Normalità e mondi possibili nella fantascienza sociologica/2

tesi di laurea di Lorenzo Tosarelli – SECONDA PARTE (*)

KarelThole-corpi

COSTRUZIONE DELLE NORME E DELLA REALTÀ SOCIALE

3.1 Personalità sociali

Abbiamo visto come l’immaginario in cui naviga la fantascienza si nutra di mondi possibili, di deviazioni dall’ovvio, di allontanamenti dal “reale esplicito”. Questo “reale” nella storia della sociologia è stato abbracciato con molteplici approcci e con diversi obiettivi. Alcuni autori si sono mossi al suo interno alla ricerca di definizioni proprio per provare a estrapolarne delle implicazioni significative. In La realtà come costruzione sociale, Berger e Luckmann hanno cercato di analizzare i parametri entro cui si legittima questa “realtà”, ovvero come nascono, si istituzionalizzano e si legittimano il linguaggio, la conoscenza, i saperi attraverso cui interpretiamo il mondo. Invece di soffermarsi sul linguaggio, le scienze sociali guardano alle contingenze storiche che portano all’affermazione di un appellativo piuttosto che un altro. La formazione del linguaggio è definita da una negoziazione sui significati, dipendente da rapporti di forza e capacità retoriche, e dalla legittimazione dei termini, ovvero dalla capacità di mobilitare e ordinare valori ultimi. Gli autori hanno cercato a più riprese di dimostrare il modo in cui l’alterità viene costantemente inserita nei codici di “normalità” per farla combaciare e darle un significato: «Finché continuano senza interruzione, le routines della vita quotidiana sono percepite come non problematiche. Ma anche il settore non problematico della realtà quotidiana è tale solo fino a nuovo avviso, cioè fino a che la sua continuità è interrotta dalla comparsa di un problema. Quando questo avviene, la realtà della vita quotidiana cerca di integrare il settore problematico in ciò che è già non problematico, Che porta a ridurre la dissonanza cognitiva, l’indeterminatezza e la paura del reale. La conoscenza del senso comune contiene una varietà di istruzioni circa il modo in cui ciò deve essere fatto. La riflessione è sempre inserita in uno schema di dominazione e presenza di più poteri che si intersecano: paragonate alla realtà della vita quotidiana, altre realtà appaiono come sfere di significato circoscritte, situate inevitabilmente all’interno della realtà dominante, contrassegnate da significati e modi di esperienza limitati» (Berger e Luckmann, 1966, corsivo mio).

Nella relazione entra in gioco il negoziato, quindi il potere. Il punto di vista può variare, ma in relazione alla tipizzazione, potremmo dire al “coefficiente normalizzante” che gli corrisponde. L’incontro diretto è quindi influenzato dalle routine, dalle tipizzazioni.

Un autore sui generis come Erving Goffman ci esplicita i dubbi che attraversiamo nell’incontro con le realtà fantascientifiche attraverso un’accurata analisi delle relazioni interpersonali e dei codici che utilizziamo per la ricezione delle conferme dell’ambiente in cui siamo inseriti. Questi codici, immersi nelle situazioni sociali, ci aiutano ad avere un’idea coesa di società, attraverso continue nozioni implicite di normalità. Il modo in cui gli individui si trattano l’un l’altro esprime definizioni degli individui stessi. «Si tratta di una definizione “virtuale”; essa è basata sui modi di comprendere della comunità ed è alla portata di chiunque ne faccia parte» (Goffman,1969, p.370). Significa un codice sottinteso, dato per scontato, quasi mai preso in considerazione o analizzato e tuttavia approvato dalla maggior parte dei membri di una società. L’insieme di queste definizioni “date” costituisce “la persona” dell’individuo. Essa è parte dello stesso individuo esattamente quanto il “sé”, ma spesso la definizione che un individuo dà di se stesso è diversa da quella che gli viene data. Spiega Goffman: «Quando questi diversi rapporti che l’individuo può avere con ciò che gli altri possono vedere di lui vengono codificati e diventano abituali, allora si possono definire personalità e carattere» (Ibid., p.371).

Tutto ciò può svilupparsi liberamente, singolarmente, soggettivamente e a piacimento del caso nelle infinite complessità umane, tuttavia deve essere organizzato, regolato e normalizzato nel momento in cui si entra in società; la norma diventa perciò un bisogno e una necessità. La normalità deve esprimersi in società attraverso la norma, essa ne è la condizione principale, una necessità del vivere sociale. In questo caso Goffman, e ancora di più nella scuola etnometodologica, sviscera i meccanismi dell’ovvietà, riportando alla luce, come uno scrittore di fantascienza, i “mondi possibili” attraverso l’accurata analisi delle strutture implicite che regolano il vivere relazionale. La regola è il nucleo significante di riferimento. Secondo Goffman la norma, o regola sociale, è «qualunque indicazione diretta a far scegliere un certo tipo di azioni in quanto appropriate, adatte alla situazione, corrette e moralmente giuste. In questo processo sono coinvolte tre parti: la persona che può legittimamente aspettarsi e esigere di essere trattata in un certo modo, conforme alla regola; la persona che è obbligata ad agire secondo la regola; la comunità che rafforza la legittimità di queste aspettative e di questi obblighi» (Ibid., p.372). La comunità che, come vedremo con Durkheim, è la forma più alta di vita psichica in quanto coscienza di coscienze, non è in sfondo né ricopre un ruolo marginale ma è da considerarsi come un soggetto con specifiche forze e influenze. Il carattere di un individuo non è isolato, bensì un carattere sociale. Attraverso la socializzazione l’individuo formula supposizioni su di sé. Esse non sono isolate ma delineate dai rapporti che egli instaura con le persone che lo circondano, approvati o meno dal gruppo. «L’individuo tende a organizzare la propria attività come se il punto chiave sia ciò che egli suppone di sé. Presuppone cioè che la sua parte di aspettative e di obblighi nei confronti del gruppo gli verrà suddivisa in base (e come conferma) di ciò che egli presume di sé» (Ibid., p.374).

Tutta questa organizzazione dell’individuo funziona perché gli altri fanno lo stesso. Il sé e la persona vengono a coincidere. Non esiste il sé individuale senza il sé sociale, collettivo. «Se la regola obbliga a fare qualche cosa nei confronti degli altri, egli diviene, per sé e per loro, il tipo di persona che agirebbe spontaneamente nel modo correttamente delineato da ciò che è espresso nel suo comportamento. Se invece la regola lo porta ad aspettarsi che siano gli altri a fare qualcosa nei suoi confronti, allora egli diviene per sé e per loro una persona il cui carattere è correttamente indicato da ciò che implica questo modo di trattarlo» (Ibid., p.373).

Se questa definizione di sé viene accettata, l’individuo può solo assicurarsi che la norma venga seguita, cosa che gli consente di essere ciò che pensa di essere. Per questo motivo è di fondamentale importanza per i singoli individui la consapevolezza di muoversi in una normalità conosciuta, familiare, gratificante nella misura in cui gli restituisce l’idea che lui ha di sé. E se la definizione non viene accettata, oppure la norma non viene seguita? Qui sta un punto cruciale su cui tantissima fantascienza ha cercato risposte, perché da questa rottura non vengono screditati solo gli individui coinvolti (in virtù del loro ruolo traditore della norma o tradito), ma in una certa misura la società stessa, parte (anche se piccola) della definizione della comunità che li contiene.

3.2 Disgregatori e ordine sociale

Anche nel monumentale lavoro di Émile Durkheim possiamo trovare degli apporti alla nostra riflessione. Cercheremo dunque di riprendere sinteticamente alcuni passaggi della sua opera che sono alla base delle considerazioni goffmaniane, senza le quali sarebbe però stata più difficile la decifrazione di questo paragrafo nella prospettiva da noi intesa. Ecco il motivo dell’inserimento di questa sezione a testo inoltrato. Un passo indietro, dunque. Per Durkheim «la società è un fenomeno sui generis: i caratteri di cui dispone sono di un genere tutto particolare, differenti e non riducibili alla natura del soggetto umano» (G. Navarini, Teorie dell’azione sociale: I classici, 2005, p.72). Anche la coscienza (la società è al suo livello ultimo, come coscienza di coscienze) (Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, 1912, p.509) è un insieme di fenomeni prodotti dalla vita in società. «L’espressione sui generis designa allora la natura sociale, cioè non individuale e non sostanziale ma strettamente collettiva dei caratteri propri della società, il primo dei quali è quello di possedere una coscienza collettiva» (Navarini, Ibid., p.72). Le azioni sociali sono definibili: sono fatti sociali. «È proprio lo stare all’esterno dell’individuo che assegna a questi fatti quella forza di obbligazione che verrebbe meno se ciascun individuo li percepisse totalmente come suoi, come frutto del suo privato singolo pensiero» (Ivi, p.74). Esse sono come istituzioni e, in quanto tali, impongono vincoli.

La coercizione delle azioni viene prima di tutto dalla struttura sociale stessa, dall’organizzazione rituale in cui siamo inevitabilmente inseriti. «Pensando le istituzioni collettive, assimilandole in noi, le individualizziamo e imprimiamo loro più o meno la nostra impronta personale; […] Ognuno di noi si costituisce in una certa misura la sua morale, la sua religione, la sua tecnica. Non esiste conformismo sociale che non comporti tutta una gamma di sfumature individuali; ciononostante, il campo delle variazioni permesse è limitato. Esso è nullo o debolissimo nella cerchia dei fenomeni religiosi e morali, in cui la variazione diventa facilmente un reato; è più esteso per tutto ciò che concerne la vita economica. Ma, presto o tardi, anche in questo ultimo caso si incontra un limite che non può essere varcato» (G. Navarini, Ibid., p.74). Questo è il motivo per cui vediamo come vero ciò che è già nelle nostre cornici e contribuiamo al rafforzamento delle strutture implicite che tengono coese il nostro gruppo sociale. «La società è possibile solo in quanto rappresentazione collettivamente costruita e come tale percepita» (G. Navarini, Ibid., p.75). Ciò che impone il suo significante morale sopra gli altri universi possibili è frutto di un partage foucaultiano, ma ha conseguenze direttamente reali che costruiscono il reticolo morale su cui si fondano le nostre relazioni, il nostro ordine. Durkheim lo chiama prestigio. «La costrizione sociale deriva dal prestigio di cui sono rivestite certe rappresentazioni, ed è per il prestigio che queste hanno che ci dominano, ci impongono certe credenze e certe pratiche. […] Il prestigio di una rappresentazione sociale equivale alla sua forza di unire moralmente ciò che è diviso sul piano individuale, ed è prodotta da un agire in comune» (Ibid.). Intende i riti, ed ecco il grande passo che possiamo fare ora, dopo aver letto Durkheim e le riflessioni di Goffman. «L’ordine sociale per Durkheim ha una natura morale; essa è resa possibile dai simboli e dalle rappresentazioni collettive che scaturiscono dalla vita sociale realizzata in comune, soprattutto dai vincoli che essa impone» (G. Navarini, Ibid., p.76). Nei riti si dispiega l’ordine morale, si costruisce nell’interazione. «L’ordine morale è quindi il substrato della società: ciò che spingendo a tener conto degli altri vincola gli individui tra loro, cioè alla società, mantenendola in vita come un tutto coeso. Per generare coesione sociale questa spinta deve lavorare innanzitutto su un piano cognitivo e simbolico» (Ibid., p.77).

Gli individui dovranno rappresentarla come cosa, a formare una coscienza collettiva. Queste regole, questi rituali, queste rappresentazioni ed espressioni simboliche sono moralmente caratterizzate. Sono il collante dei rapporti societari, basati sul prestigio e sulla costrizione di certe rappresentazioni o, volendo, discorsi. La loro messa in discussione è una violazione comunitaria ed è tanto più radicale, quanto più oltrepassa le cornici simboliche dov’è incluso il nostro agire. «La libertà individuale dei corsi di azione è possibile proprio perché vincolata dal fatto di tenere conto del posto di ciascuno all’interno del grande organismo di cui è parte» (Ibid.). Uscirne è la deviazione per eccellenza. «L’essere umano è colui che riconosce di essere parte di una comunità morale. […] Dunque l’individuo non può agire senza sentire sopra e dentro di sé le obbligazioni e i legami derivati dall’appartenenza alla comunità morale» (Ibid., p.78). Vi è un fattore per Durkheim che indirizza l’azione nella norma, una sorta di fiducia solidale fra gli uomini, la solidarietà collettiva, la vita sociale. Di conseguenza: «L’utilità individuale non è un requisito per l’ordine sociale. Il contratto economico non genera la solidarietà ma la presume: dunque, non è la razionalità, né la convivenza bensì la solidarietà ciò che rende possibili le attività di genesi e di riproduzione della società» (Ibid., p.79).

Essa però va rinforzata da norme sociali, e ancora di più: «l’individuo è un essere che dipende dalla società: solo in essa si completa in quanto persona. Senza l’interiorizzazione delle norme, infatti, gli individui non potrebbero agire in quanto esseri umani, non riuscirebbero cioè a configurarsi, a livello cognitivo, l’orizzonte di possibilità in cui poter inscrivere i propri corsi di azione» (Warner, 1978, in Navarini, p.81). I fatti sociali e le norme derivanti sono creati in società e in essa contestuali. Ogni prodotto umano è riconducibile a essa. «Persino il culto dell’individuo non è qualcosa di soggettivo o naturale ma un fenomeno sociale, una rappresentazione, un prodotto dei fatti sociali incorporati nella divisione del lavoro» (Ibid., p.83). Consideriamo infatti anche l’individualismo come norma sociale, collettiva.

«Se l’ordine morale dipende anche dalle rappresentazioni collettive che la società fa di se stessa e dei suoi membri, in che maniera vengono a darsi queste rappresentazioni?» (Ibid., p.91). Esse, abbiamo detto, sono moralmente vincolanti, nella misura in cui sono sacre, «ma il sacro non è un attributo della religione istituzionale bensì della stessa vita sociale o, meglio, è costruito da quelle forme dell’azione umana che hanno la caratteristica religiosa di unire. I rituali collettivi sono cioè il momento in cui l’individuo ritrova sia l’energia per continuare a vivere nella società sia il linguaggio necessario per comprendere ciò che in essa accade» (Ibid., p.94). Il disgregatore svolge quindi un’attività molto radicale, mette in discussione l’ordine morale. «Egli mina negli altri l’idea che esista un modo comune di intendere il posto sociale di ognuno e che questo sia il giusto modo di organizzare la propria attività quotidiana» (Goffman, Op cit., p.392). C’è un punto sul quale Goffman insiste: per lui il sé è la chiave di lettura dell’individuo, è l’accesso al suo ruolo sociale e il comportamento che mette in atto nell’organizzazione in cui è inserito. «Se un individuo non offre […] una definizione funzionale di sé che coloro che gli sono più vicino possono accordargli attraverso il rispetto che gli dimostrano, egli li blocca, li intralcia e li minaccia […]» (Ibid., p.398).

Per questo, quando la rottura è così esplicita, spesso si cerca di far ammettere al malato mentale la propria malattia; e ciò che si cerca è una cosa ben strana, continua Goffman: «Se le azioni rituali sono un mezzo per mantenere un’immagine di sé costante nonostante le deviazioni del comportamento, allora ammettere di essere malato di mente è la più grave azione rituale che esista poiché questa presa di posizione annulla anche le deviazioni più macroscopiche» (Ibid., p.397).

La chiave di lettura più proficua di questi lavori dovrebbe essere attraverso il famoso “principio di ribaltamento” foucaultiano, magari nella maniera convenzionalmente utilizzata dagli etnometodologi. L’esperienza di questa radicale diversità, ci suggerisce Goffman, è l’unico modo per osservare ciò che è implicitamente sotteso nelle definizioni del nostro quotidiano. Il senso comune, il non-detto, il dato per scontato che, in quanto più visibile, è il meno ovvio da analizzare, ma costituisce anche la chiave di lettura indispensabile per capirsi più a fondo. L’esperienza della diversità di questo tipo di studi è molto simile ai tentativi della fantascienza sociologica di trascinarci all’interno di realtà che rispondono a cornici di comprensione del tutto diverse da quelle che ci si può aspettare dalla “vita in società”.

Gli autori della fantascienza più radicale e critica sul loro presente possono prendere il posto o aprire una porta sulla prospettiva di alterità che Durkheim ironicamente attribuisce ai “piantagrane”: «Il maniaco rinuncia a tutto ciò che può essere una persona, e rinuncia anche al tutto che costituiscono per noi questi rapporti di reciproca sorveglianza. Nel farlo […], ci fa notare che cosa sia questo tutto, e di conseguenza ci accorgiamo di quanto poco esso rappresenti in realtà. Impariamo una lezione analoga da tutti gli altri piantagrane che non stanno al loro posto» (Ibid., p.424).

  1. IL SAPERE DELL’ (IM)POSSIBILE. LA PAROLA AI FANTA-ANALISTI

    1. Fantascienza, critica teorica e cambiamenti reali

Lo scopo della fantascienza è svegliare il mondo sull’orlo dell’impossibile”

Theodore Sturgeon

Abbiamo cercato di riprendere alcune delle tematiche trattate nei capitoli precedenti attraverso la riflessioni di due esperti e appassionati di fantascienza sociologica. L’incontro con personalità e professionalità tra loro differenti è stato utile per chiarificare come applicare ai percorsi storici, sociali e personali i concetti socio-fantascientifici presi in esame precedentemente. Il ruolo della fantascienza e delle sue correnti più critiche, lo slancio verso possibilità future delineate dai contemporanei, sono questi e molti altri i punti che abbiamo toccato nella conversazione con Nino Salamone, sociologo e scrittore di fantascienza, e Daniele Barbieri, giornalista, esperto e appassionato di fantascienza.

Nino Salamone ha insegnato sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano dal 1990 al 1998 (Sociologia dell’organizzazione, Sociologia Economica e infine Sociologia). Negli stessi anni è stato docente di sociologia industriale e del lavoro presso l’Università Bocconi di Milano. È professore associato all’Università di Milano Bicocca (Facoltà di Sociologia), dove insegna storia del pensiero sociologico e sociologia della cultura. Oltre alle pubblicazioni in campo sociologico, è autore di numerosi romanzi di fantascienza.

Daniele Barbieri è collaboratore del quotidiano L’unione sarda e di mensili Cem-mondialità, Come Solidarietà, ecc. In precedenza è stato redattore al quotidiano L’unione sarda di Cagliari, al mensile Politica ed Economia (1984-1988) e collaboratore del quotidiano il manifesto (per molti anni) e di numerose riviste. Autore di libri per la scuola e di saggi. Il più recente è Quando c’era il futuro: tracce pedagogiche nella fantascienza, scritto con Raffaele Mantegazza (per la Franco Angeli) e uscito a novembre 2013. Occasionalmente autore di testi teatrali in forma classica o per laboratori formativi.

A Salamone le connessioni che abbiamo provato a stringere fra questi due mondi sembrano un’evidente realtà: «La connessione tra immaginazione sociologica e immaginario nella fantascienza sorge spontanea. Esiste un filone della fantascienza, forse uno dei più grossi, che in Italia è stata chiamata “fantascienza sociologica”. Perché sin dalla sua nascita la fantascienza si è occupata e ha affrontato temi che riguardano la società, dall’esistenza di Dio agli effetti dell’automazione… La primissima fantascienza ha come oggetto “le meraviglie della futura tecnologia”, e perciò possiamo trovare “super-inventori” e “super-macchine”. Tuttavia molto presto, già dalla fine degli anni Quaranta, vede la luce un nuovo filone di racconti sulla società. Il legame è pressoché immediato. La fantascienza nasce quasi come una forma popolare di critica sociologica».

La fantascienza guarda al possibile, ribalta i mondi. Di fronte alla richiesta di riflettere sulla percezione e la modifica della realtà come dato unilaterale, Salamone ci narra la sua messa in discussione: «La fantascienza sociologica è sì una messa in discussione del “mondo così com’è”, e anche di “come potrebbe essere”. C’è un racconto che narra di un tizio di classe media, buono stipendio, bella casa, bella moglie, eppure è fortemente a disagio». È una semplice intuizione, ma profondamente significativa; quindi continua: «Si reca ogni mattina al lavoro, che consiste nel controllare le lavatrici nella catena di montaggio (siamo negli anni cinquanta, è comprensibile). A un certo punto c’è l’interruzione di questo disagio. Non gli piaceva premere il bottone. Questo banalissimo racconto mette in discussione l’idea che “con una casa, una moglie e un posto fisso stai a posto”. Ecco, quello non stava a posto.

C’è sempre una messa in discussione, sia dello status quo sia di quello che potrebbe essere».

Ci prepariamo quindi ad affrontare gli sviluppi pratici di un pensiero critico, le conseguenze e le prassi che possiamo annoverare tra le conquiste del pensiero fantascientifico. Partiamo dalla riflessione sul fatto che una grossa fetta della sociologia si è occupata di mettere in discussione le strutture dominanti, o gli apparati discorsivi, lo status quo, il “dato per scontato” nelle micro relazioni, questionando quindi la realtà come dato unilaterale. Sembra proprio di parlare di fantascienza; ne discutiamo insieme a Daniele Barbieri, giornalista, esperto e appassionato di fantascienza: «Sì, una grossa fetta della sociologia, della filosofia e del pensiero del Novecento ha messo in discussione le strutture dominanti, semplicemente esaminandole, raccontandole, svelandole». Daniele Barbieri è autore, insieme a Riccardo Mancini, del saggio Di futuri ce n’è tanti, otto sentieri di buona fantascienza (Avverbi, 2006), dove esplora i mondi del possibile attraverso la forma di “guida” alla buona fantascienza. Lungo il testo, e con noi nel corso dell’intervista, Daniele riflette sul ruolo critico e sul potenziale immaginifico che ancora oggi può esprimere questa corrente narrativa. L’idea critica della messa in discussione delle strutture dominanti e del potere, sostiene Barbieri, non si è limitata alla proliferazione del pensiero e alla riflessione teorica, ma si è estesa anche ad aspetti pratici della società: «Mettere in discussione gli statuti separati, come si diceva, le istituzioni totali, (totali nel senso che hanno delle leggi che non corrispondono a quelle che la società si è data) ha prodotto dei risultati non solo teorici e di pensiero, ma anche leggi, prassi e conseguenze molto pratiche».

Per inserire in una prospettiva storica il percorso di critica che ha mosso la fantascienza fino ai giorni nostri: «non c’è dubbio che nel passaggio tra Ottocento e il secolo in cui viviamo, la messa in discussione dello status quo è stata importante, ha prodotto risultati pratici, non solo dei libri (che sono naturalmente importanti, ma che a volte non riescono a condizionare e mutare le pratiche, la realtà più tangibile)». In particolare, ricorda Barbieri, nel corso di quelli che in economia vengono chiamati “i trent’anni d’oro”, all’incirca dalla fine della guerra al 1975. Questo fenomeno a un certo punto si interrompe. «[…] I rapporti di forza nella società, che sono sanciti dalla politica, dall’economia, dai risultati di un conflitto che dovrebbe essere alla base della democrazia (anche se poi viene negato), un conflitto in cui, ora, risultano di nuovo vincenti quelle che per comodità definiamo classi dominanti».

Tutto questo lavoro del pensiero si trova interrotto, osserva Barbieri, messo in discussione, e si fotografa come aumenti la tendenza a contro-riformare la politica attraverso quelle che sulla carta prendono il nome di riforme. Perciò, se attraverso queste osservazioni sembra di parlare di fantascienza, è perché la critica più radicale e più motivata (radicale nel senso di andare alla radice), ha spesso trovato un punto di collegamento tra la narrativa e le conseguenze reali dei processi storici. «Se invece il “sembra di parlare di fantascienza” indica un’accezione linguistica un po’ deteriore che fa della fantascienza qualcosa di impossibile, io non l’accolgo, perché considero la fantascienza una letteratura positiva che, nelle sue punte migliori, ha la capacità di confrontare i domani possibili, i sentieri che potremmo percorrere, ma non abbiamo ancora percorso, che abbiamo trascurato o che certe volte sono stati chiusi, per questo ne do una valutazione positiva».

La fantascienza ha messo in discussione fin da subito la realtà come dato unilaterale, «ma il fatto che la realtà non sia un dato unilaterale lo hanno sottolineato e messo in discussione anche la filosofia, la sociologia e la fisica del Novecento, gli statuti delle più varie discipline. Amo molto una frase di Paul Watzlawick che dice: “fra tutte le illusioni, la più pericolosa è credere che esista una sola realtà”».

Barbieri ci racconta le immagini di questo relativizzare: dal pensiero più alto alla tavoletta del cesso, compreso tutto quello che c’è dentro, chi lo guarda vive in una realtà e in un pensiero diverso dagli altri. «Se sei tra i padroni del mondo, guarderai quel libro di filosofia o quella tavoletta del cesso in modo radicalmente diverso dal poveraccio che invece non è padrone di niente, e che spesso non ha neanche la tavoletta del cesso. Quindi la guarda come un oggetto alieno».

La fantascienza, in letteratura, può quindi avere avuto lo stesso ruolo dissacrante e a tratti persino disturbante che certa sociologia può aver avuto nelle scienze umane, sottolinea Barbieri riprendendo una nostra domanda. C’è di più: spesso la fantascienza è stata utilizzata in modo compensativo, con parole e idee che in altri campi era impossibile trovare. «In un famoso libro degli anni Cinquanta, A cosa serve l’abbondanza di David Riesman, si parla dell’ipotesi che a un certo punto la società altamente tecnologica (quella dei robot immaginati in maniera antropomorfa) avrebbe creato un corto circuito con la questione del lavoro necessario, del lavoro umano. Per spiegare questo corto circuito, David Riesman, che apparteneva alla scuola sociologica statunitense, si serve di un romanzo breve di fantascienza che si intitola Il morbo di Mida, di Frederik Pohl».

Perciò la fantascienza sociologica, sottolinea Barbieri, nutre questa connessione con la realtà (con le realtà), perché è quella che ha provato a guardare non a quello che succederà in un mondo lontanissimo o in un futuro abbastanza lontano, ma a quello che succederà dopodomani. «Lo ha fatto uno scrittore italiano, non di fantascienza, ma che ha usato anche la fantascienza: Primo Levi che, anche se non tutti lo sanno, ha scritto buona fantascienza. E lo hanno fatto gli americani della “scuola sociologica” con risultati apprezzabilissimi. È appena scomparso Umberto Eco; un paio di volte, anzi, molte volte, Eco utilizzò la fantascienza per descrivere il mondo reale. Quando scoppiò il movimento del ’77, definito da tutti gli analisti “incomprensibile”, per far capire quale fosse la novità di quel movimento, Umberto Eco scrisse un articolo molto famoso in cui utilizzava proprio il racconto di un autore di fantascienza, Robert Sheckley».

E proprio Sheckley ci torna utile per ragionare su come il pensiero critico si possa tradurre in riforme molto pratiche: «[…] In Italia mi viene da pensare soprattutto allo statuto dei lavoratori (in via di abrogazione, ormai), e alla riforma Basaglia, che pure è stata svuotata di molti suoi contenuti e viene spesso ostacolata, tornando a casi di detenzione obbligata, non cura, stigma come avrebbe detto Goffman)». Sheckley, ci racconta Barbieri, scrive un lungo racconto chiamato L’accademia, dove immagina un mondo in cui una mattina, al posto dei parchimetri, per le strade ci sono gli alienometri. Sheckley fa un lavoro profondamente sociologico (sullo stesso tema Dick, genio delirante, scriverà un romanzo bellissimo che si chiama Follia per sette clan) e ci presenta un’importante osservazione: «Immaginate che esistano gli apparecchi che misurano la salute mentale (non importa che questo sia possibile o meno, anche perché nessuno è così sicuro che uno psichiatra sia effettivamente in grado di definirti, incasellarti in quella malattia o in quell’altra). A questo punto, se la definizione scientifica di malattia mentale è così discutibile, perché pensare che sia del tutto impossibile che esista una società in cui si fabbricano macchine misuratrici di normalità?».

Possiamo portare un altro esempio per dimostrare che non importa che sia possibile o meno, perché il solo fatto di essere pensabile lo rende già interessante. Analogamente, Brian Aldiss, ne La lampada del sesso (1961), immagina una società in cui, prima quasi per gioco tra i fricchettoni, poi per moda, e infine per legge, tutte le persone sono costrette a portare una specie di piercing che mostra l’intensità del loro desiderio sessuale. «Scrive con sagace umorismo ciò che accade quotidianamente per arrivare a una conclusione interessante, per dire che “ci si abitua a tutto”. Riporta infatti il dialogo di due personaggi che dopo tanti anni si ritrovano e ricordano che scompiglio avesse creato un evento così da poco».

Questo “ci si abitua a tutto” è una concetto interessante in relazione al cambiamento tecnologico, perché l’importanza della fantascienza, cioè di un settore del fantastico, è riuscire a unire il fantastico e la scienza, o meglio, la scienza e la tecnologia. Nel Novecento, secolo in cui scienza e tecnologia hanno invaso le vite di tutti, nel bene e nel male, una letteratura che prova a ragionare sui desideri e sulle paure che ruotano intorno a questa innovazione tecnologica è molto importante. Non l’ha fatto abbastanza la filosofia, ci dice Barbieri, non l’ha fatto abbastanza forse nemmeno la sociologia; la letteratura fantascientifica invece lo ha fatto per statuto, giocando con punte alte, basse, ma pur sempre in maniera stimolante.

«Anche perché la fantascienza forse non se n’è resa conto subito. Ma noi oggi, facendo un bilancio, possiamo dirlo: il primo corto circuito che viene a crearsi nel secolo in cui la tecnologia ha invaso le nostre vite, è che noi non le conosciamo, non le studiamo queste tecnologie. Perciò la maggior parte della gente ogni giorno usa un congegno altamente tecnologico, e in qualche modo viene condizionata da ricerche e scoperte scientifiche, senza conoscerne le regole minime. Il corto circuito che si è prodotto io l’ho chiamato “tecno-vudù”. Se non ne conosciamo le regole, useremo sempre queste tecnologie come magie. Se non ne conosco le regole, ad accendere la lampadina può essere stato il folletto Babadù!».

4.2. La fantascienza e il suo futuro

La fantascienza, oggi, riesce a guardare al futuro? Nino Salamone ci risponde in maniera possibilista: «In certa misura sì, lo fa ancora. Anzi, direi che la fantascienza più recente affronta il tema ecologico (non solo attraverso la catastrofe) e il rapporto con la tecnologia.

Il futuro comprende da sempre sia l’utopia che la distopia, che non sono scindibili, sono cose che stanno insieme. E quindi c’è sempre l’entusiasta della tecnologia e quello che semina dubbi. Nella fantascienza è lo stesso: la fantascienza parte in quarta tra gli anni Venti e Trenta con le meraviglie della tecnologia. Ma al suo fianco c’è sempre l’aspetto problematico, critico, distopico. Ed ecco infatti che dopo verranno Orwell, Huxley con Il mondo nuovo, e ti si presenta un mondo che dal punto di vista tecnologico è perfetto, ma che rappresenta comunque un momento distopico». Oggi, sostiene Salamone, ci troviamo di nuovo in un momento distopico. Tuttavia le utopie resistono, come in ogni epoca. «Oggi ci sono i sacerdoti di internet, i “signori della rete”, Zuckerberg. Hanno costruito un’ideologia intorno a internet e, in sintesi estrema, l’idea che la tecnologia, in questo caso la rete, possa risolvere ogni problema: “basta avere l’app giusta e risolvi ogni problema”». Il concetto alla base, ci dice Salamone, è quello di costruire per mezzo di internet un mondo migliore, che è un tipico atteggiamento utopico. C’è un’utopia che resiste e il nostro mondo oscilla tra il progresso e la catastrofe.

«E l’atteggiamento del singolo utente è contraddittorio, perché da una parte può avere paura del surriscaldamento globale o della sovrappopolazione, e magari anche della tecnologia stessa… ma anche chi è in ansia per i possibili disastri della tecnologia lo smartphone lo compra lo stesso e lo usa con piacere». Da questo punto di vista, la divisione progresso/catastrofe passa dentro ognuno di noi. Perché, sostiene il professore, la lettura della desertificazione e dei ghiacciai che si sciolgono non pregiudica l’acquisto delle ultime tecnologie, da bravo consumatore. Insomma, “puoi leggere, informarti e sensibilizzarti, ma se esce la macchina che si guida da sola, te la compri!” «E magari un autore di fantascienza potrebbe avere un dubbio. “Se indico la direzione a questa macchina, e lei ci va… tu che fai, intanto?”».

Guardare al futuro; l’analisi di Barbieri sembra positiva: la buona fantascienza deve continuare a farlo. «Quegli scrittori che, con o senza quest’etichetta, si muovono sul terreno della fantascienza, lo continuano a fare. Lo faranno in modo banale, reazionario, rivoluzionario o progressista in base alle loro idee, ma il potenziale critico c’è ancora». È però offuscato da due elementi: il primo è che nella generale disaffezione alla lettura, anche la fantascienza, per quanto fosse popolare, ha perso molto pubblico. L’altro è la paura. «La gente adesso preferisce il fantasy alla fantascienza perché negli ultimi anni non c’è più un misto di paura e desiderio rispetto al futuro. Un misto di timore e curiosità, di desiderio di andare in contro a questo futuro, a un possibile cambiamento migliore. Oggi prevale la paura. Il fantasy è preferito perché è più rassicurante. È una letteratura già scritta. E poi spade, maghi, draghi e principesse rispondono meno ai problemi dell’energia atomica, dei viaggi nello spazio. Dobbiamo farli? Perché non dobbiamo farli? L’ecologia? Come finirà il pianeta? Quello che “il futuro” su base scientifico-tecnologica rappresenta, ci fa paura».

Nonostante l’etichetta del genere conosca una grossa crisi, alcuni scrittori e scrittrici continuano a servirsi di questo “grimaldello” per scardinare i futuri più o meno vicini. Io amo molto Robert Sawyer, dice Barbieri, riportandoci il più semplice da riassumere tra i suoi romanzi: la trilogia WWW (Mondadori, 2013). «Lì, nel massimo dell’espansione tecnologica, “nella rete”, c’è addirittura un’entità che nasce e che (colpo di scena rispetto alla fantascienza pessimistica e apocalittica) non è contro gli esseri umani, ma si allea con quella che, mi sento di definire insieme a Sawyer, è la parte migliore dell’umanità. E quindi in un certo senso è contro “la parte peggiore dell’umanità”, rompendo subito così la neutralità di certa fantascienza in cui ci sono gli umani e gli alieni, il mondo minacciato dalla catastrofe e la catastrofe…».

La questione significativa, sembra dirci Barbieri, è che c’è sempre chi la catastrofe l’aiuta e chi no, chi ha il potere e chi no, che gli alieni possono essere buoni o cattivi esattamente come i terrestri sono buoni, cattivi, o pessimi, e così via… ed è una riflessione che sembra subito interessante se applicata ai discorsi dominanti. «Il fatto che la scienza e la tecnologia vadano veramente a vantaggio di gran parte dell’umanità» continua Barbieri, «è una cosa che alla piccola parte dell’“umanità dominante” non piace. Loro lo negheranno sempre, ma è così. Rileggevo proprio l’altro giorno l’assurdità di grandi produttori di lampadine che un giorno, a inizio secolo, si incontrarono per introdurre un piccolo difetto nelle loro lampadine, in modo che potessero rompersi. Negli Stati Uniti c’è ancora una famosa caserma in cui sono stata depositate le lampadine precedenti a quest’accordo. Lì le lampadine sono le stesse di 120 anni fa! È una stupidaggine, certo, ma è anche la conferma di una famosa frase di Bertolt Brecht: quanto si inventa molto per l’uomo e molto contro l’uomo, ma quello che si inventa per l’uomo viene spesso nascosto. Il senso è che chi ha il potere nasconde spesso cose che potrebbero andare a beneficio della maggioranza».

CONCLUSIONI

Nel primo capitolo abbiamo affrontato la questione scientifica della produzione della verità. Il tema, spiccatamente foucaultiano, si è delineato attraverso la riproposizione dei concetti di Partage e Disciplina, introducendo il lettore in una prospettiva critica di approccio ai saperi. Le basi teoriche presentate per l’analisi della produzione della verità sono state lo spunto per delineare i confini della fantascienza sociologica e dei suoi contributi in ambito scientifico.

La riflessione sul potenziale produttivo della fantascienza sociologica alla luce del pensiero foucaultiano è stata costruita principalmente sul lavoro di Antonio Caronia, accademico milanese, figura di rilievo per la critica fantascientifica in Italia. Abbiamo notato come le riflessioni di Caronia sulla scientificità della fantascienza e le nozioni di verità avessero bisogno di un’applicazione pratica nel tema della fantascienza come prodotto sociale inserito in un contesto storico, ragione per cui nel secondo capitolo ci siamo concentrati sulle peculiarità della fantascienza come genere letterario e, nello specifico, sul ruolo che l’immaginario riveste in essa. Attraverso il pensiero di Jedlowski abbiamo delineato il percorso storico della narrativa fantascientifica, dalla nascita ai suoi sviluppi per noi maggiormente significativi, soffermandoci anche sulle interconnessioni più esplicite con il mondo sociale. Oltre all’immaginario, infatti, con Jedlowski è stato importante lavorare sul tema dell’utopia e del ruolo che questa ha avuto nella letteratura in quanto motore di cambiamento e dinamismo.

Nel terzo capitolo abbiamo preso in esame la definizione di normalità nel pensiero di importanti sociologi come Goffman, Garfinkel, Berger & Luckmann. Abbiamo provato a dimostrare come questi riferimenti teorici transdisciplinari siano stati di fondamentale importanza per il collegamento con la narrativa fantascientifica presa in esame.

Parallelamente abbiamo definito il corpo della social science fiction e circoscritto le tematiche più significative per lo sviluppo della nostra riflessione, estrapolando da questi riferimenti fantascientifici le intuizioni teoriche della letteratura sociologica di riferimento. Abbiamo esaminato la critica e l’apporto che gli autori sopracitati hanno lasciato alla disciplina e la rilevanza teorica che potrebbero rivestire all’interno della sociologia, soprattutto in quanto materiale dal fortissimo potenziale divulgativo. Nel loro lavoro abbiamo messo in luce le connessioni più nitide e adatte a sviluppare un discorso sulla normalità e l’alterità che non facessero capo solo alla letteratura scientifica.

Lungo il testo abbiamo avuto occasione di muoverci tra diversi percorsi sociologici, soprattutto tra sociologia e fantascienza, entrando quindi nel vivo della narrativa.

La conclusione si è articolata nel quarto e ultimo capitolo, dove abbiamo cercato una corrispondenza empirica attraverso il contributo diretto di esperti, lavoratori, “produttori” del mondo della fantascienza sociologica.

Nino Salamone e Daniele Barbieri sono stati la voce implicata nella produzione quotidiana di questa tipologia divulgativa, e in quanto tali hanno assunto un ruolo centrale per ridelineare le connessioni tra sociologia e fantascienza. È stato proficuo indagare insieme a loro il ruolo che oggi la fantascienza sociologica riveste in quanto motrice di cambiamento e dinamismo culturale, e sondare in che misura ritenessero la disciplina un passaggio utile per le riflessioni sull’alterità e lo status quo. Importante ai fini del lavoro è stato il tentativo di coglierne il potenziale utile alla comprensione del nostro presente politico-sociale. Convinti che un’integrazione interdisciplinare possa essere importante per lo sviluppo critico della sociologia, abbiamo cercato di entrare con loro nel vivo delle tematiche analizzate nei primi due capitoli, nella speranza che tale integrazione possa in un futuro essere proficua e significativa.

RINGRAZIAMENTI

Un grazie a tutte le persone che durante questi anni di studio sono passate, anche solo per poco tempo, lungo il mio percorso. La lista sarebbe davvero lunga, e comunque sempre incompleta. Devo ringraziare prima di tutto gli amici, di diverse parti d’Italia (e non solo) che sono sempre stati un grande supporto e uno sguardo importante. La mia famiglia, i miei genitori, i miei fratelli, che ci sono stati e ci saranno sempre, la parola Grazie associata a loro perde quasi significato. Ringrazio in particolare i miei compagni di corso, Tiziano, Andrea, Giulia, Valeria, Matteo, Giulio e Laura per i momenti vissuti insieme, e tutti gli altri sociologi e amici che sono passati per queste aule, per questi spazi, e che con me hanno condiviso qualcosa. Ringrazio il Casa Loca, vera anima di incontro della Bicocca; ringrazio i professori più significativi, quelli che lasciano un segno. Non c’è bisogno di nomi, loro lo sanno. Grazie a Nino Salamone per essersi prestato con entusiasmo alla mia intervista. Grazie a Daniele Barbieri, amico, che è un aiuto e una risata da moltissimo tempo, da molto prima che iniziasse la stesura di questa tesi. Ringrazio le persone che con me hanno vissuto e condiviso il senso di avere una casa. Grazie ad Atenea, e Federico, amico fedele. Grazie infine a Federica, che ha revisionato la tesi e che mi sta accanto ogni giorno.

La cosa, vera, che si dice a questo punto, è che senza tutti questi bellissimi esseri umani o alieni che siano, nessuno dei miei successi sarebbe stato possibile.

BIBLIOGRAFIA:

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Barbieri, D., Mancini, R., Di Futuri ce n’è tanti, Avverbi edizioni, 2006, Roma.

Barbieri, D., Salamone, N., Comunicazione personale, febbraio 2016

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Sheckley, R., L’accademia, in Mai toccato mani umane, Urania, 1962.

(*) L’illustrazione è di Karel Thole. La prima parte di questa tesi è uscita in “bottega” 7 giorni fa. Precisavo allora che non sono SEMPRE d’accordo con l’impostazione della tesi o con le analisi di Antonio Caronia ma comunque mi sembra un bellissimo ragionare e per questo ho chiesto all’autore di poter postare la tesi. Se in qualuna delle frasi che Lorenzo Tosarelli qui mi assegna … risulto confuso ovviamente la colpa è soltanto mia. Forse rimedierò/ho rimediato in altre occasioni, nel cosiddetto passato o nei futuri possibili. Però di una imperdonabile pigrizia devo scusarmi con Lorenzo e con chi leggerà/ha letto. Non ho cercato – nella mia mente, in primo luogo – la citazione esatta di Bertolt Brecht, in «Me-Ti, libro delle svolte», e l’ho banalizzata; eccola restituita nella sua verità. «Me-ti diceva: si inventa molto a favore degli uomini e molto contro di loro. Le invenzioni a loro favore vengono messe a tacere. Quelle a loro danno promosse. Se uno inventa una lampada che non si consuma mai per decenni, l’invenzione viene comprata dai fabbricanti di lampade non perché queste lampade si fabbrichino, ma perché non si fabbrichino. Se uno inventa un tipo di contenitore che fa rincarare il combustibile, e quindi fa oscurare le abitazioni dei poveri, allora l’invenzione la si compra per metterla in esecuzione». Lampadine appunto come quelle reali e fors’anche come quelle dei “tre desideri” di Aladino. Altri sentieri, mondi diversi, penultime verità, ambigue utopie, visioni persistenti, cristalli sognanti, futuri possibili. Ma per costruire un futuro… bisogna prima sognarlo. (db)

 

Redazione
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Un commento

  • Bellissimo…. davvero una tesi ben fatta… la sociologia della letteratura può essere un modo ottimale per accostarsi a una analisi puntuale del reale… bravo, Lorenzo… e bravo anche Antonio Caronia… 😀

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