Nonviolenza pragmatica e violenza

di Alfonso Navarra (*)  

Quando, nel dicembre 1984, pubblicai su «Al Magliocco», il bollettino dell’International Peace Camp di Comiso, un mini-saggio sulla disobbedienza civile, mi si sarebbe potuto definire un “brigatista nonviolento”. Chiarivo (speravo) a me stesso e agli altri il concetto-chiave della lotta nonviolenta, con lo spirito del neofita che ha abbandonato da poco (dal 1980, per la precisione con l’adesione alla Loc, Lega obiettori di coscienza) la predicazione marx-leninista sulla “necessaria violenza rivoluzionaria, levatrice della Storia” con altrettanta apoditticità dogmatica sull’efficacia dell’azione nonviolenta ovunque e comunque.

Sullo stesso bollettino è ospitata la mia “brigatistica” dichiarazione contro i giudici che mi impongono il foglio di via dalla provincia di Ragusa e mi negano la libertà provvisoria (ero entrato nella base missilistica di Comiso con altri 9 antimilitaristi il 4 agosto 1983). Finisco per scontare complessivamente 8 mesi di carcere, in sostanza volontari:

«I processi di gennaio e febbraio (1985) non dovranno giudicare le azioni dirette nonviolente, che lungi dal costituire un reato, rappresentano invece un tentativo, compiuto nello stato di necessità determinato dalle armi nucleari, grave minaccia in atto che mette in pericolo la vita di tutti, di impedire che sia consumato un gravissimo reato contro l’umanità, contro la democrazia, contro la pace».

Questi processi giudicheranno, di fronte all’opinione pubblica, i responsabili della militarizzazione e dello stravolgimento delle regole del gioco democratico. Questi processi dimostreranno che a essere “fuorilegge”, a essere “terrorista”, è il regime che si prepara ad usare l’arma nucleare, violando il diritto internazionale e la Costituzione che dovrebbe applicare.

«Accuserò il governo e le altre articolazioni del “regime dello sterminio” di persecuzione politica, finalizzata a perpetrare un crimine contro la pace e contro la Costituzione italiana: l’espulsione degli antimilitaristi e dei pacifisti a Comiso è solo la più odiosa tra le tante forme con cui il governo insiste nella sua scelta repressiva. Dichiarerò di riconoscermi nel movimento che esercita il “diritto di resistenza”, per la delegittimazione di un potere che sta calpestando le sue stesse leggi, ed il conseguente dovere della disobbedienza civile, per la realizzazione dal basso degli obiettivi che costituiscono l’alternativa reale al sistema militarista: il disarmo unilaterale e la difesa popolare nonviolenta».

E via di questo passo, contro i “mezzucci di bassa lega” adottati allora (ma anche oggi) dalla magistratura. Fino alla pirotecnica conclusione:

«Il coraggio di riempire le prigioni, perché si rifiuta con coerenza, in ogni manifestazione della propria vita, la collaborazione con gli stermini in atto e con quelli futuri, è sempre stata la condizione di ogni conquista nonviolenta: lo sarà anche in questa nostra lotta per il disarmo, la pace, un mondo migliore».

Oggi ritengo si debba essere non “assoluti”, anche solo nel modo di esprimere le proprie convinzioni, ma relativamente relativi, e, diciamo così, professo una nonviolenza pragmatica, strategica, politicamente e non eticamente focalizzata; una nonviolenza disposta ad ammettere che – sempre premettendo che la violenza istituzionale organizzata costituisce il terreno vincente per il Potere oppressivo – in certe circostanze e in certi contesti, si può e si deve (sempre se non esiste altra scelta) fare ricorso a forme di “violenza efficace” popolare e dal basso (così come le definisce la filosofa femminista Luisa Muraro). Anche perché, in concreto, molte di queste forme non costituiscono, come chiarirò in successivi post, vera “violenza” e vengono così chiamate perché – e la cosa risulta di grande utilità al potere violento – esiste una confusione semantica tra forza e violenza.

E’ per questo che, a esempio, non mi scandalizzano gli “assalti” al cantiere di Chiomonte portati avanti dal Movimento popolare della Valle di Susa contro il Tav (con l’aiuto di gruppi organizzati provenienti anche dall’estero); anche se reputo più opportuno che, soprattutto nell’odierna fase di lotta, la strategia di assalto venga sostituita da quella dell’«assedio»: e mi pare che proprio in questa direzione più intelligente (se si valuta il rapporto costi-benefici), privilegiando i blocchi stradali rispetto al bombardamento dei petardi, si stia di fatto muovendo l’opposizione alla Grande Opera Inutile ed Imposta.

Difendo quindi le “legittime” forme di lotta non istituzionali (come le chiama Gianni Vattimo) e ritengo blocchi stradali, picchettaggi, piccoli sabotaggi (che danneggiano cose e non persone) non ascrivibili al sovversivismo e meno che mai al terrorismo verso cui si sta indirizzando la magistratura, “di regime” ieri come oggi, con in prima fila – non dovrebbe meravigliare più di tanto – il “girotondino” Giancarlo Caselli.

La vera grande violenza è quella di chi scarica strutture sconvolgenti e pericolose sulla testa di popolazioni che devono solo tacere e subire. Ma la risposta deve essere appropriata, non una reazione disperata su un terreno perdente in partenza: la forza dell’unità popolare, guidata dall’intelligenza strategica, alla fine può e deve prevalere (è quella che io definisco “condotta nonviolenta”, ma non bisogna rimanere schiavi delle parole).

 

Ed ecco l’articolo «Disobbedienza civile» di Alfonso Navarra pubblicato su «AL MAGLIOCCO» nel 1984.

 

Con la moda della nonviolenza si è contemporaneamente avuta l’inflazione di alcune espressioni, spesso usate l’una come sinonimo dell’altra:

  1. Disobbedienza civile
  2. Non collaborazione attiva
  3. Obiezione di coscienza
  4. Azione diretta nonviolenta.

 

Ma qual è il loro esatto significato? Proviamo schematicamente a spiegarlo.

Prendiamo come punto di riferimento centrale la disobbedienza civile – dc. Non bisogna identificarla, come oggi il più delle volte si fa, nell’“insieme delle forme di lotta nonviolenta caratterizzate dall’illegalità”.

L’essenza del metodo non è la semplice violazione di una legge ingiusta: occorre anche accettare la pena per quella violazione.

Questo sicuramente serve a far risaltare ancora di più l’ingiustizia della legge. Ma c’è un motivo più profondo per questo modo di comportarsi: la disobbedienza civile non ha nulla a che spartire con il rifiuto della legge in sé, anzi è la prassi che «esprime in realtà il più alto rispetto della legge» (Martin Luther King).

La disobbedienza civile, insomma, si rifà al principio socratico che «una legge ingiusta è meglio di nessuna legge», vale a dire che nessuna società civile può mantenersi tale se non è regolata dal diritto (dinamico quanto si vuole, ma sempre con un certo grado di istituzionalizzazione).

Si viola una legge, ma si crede nella Legge!

Quando si parla di “spirito” della disobbedienza civile, contrapposto alla mera “tecnica”, si intende appunto questa visione del diritto come parte della struttura essenziale della società.

A questo punto possiamo precisare la distinzione fra disobbedienza civile e azione diretta nonviolenta: mentre nella prima la violazione della legge è il cuore dell’azione (insieme alla pena conseguente), nella seconda la trasgressione delle norme è mezzo “incidentale” per raggiungere uno scopo pratico (blocco, sabotaggio, ad esempio) o simbolico (la ridicolizzazione delle Forze Armate nella contro parata del 3 giugno 1984 a Roma).

La disobbedienza civile (nonviolenta) si propone di “risvegliare la coscienza della comunità sull’ingiustizia di una legge” affinché la legge sia cambiata; il fine dell’azione diretta nonviolenta sta invece nell’azione stessa:l’azione diretta nonviolenta è cioè pratica dell’obiettivo. Quando i pacifisti bloccano il Magliocco a Comiso, non si propongono di cambiare la legge sui blocchi, ma di impedire praticamente i lavori di costruzione della base missilistica: la loro è azione diretta, non disobbedienza civile, anche se l’elemento illegalità è entrato in gioco.

Analogamente all’obiezione di coscienza, nella disobbedienza civile è in gioco anche l’elemento “coscienza”. La disobbedienza civile scatta da una ribellione della “coscienza” nei riguardi di una legge in vigore, formalmente legittima.

Ma bisogna fare attenzione: la “coscienza di cui si parla non ha il senso di “variabile tutta interna ad un individuo, arbitraria ed imprevedibile”. Si tratta dei “principi di coscienza” quali sono formulati nelle leggi fondamentali che sottendono la convivenza sociale: il diritto internazionale (la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), la Costituzione italiana.

L’idea, insomma, è quella di vari livelli della legge: chi pratica la disobbedienza civile rifiuta di sottomettersi ad una “legge derivata”, che ritiene in contrasto con la sua fonte, il “livello più alto”, quello in cui la legge coincide con il principio di coscienza.

L’azione illegale è immediatamente richiesta di legalità: si infrange una legalità formale per richiamare l’esigenza di una legalità sostanziale.

L’obiezione di coscienza è più individualistica, è, in un certo senso, la rivendicazione di un privilegio, di un trattamento speciale: non chiedo l’abolizione della leva ma sono io che voglio essere esentato dal militare. Non chiedo l’abolizione del bilancio della difesa, ma io non voglio contribuire con le mie tasse alla spesa per armamenti.

L’obiezione di coscienza è rivendicazione di un diritto civile soggettivo: la disobbedienza civile indica invece un nuovo dovere sociale.

La disobbedienza civile non è semplice rifiuto, ma insubordinazione: rispetto all’obiezione di coscienza ha un carattere più attivo e provocatorio: “offensivo”, per così dire. Se, non pagando le tasse, ci si propone l’obiettivo istituzionale dell’abolizione del bilancio della difesa, non si avrebbe più obiezione, ma disobbedienza fiscale.

Il punto comune tra disobbedienza civile e noncollaborazione attiva è l’elemento del rapporto con le autorità. Tutt’e due mirano, se la disobbedienza civile si pratica nella sua forma generalizzata, alla delegittimazione di autorità che sono giudicate “tiranne”, “usurpatrici”: autorità che tradiscono le istituzioni e le leggi che sono incaricate di far funzionare.

C’è chi usa la noncollaborazione attiva come sinonimo di “resistenza civile nonviolenta”: in tal caso l’espressione ingloberebbe in se anche la disobbedienza civile. Il suo significato sarebbe infatti: l’insieme delle forme legali ed illegali della lotta nonviolenta.

Altri invece intendono la noncollaborazione attiva come la forma di resistenza attuata nell’ambito della legalità: ad esempio il boicottaggio ottenuto attraverso l’applicazione pignola dei regolamenti. Se non erriamo, Gandhi tende ad usare in quest’ultimo senso il termine (ma non sempre).

La disobbedienza civile non sempre assume questo valore politico, generalizzato, di attacco frontale alle autorità vigenti: ciò avviene quando è inserita in una strategia di noncollaborazione attiva, o di resistenza civile nonviolenta, che dir si voglia.

La campagna gandhiana sul sale è un esempio della disobbedienza civile nella sua dimensione politica: il problema non era tanto abolire la tassa, quanto distruggere la “presa” del colonialismo inglese sulle masse indiane.

Per concludere, riassumiamo gli obiettivi che si propone la disobbedienza civile:

  1. affermare il valore delle leggi fondamentali,
  2. equivalenti ai “principi di coscienza”, di cui si esige il rispetto;
  3. delegittimare, disconoscere autorità usurpatrici;
  4. promuovere una disposizione attiva alla ribellione contro l’ingiustizia, fondata sulla responsabilizzazione individuale;
  5. educare al coraggio di pagare di persona per impedire la violazione dei propri diritti.

(*) Alfonso Navarra è obiettore alle spese militari e nucleari (confronta www.osmdpn.it)

 

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