi alunni dei villaggi e per tutelare i pastori che pascolano le loro greggi vicino agli insediamenti , in terra palestinese, ci sono i volontari di Operazione Colomba, le cui armi di cui dispongono sono la macchina fotografica, un pc e un telefono. Questi strumenti oggi permettono di denunciare e far sapere le continue violazioni subite da queste persone , che vivono sulla loro terra.

La zona di At Twani e dei dodici villaggi vicini sono nelle mire israeliane – continua Hafes – la ragione di una simile attenzione da parte israeliana è chiara: annettere definitivamente l’area allo Stato di Israele. La zona si trova al confine ufficiale tra Cis-giordania ed Israele ed è occupata da numerose colonie e insediamenti illegali israeliani, minaccia continua alla vita della popolazione palestinese. Dichiarando l’area “zona militare chiusa” (Firing zone 918) si compie un passo verso l’annessione definitiva.

Uno scenario drammatico per 1.500 persone che vivono in quelle terre da decenni, da ben prima della creazione dello Stato di Israele e che ora potrebbero essere espulse con la forza dall’occupante.

Dal 1967 ad oggi le politiche attuate nell’area sono state volte al trasferimento forzato dei residenti in molti modi diversi: le comunità in questione non hanno accesso ai servizi di base, acqua ed elettricità si trovano in Area C ed è Israele ad essere responsabile di fornire tali servizi. Ma non lo fa. Allo stesso modo, in Area C non è permesso costruire: è necessario il permesso dell’Amministrazione Civile israeliana”.

Nel 94,5% dei casi, i permessi richiesti dalle comunità palestinesi residenti in Area C vengono rigettati. Per sopravvivere e resistere nella propria terra, i palestinesi costruiscono lo stesso. La reazione israeliana è la demolizione. “Demoliscono case, scuole, moschee, strutture agricole – prosegue Hafes – nell’obiettivo di farci lasciare le nostre terre. Altra strategia è quella della violenza: le comunità palestinesi a Sud di Hebron sono circondate da insediamenti israeliani illegali. Tutte politiche volte ad un unico obiettivo: l’evacuazione dei villaggi palestinesi, il trasferimento della popolazione verso Nord, oltre la Road 370, una strada riservata ai coloni e che Israele immagina come il nuovo confine con la Cisgiordania. Se riescono a cacciarci, annetteranno l’area e le colonie presenti allo Stato di Israele”.
Quella che si sta prospettando è una nuova
Nakba (‘la catastrofe’ del popolo palestinese, quando nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele, le milizie d’occupazione espulsero 750mila palestinesi dalle loro terre, tre quarti dell’intera popolazione) conclude Hafes:

stessi gli obiettivi, stessi i metodi. Come allora, un’azione terribile e illegale, che viola il diritto internazionale.”

Nel villaggio di Mufakara entriamo in una tenda, all’interno della quale vivono 10 persone che, di notte, stanno ricostruendo, la loro casa più volte distrutta dall’occupante, come distrutta più volte è stata la moschea e altre abitazioni limitrofe: esistere qui davvero è resistere. Dopo aver bevuto un tè con questi partigiani della pace, una sola cosa ci chiedono: “ fate sapere al mondo”.

Al ritorno ci fermiamo a Hebron, città palestinese tenuta in scacco da una colonia di 400 israeliani, proprio nel centro della città: percorrendo la parte vecchia vediamo sopra di noi una enorme rete che tutela i passanti dal lancio di oggetti, anche pesanti da parte dei coloni, cosa che mai abbiamo visto in altri luoghi.

27 Dicembre

Se questo è un uomo”

(Primo Levi)

Ore 4,30. Arriviamo al Checkpoint 300 di Betlemme, una enorme gabbia-corridoio, intervallata da diversi tornelli.

Non è cosa facile tradurre in parole un’esperienza così singolare e profonda come quella che stiamo vivendo.

La cosa che piu’ ci colpisce in questa full immmersion di sofferenze e ingiustizia e’ che questa terra sia nota ai più come covo di terroristi. Ma non è affatto così e noi lo possiamo testimoniare.

Stiamo toccando con mano la realtà di un popolo oppresso, schiacciato, umiliato, relegato in una prigione a cielo aperto. Una fila interminabile di uomini, poche le donne, attende di passare dall’altra parte del muro-prigione per recarsi al lavoro, un diritto fondamentale per ogni essere umano.

Ogni tanto rumori concitati: qualcuno scavalca la gabbia-corridoio e si lascia cadere dall’alto per poter avanzare e non rischiare di rimanere escluso dall’uscita verso una temporanea liberazione. Anche noi ci siamo messi in fila stamattina e assieme a queste persone dai volti rassegnati e mesti, abbiamo voluto vivere questo doloroso passare dall’altra parte di una terra che è stata loro rubata.

Finalmente, dopo due lunghissime ore, si ha l’impressione di aver conquistato quella libertà che è per ogni uomo elemento fondamentale per vivere.

Se per noi quest’esperienza sconvolgente è durata un solo giorno, per i nostri fratelli palestinesi questa via dolorosa si ripete giorno dopo giorno. Il loro lavoro consiste nel costruire case, suppellettili o altro proprio per chi li opprime, discrimina e sfrutta.

Ma chi sono allora i “ terroristi,” quelli che ogni giorno soffrono queste ingiustizie o chi le perpetra?

E’ facile fare la guerra, molto più difficile fare la pace”

(dottor Nidal)

A metà mattina arriviamo nell’unico ospedale statale di Betlemme, gestito da un medico speciale, Nidal.

Portiamo con noi un sacchetto di medicine, molto ben accette, perchè qui tutto serve per curare gratuitamente i tantissimi palestinesi prigionieri nella propria terra.

L’ospedale è stato aperto nel 2001, col passare del tempo si è ingrandito ed ora il sogno di Nidal sarebbe quello di poter usufruire di due sale operatorie, perchè nella zona ci sono molti campi profughi e, dopo l’invasione israeliana del 2002, sono stati isolati e sigillati diversi villaggi , quindi per tutte queste persone l’unica alternativa è rivolgersi a questa struttura.

Nidal ci racconta di se’, arrestato 25 anni fa, di suo figlio,diabetico, arrestato a 17 anni mentre lui era in Italia ad operarsi di tumore alla tiroide, probabilmente contratto durante la sua detenzione, come molti suoi compagni di prigionia.

Ci parla ancora delle torture fisiche, delle condizioni inumani e degradanti a cui era costretto con altri 33 detenuti in una piccola cella. Ha studiato in Italia, Nidal, ed ha fatto anche attività politica, come collaboratore di Arafat. Dopo la laurea è tornato nella sua terra per diventare la voce di chi non ha voce.

Continua a parlarci della sua Palestina, ci dice che al tempo di Arafat era giusto usare le armi, ora sono cambiati i tempi, bisogna parlare di pace, ma Israele non vuole.

I palestinesi hanno accettato perfino di dividere la loro terra con gli invasori, ma questi vogliono molto di più. Conclude questo intenso incontro sottolineandoci come da due mesi nessun lavoratore pubblico percepisca lo stipendio, perchè l’Autorità Nazionale Palestinese non riceve i fondi concordati con Israele, questo “è un crimine” ci dice con grande tristezza, lasciandoci, per ritornare a curare i tanti pazienti che lo aspettano.

Lasciamo Betlemme alla volta di Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, durante il tragitto vediamo la colonia di Ma’ala Adumin che in futuro, ci dicono, si allargherà fino a toccare il Mar Morto, tagliando in due la Cisgiordania, verranno cacciati dalla loro terra i beduini, che da secoli abitano queste vallate.

Si allungherà pertanto ancor di più la già lunga strada che collega Betlemme a Ramallah (strada percorribile solo dai palestinesi), questo, ci dicono, sarà la goccia che farà traboccare il vaso della rabbia palestinese.

Nel viaggio ci accompagna sempre il muro dell’aparthaid, della separazione, dell’odio, su cui tante mani hanno disegnato volti, scritte, murales di pace.

Ramallah è una città moderna, mantenuta abbastanza ricca dagli israeliani, per cercare di persuadere il governo palestinese a far cadere le sue mire su Gerusalemme.

Visitiamo la sede del governo, Al-Muqata e la tomba di Arafat, il cui cadavere è stato riesumato per accertare un suo possibile avvelenamento da sostanze radioattive.

Finiamo la nostra giornata ad Aboud, cittadina attorniata da due colonie e ricca di ulivi, ospiti di Abuna Juseph.

28 Dicembre

Pace per i palestinesi significa liberazione, per gli israeliani sicurezza”

(Abuna Juseph)

Abuna Juseph, parroco palestinese, cattolico ad Aboud ci accoglie nella sua casa e ci parla, come tutti i palestinesi che abbiamo incontrato ed incontreremo, dell’oppressione israeliana esercitata in modo violento nei confronti di chi questa terra abitava da secoli.

Ormai la disoccupazione giovanile tocca il 60%, quindi è difficile anche sposarsi, mantenere una famiglia, vivere in modo autonomo; per questo aumenta la rabbia e l’insicurezza.

Aboud era ricca di acqua, che serviva per tutti, indipendentemente dal credo religioso o dalle scelte politiche. Tutti vivevano rispettandosi ed aiutandosi.

Con l’occupazione le cose sono cambiate, l’acqua è stata rubata dalle colonie, così ora i palestinesi devono pagare quell’ acqua che è sempre appartenuta a loro.

Anche qui i coloni sono tra i più intransigenti, Abuna ci dice che queste persone sono convinte che la terra palestinese appartenga a loro (ebrei)… per diritto divino, ma una cosa ci ricorda prima di salutarci:

Ora gli israeliani sono circa sei milioni, i palestinesi al momento quattro milioni, con l’incremento demografico… fra qualche anno… saranno in maggioranza… quindi spero che le cose cambieranno… in meglio per noi!”.

A Qalqylia è notte alle 3 del pomeriggio”

(Sohad)

In tarda mattinata arriviamo a Qalqylia, più che una città è la più grande prigione a cielo aperto della Palestina, completamente circondata dal muro, alto 8 metri, ha solo una strada che funge da entrata e uscita; per questo dalle 3 del pomeriggio non si vede più il sole , il muro, infatti ne impedisce la vista.

Il Governo Israeliano ha deciso di costruire il Muro durante la Seconda Intifada, periodo durante il quale si era assistito a un picco di attentati terroristici.

In realtà è stato solo un pretesto per ridisegnare i confini geopolitici della zona, confiscare una quantità sempre maggiore di terra e di risorse preziose alla popolazione palestinese e creare difficoltà talmente grandi da costringere i palestinesi a sovraffollarsi nei grandi centri abitati e abbandonare la propria terra.

La Corte Internazionale di Giustizia, nel 2004, ha dichiarato che la costruzione del muro nei Territori Palestinesi e all’interno e intorno a Gerusalemme e’ contraria alle leggi internazionali. Ha anche affermato che Israele dovrebbe abbattere il muro e compensare chi è stato danneggiato dalla sua costruzione. Secondo l’organo giurisdizionale delle Nazioni Unite le violazioni commesse da Israele sono di due tipi.

Da una parte “violazioni dei diritti umani”:

  • diritto all’autodeterminazione
  • diritto alla libertà di movimento
  • diritto al lavoro
  • diritto a un adeguato standard di vita
  • diritto all’educazione
  • diritto alla salute

Dall’altra parte – sempre secondo la Corte Internazionale di Giustizia- le violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Nello specifico: l’infrazione degli articoli relativi al trasferimento di civili da parte del potere occupante nei Territori Occupati, il divieto di confiscare e distruggere proprietà e annettere terra, e il trasferimento forzato della popolazione del Territorio Occupato.

Nel frattempo Israele ha costruito centinaia di km di barriera.

Il muro stesso è diventato una piattaforma dove esprimere i sentimenti di rabbia e il desiderio di cambiamento, sia per i palestinesi che per i tanti volontari internazionali che affollano i Territori Palestinesi Occupati.

Prima della costruzione della barriera, Qalqilya vantava una delle economie più floride di tutta la Cisgiordania, con i suoi 85.000 negozianti che rifornivano i 32 villaggi della zona e molte delle aree israeliane limitrofe.

La disoccupazione ha raggiunto il 67 %. Il 52% delle risorse d’acqua della Cisgiordania si trovano nel Distretto di Qalqilya. Ora i 30 pozzi d’acqua si trovano dal lato israeliano della barriera e i Palestinesi hanno perso l’80 % delle loro risorse d’acqua, dovendo ricorrere all’acquisto del prezioso liquido presso la compagnia israeliana dell’acqua.

Proprio qui è stata iniziata la costruzione del muro-prigione, ce lo racconta Sohad, donna medico e attivista nella lotta contro questa allucinante assurdità.

All’inizio gli abitanti non capivano cosa succedeva, da un giorno all’altro hanno ordinato loro di andare via, hanno confiscato le loro terre per motivi militari, hanno indetto il coprifuoco: in un anno il muro era costruito e sigillava completamente la città.

Durante quell’anno i lavoratori non potevano uscire per andare a lavorare.

La rabbia aumentava e ogni giorno i militari arrestavano persone, compivano distruzioni di campi e case. Inoltre, un altro paradosso è che molti contadini si sono visti tagliare la loro terra in due dal muro, così per andare, anche oggi, a coltivare i loro campi devono attraversare il checkpoint e percorrere una lunga strada.

Per tutti noi il camminare lungo il muro è stata una delle esperienze più dolorose di tutto il viaggio.

L’ultima tappa della giornata è Jenin, altra città martire della seconda intifada: per 23 giorni gli abitanti del campo profughi resistettero al meglio equipaggiato esercito oppressore, poi, quando il cibo e le munizioni finirono, furono quasi tutti massacrati.

Il Freedom Theatre crede che il teatro e le arti abbiano un ruolo cruciale per la creazione di una società libera e sana”

(Juliano Mer Khamis, co-fondatore del Freedom Theatre)

Kaif lavora nel Freedom theatre, che con il nome Teatro delle Pietre, venne fondato da Arna Mer-Khamis negli anni ottanta.

Arna, attivista ebrea israeliana, creò il teatro e il suoi laboratori artistici per portare ai bambini palestinesi un’educazione artistica e culturale che gli era preclusa, sia per il contesto sociale, dei campi profughi dove vivevano, sia per l’occupazione militare israeliana che li privava della libertà di movimento.

Scelse di aprire il teatro nel campo profughi di Jenin, ma ben presto si rivelò molto difficile portare avanti il progetto. Il teatro venne chiuso a causa dell’acuirsi degli scontri e degli attacchi terroristici e solo dopo la Seconda Intifada, Juliano, figlio di Arna e di un intellettuale palestinese, riuscì a ricostruirlo.

Nel 2006 Juliano fa ripartire il teatro e ne diventa direttore, sarà poi ucciso a inizio aprile davanti al teatro,con due colpi di pistola mentre era in macchina con sua figlia.

Il teatro è diventato un punto di riferimento per gli artisti palestinesi, ispirando nuove forme di resistenza culturale come scuole di musica, di circo, di recitazione, di cinema, di fotografia, dedicato ai bambini e bambine ma aperto anche agli adulti.

29 Dicembre

A Gaza cristiani e musulmani sono un solo popolo, perchè vivono lo stesso inferno”

(Abuna Manuel)

Dopo la visita a un altro dei 60 campi profughi palestinesi, quello di Balata, a Nablus, dove incontriamo le donne che resistono, che vogliono imparare un lavoro e creare un luogo per proteggere i bambini dallo stress che quotidinamente vivono sotto assedio, arriviamo a Birzeit, dove abita Abuna Manuel Mussallam, classe 1938.

È stato parroco in Giordania, poi a Jenin e infine, dal 1993 e per 14 anni a Gaza.

Dopo la chiusura delle frontiere con Israele, la guerra in Libano e le azioni militari – mai terminate – nei Territori occupati, non si sbaglia a ricordarci che chi vive a Gaza, innocente o colpevole, è già vicino all’inferno, dove si muore alla giornata.

Padre Mussalam combatte la sua battaglia descrivendo ogni volta a migliaia di persone per posta elettronica o a voce quello che ha visto e vissuto senza censure.

Quello che segue è invece quanto ha consegnato a noi, dopo un lungo colloquio.
È un punto di vista autenticamente palestinese, espresso con spontaneità, che serve a capire meglio la situazione.

Noi tutti abitavamo in una grande prigione, Gaza. Potete immaginare lo stato d’animo di una nazione tenuta in catene. E non solo in senso figurato: circa la metà della popolazione palestinese è passata per le carceri israeliane. Le frontiere sono chiuse da tantissimo e ancora, in qualunque momento l’arrivo di cibo può essere bloccato al checkpoint.

Si vive in perenne compagnia della penosa sensazione di potersi ritrovare, un giorno o l’altro, senza più nulla da mangiare. Ci manca l’energia elettrica. Vivere un giorno senza elettricità è già un problema, immaginate per mesi e mesi, giorno e notte, case, scuole, negozi, ospedali… In una vita normale, alla fine di una giornata di lavoro, una famiglia può ritrovarsi, mangiare insieme, magari ricevere gli amici. Qui no. I bambini, ad esempio, che come sapete temono il buio, non si muovono più liberamente da una stanza all’altra, e a ogni rumore dall’esterno si mettono a correre, e possono urtare un muro nell’oscurità, farsi male. È successo e succede che si rompano anche un braccio o una gamba.

Di tanto in tanto, nelle case di Gaza si sentono bimbi urlare e piangere, senza un motivo apparente, e senza che noi possiamo capire veramente cosa succede dentro di loro.
Nella nostra mentalità il buio è il luogo del demonio, dei fantasmi, delle paure.
E quando l’elettricità arriva, magari per tre o quattro ore, ci sorvolano questi aeroplani israeliani pilotati automaticamente, che tra l’altro disturbano le trasmissioni televisive, e con esse la possibilità almeno di “evadere” un po’.

È una continua esasperazione, che provoca un malumore costante, profondo. A Gaza si avverte che tutti sono arrabbiati, spesso urlano invece di parlare, diventano facilmente violenti tra loro.

C’è mancanza d’acqua corrente. Noi siamo abituati ad attingere l’acqua dai pozzi, per bere, lavarci, per quanto è possibile…

Nei Territori occupati siamo di fronte a un crimine storico contro un intero popolo, la maggior parte sono bambini, donne, anziani, tutti innocenti e puniti perché vivono a Gaza.

E come è possibile parlare a una famiglia senza cibo, elettricità, acqua, stipendio?

Oggi le famiglie di Gaza sono costrette a mendicare. Ma mendicare da chi? Non ci sono persone in grado di dare qualcosa. Nei negozi si acquista cibo a credito. E il negoziante può anche accettare di riavere il suo denaro tra qualche giorno, anche qualche settimana, ma non può aspettare sei mesi… Questo dramma a Gaza è generale.

Oltre a tutto ciò, abbiamo una minaccia dal cielo, i bombardamenti. Uno qui, un altro là, oggi hanno ucciso uno, ieri un altro. Immaginatevi come tante famiglie si ritrovino insieme ormai solo nei cimiteri, perché ogni famiglia ha un martire.

Come può una nazione vivere a lungo in una situazione del genere? A un certo momento la rabbia esploderà, e sentiamo avvicinarsi questo momento. La violenza ha raggiunto perfino l’animo dei bambini, ha già invaso quello delle famiglie ed è presente nei libri di scuola.

Sono nato in Palestina nel 1938, e da allora non ho mai visto qui un giorno di pace, uno solo.
Qui i cristiani sono arabi, e fanno parte della nazione palestinese e non ci sono differenze tra cristiani e musulmani: viviamo insieme, mangiamo insieme, lavoriamo insieme.

Nelle due scuole cattoliche di Gaza, di cui sono stato il direttore, ci sono milleduecento studenti e più di ottanta insegnanti. Sono scuole miste, con cristiani e musulmani, maschi e femmine.

A Gaza ci rifiutiamo di distinguere tra musulmani e cristiani. Oggi, l’intera nazione e il popolo della Palestina, tutti soffrono insieme, condividono le medesime paure”.

Nessun popolo può continuare a vivere sotto occupazione come i palestinesi”

(Abuna Raed)

Incontriamo Abuna Raed, parroco per 10 anni a Taybeh, ora da 4 mesi a Ramallah e ci racconta della sua parrocchia, della scuola annessa aperta a chiunque, dell’attenzione per i più deboli, delle sue iniziative di pace.

Il suo discorso va diretto all’occupazione, all’assedio quotidiano che non si può tacere, ci dice “gli israeliani hanno preso l’80% della nostra terra, hanno abbattuto l’81% dei villaggi, 800.000 profughi sono costretti a vivere in 60 campi nonostante le 266 risoluzioni Onu enunciate dal 1967 contrarie all’operato di Israele.

Da allora viviamo ancora sotto assedio. La possibilità di due stati e due popoli a queste condizioni è improponibile, basta vedere gli insediamenti aumentare ogni giorno di più.. poi c’è il muro, 750 km di separazione sulla nostra terra..nessun popolo può vivere così!”.

30 Dicembre

Taybeh è una cittadina totalmente cristiana a pochi km da Ramallah.

Qui visitiamo la fabbrica della birra, fonte di occupazione per molti abitanti e sede di un oktoberfest tutto palestinese. Ci spostiamo poi nella valle del Giordano.

La strada 90 collega la città di Gerico, a sud della valle del Giordano, alla parte nord, considerata la Palestina storica.

Da un lato all’altro della strada ci sono straordinarie coltivazioni di uva, datteri, banane, peperoni che fioriscono nonostante il clima arido della regione e vengono esportati in tutta Europa. I prodotti della valle del Giordano ci mettono meno di venti ore a finire nei supermercati europei con il marchio made in Israel.

Quel made in Israel deriva dal fatto che circa il 95% della valle del Giordano é sotto il controllo civile e militare di Israele (area C) in un territorio che fa parte della Cisgiordania ma che Israele occupa fin dal 1967, controllando ogni aspetto della vita palestinese.

Circa la metà di questo territorio è abitato da coloni israeliani, mentre nell’altra metà si estendono aree dichiarate militari – nelle quali hanno luogo la maggior parte delle esercitazioni militari – e altre dichiarate riserve naturali.

Prima del 1967 vivevano circa 300.000 palestinesi in quest’area, la popolazione di oggi sfiora di poco le 50.000 unità. L’estendersi delle colonie ha reso la vita sempre più difficile agli abitanti di questa zona.

I circa 7.000 coloni detengono il controllo del 98% delle risorse idriche della valle del Giordano e hanno costruito dei pozzi che estraggono l’acqua dalla profondità del suolo, in varie zone strategiche attorno ai villaggi palestinesi.

Addirittura le tubature dell’acqua che collegano un insediamento all’altro passano nei villaggi beduini, mentre i beduini sono costretti a comprare acqua o andare a prenderla in pozzi molto lontani.

Rachid, Ibrahim e un ragazzo “internazionalista” belga ci accolgono nella loro casa, la House of Friends , e ci raccontano questa immane ingiustizia.

Non solo il problema dell’acqua è gravissimo, altrettanto grave sono le continue demolizioni di case, scuole, ambulatori.

La loro associazione la Jordan Walley Solidarity aiuta le popolazioni beduine a ricostruire ciò che i bulldozer israeliani distruggono quotidianamente.

In tutto e fino ad ora hanno ricostruito 250 case e 5 scuole e purtroppo il loro lavoro non finirà tanto presto.

Ora che siamo tornati in Italia sentiamo il dovere morale di raccontare la nostra esperienza al fianco di un popolo fiero, coraggioso, che vuole pace, terra e libertà.

Non possiamo passare sotto silenzio il muro di separazione, le case distrutte, i cheekpoint della vergogna, la quotidiana vita sotto assedio, il grido di libertà che viene dalle carceri in cui sono detenuti moltissimi palestinesi, le continue violenze e intimidazioni che subiscono i difensori dei diritti umani sia palestinesi che internazionali.

Attraverso questo semplice report vogliamo dar voce alle loro voci, sempre inascoltate.

Vogliamo credere che il silenzio assordante che permea la questione palestinese in Italia e in Europa finalmente si spezzi per portare avanti le richieste di giustizia, democrazia, libertà di milioni di nostri amici, compagni, fratelli: i palestinesi.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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