Non si dice bianco, è maleducazione

di Bernard (*)

Bernard

I figli della mia vicina di casa sostengono di avere una nonna bianca.
All’inizio faticavo a capire ciò fino a quando un giorno non mi toccò accompagnarli all’oratorio insieme alle mie due sorelle.
Se siete stati adolescenti (ma non dirmi?) e non avete avuto la fortuna di avere dei fratellini più piccoli, beh allora vi siete persi una gran bella cosa! Io ho questa fortuna e non mi stancherò mai di dirvi che sono loro a tenermi i piedi per terra.
Dicevo, mi capitò un giorno di accompagnare l’allegro gruppo di bambini all’oratorio (fortuna vuole che a vivere in frazione, bastano due passi e si è già a destinazione) quando la più piccola dei figli della mia vicina iniziò a tirarmi per la giacca. “Tu che non ci credi, adesso ti faccio vedere che ho veramente una nonna bianca”. Le si leggeva l’orgoglio in volto. Che ciò fosse perché a differenza delle mie sorelle lei poteva affermare di possedere una nonna e di poter esibire ciò quanto le pareva, oppure perché possedeva la capacità, o meglio il potere, di abbattere la convenzione che vuole un individuo della stessa etnia come famigliare stretto. “Dai muoviti!”,
“e smettila!” la ammonì la mia sorellina più grandicella: notavo nella sua voce un leggero fastidio, la capacità di esternarlo è un dono di famiglia.
Arrivammo, dunque, vicino a una casa quando all’improvviso la bambina cominciò a urlare “Ciao Nonna! Ciao!”. L’imbarazzo non era poco, mi ritrovavo in piazza con una bambina che gridava al vento in cerca di sua nonna.
Con mio grande stupore, ecco uscire da una finestra una signora anziana, un sorriso splendente, con in mano una manciata di caramelle.

“Ciao nonna!”.
“Ciao piccolina!”.
“Noi andiamo all’oratorio”.
“Allora divertitevi, ciao!”.
All’istante mi fu tutto chiaro: mi venne in soccorso il ricordo di un’anziana signora che veniva indicata da alcuni miei amici come nonna. Io la mia vera nonna l’avevo conosciuta per davvero e nessuna poteva sostituirla. Questi però avevano della propria nonna un’immagine confusa e si aggrappavano al primo volto anziano gentile che mostrava affetto, un sostituto nell’attesa di incontrare quelli veri. Rividi il loro sguardo, ora quegli amici li ho persi di vista, ma si ricorderanno ancora delle loro “nonne”?
“Bernard, vero che non si può avere una nonna bianca se si è marroni?”, mi domandò la mia sorellina più piccola una volta arrivati a casa, al che quella più grandicella non ce la fece più a contenersi e con veemenza ci scrutò entrambi:
“Non si dice bianco, è maleducazione!”.
“Come si dice, allora?”.
“Non si dice”.

Non mi rimase che darle ragione. Mi sentii orgoglioso perché finalmente, forse per la prima volta, i diversi non eravamo noi e con orgoglio ci rifiutavamo di evidenziare la diversità dell’altro.

“Però possiamo dire che è italiana”, aggiunse.
“E uno marrone (come ci tengono a evidenziare) italiano come lo chiamiamo?”.
“È sempre italiano, no?”.

(*) Ripreso da «Anfor-hà!». Bernard (18 anni) si presenta così: «Sono nato nell’epoca sbagliata e cresciuto nel Paese meno azzeccato. Sono un immigrato di seconda generazione, il che significa che sono italiano a metà perché ho genitori africani e io stesso sono africano. Il tutto sembra contorto e complicato, ma io ci sto comodo. Questo è il mio diario e area di raccolta delle idee. Scrivo (vivo) e leggo (sopravvivo): http://anforha.blogspot.it». Sotto «Anfor-hà!» si precisa «Diario di un afro-italiano in crisi» e poi si legge. «Non ho idea di dove io vada, ma so da dove vengo. È questo l’importante?».

 

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