Notizie da Ventimiglia / 2

Intervista di Angelo Maddalena a una volontaria del centro di accoglienza dei migranti: un colloquio per sapere, capire e agire.  


Ieri (*) ho rivisto P. dopo qualche mese. Lei abita a Ventimiglia. Ci eravamo persi di vista prima dell’estate. Ad aprile aveva aperto la sua casa per ospitare un mio spettacolo di “teatro in casa”.

Qualche giorno fa una ragazza eritrea di 16 anni è stata “falciata da un camion”, come titolavano le pagine locali dei quotidiani nazionali di sabato scorso. La ragazza stava cercando di attraversare la galleria che da Ventimiglia porta verso la frontiera con la Francia. Molti ragazzi e adulti lo fanno, rischiando la vita per cercare una vita nuova.

Mentre io e P. gustiamo un caffè (lei) e un crodino (io) al bar vicino la biblioteca, lei indica un po’ stizzita una persona che sta passando. Mi dice che è una di quelle che animava, la scorsa primavera, un comitato per ostacolare di aprire un centro di accoglienza al Parco Roja (centro che poi è stato aperto). Mi ricordo che avevo sentito dire di genitori che protestavano perché non volevano un centro di accoglienza vicino alla scuola dei loro figli; chiedo a P. se si tratta di quello e mi dice di sì, cioè che lì vicino c’è una scuola. La stessa persona che è passata poco fa spesso scrive per denunciare le condizioni e i trattamenti poco dignitosi del Centro di accoglienza per migranti di Roverino, quello dove P. fa volontariato ormai da diversi mesi. Ovviamente la “denuncia” della persona – come quella di tanti altri fascistoidi e razzistoidi travestiti da “preoccupati per le condizioni dei migranti” – non è per difendere i migranti, ma per dire: «non siamo in grado di accoglierli, o si fa bene o non si fa, quindi meglio non farlo» (sono posizioni ambigue e schifosamente viscide cavalcate anche da politicanti biechi come la “giovane” Meloni di Fratelli d’Italia e altri personaggi simili).

P. dice che al campo di Roverino si cerca di migliorare ogni giorno: le condizioni della struttura sono quelle che sono e certo non si possono modificare, occorrerebbero altre strutture e altri luoghi più dignitosi, ma in mancanza d’altro meglio di niente. Aggiunge che diverse persone vanno ogni tanto a “ispezionare” il campo di Roverino per verificare le condizioni dei migranti (con un atteggiamento simile a quello di Salvini quando va nei campi Rom, per capirsi). Alla mia domanda se si potrebbe evitare di farle entrare, P. mi dice che «se poi non la fai entrare va a dire che vogliamo nascondere qualcosa». In effetti non capisco bene come è regolato l’accesso al campo e chiedo spiegazioni: la donna a che titolo entra? Come presidente del comitato antiaccoglienza? Mi viene da ridere amaramente pensando a questa ultima domanda.

P. mi risponde che si cerca di lasciare un accesso libero a tutti ma anche di proteggere i migranti da curiosi, impiccioni e personaggi simili. Si sarebbe voluto organizzare al campo più spesso qualche momento di svago ma si evita di dare troppo fastidio al vicinato sempre sul piede di guerra: esacerbare la situazione sicuramente non gioverebbe agli ospiti del campo.

P. spiega che le difficoltà per i migranti non finiscono neanche quando entrano in un percorso di legalizzazione chiedendo asilo, o facendo domanda come rifugiati. Trovare case da affittare per famiglie o persone singole che hanno avviato la domanda di richiesta di asilo politico in attesa di ricevere lo Status di rifugiato politico, è un miracolo. Mi dice che lei e altri della Caritas hanno chiesto a un’agenzia immobiliare: sono riusciti a ottenere un appartamento da affittare per un nucleo familiare solo dopo molta insistenza e dopo aver presentato documenti che attestano agevolazioni a chi affitta.

Chiedo a P. «ma chi paga?» dopo aver sentito le cifre. Paga la prefettura, paghiamo tutti noi. Ecco dove finiscono i mitici 35 euro al giorno: in spese di gestione e ai migranti vanno solo 2 euro e 50. Non sempre precisa P. «Ci sono cooperative che gestiscono sperperando e altre no». Mi racconta di una proposta – a un’azienda del territorio – che hanno fatto loro della Caritas, come rete di volontari e di famiglie che curano l’accoglienza di alcuni migranti; si tratterebbe di far lavorare un richiedente asilo, pagando il suo stipendio con i soldi che lui percepisce dalla prefettura, così lui si sente meno passivo e dopo che avrà ottenuto lo status di rifugiato politico potrebbe lavorare pagato dalla ditta che nel frattempo lo avrà conosciuto e sarà più disponibile ad assumerlo. Per chiarire: i 35 euro al mese il richiedente asilo non li percepisce più dopo che avrà ottenuto lo status di Rifugiato politico e si ritrova dopo mesi, diciamo anni, di assistenza a non poter più essere aiutato; deve farcela con le sue gambe, come se i documenti che riceve fossero chiavi che aprono porte o soldi con cui pagare affitto cibo ecc… Altra disillusione dopo aver atteso tanto i documenti perché sembrava che non si potesse fare niente senza documenti e tutto con i documenti, quando si ritrova con i documenti in mano… il migrante sta peggio di prima.

P. mi dice che dopo la morte della ragazza di 16 anni investita dal camion in galleria «bisognerebbe fare qualcosa, non si può rimanere in silenzio». Aggiunge che sicuramente e tristemente aumenteranno i controlli militarizzati all’ingresso della galleria. Le dico che mi sono intristito per aver visto sul giornale, il 4 ottobre, dei migranti che hanno regalato rose ai ventimigliesi, in segno di “pace e bellezza”. Un bel gesto in sé, portato avanti da alcuni richiedenti asilo, però il gesto è stato fatto anche nei confronti delle istituzioni e la foto del giornale ritraeva il sindaco di Ventimiglia e altri due assessori sorridenti con quattro o cinque richiedenti asilo africani con i fiori in mano. Era coinvolta anche Delia, che gestisce il bar Hobbit dove accoglie migranti e per questo ha perso molti clienti locali! Una cosa non quadra: il sindaco è lo stesso che ha dato ascolto ai commercianti i quali non volevano il Centro di accoglienza a Ventimiglia nei pressi della stazione perché «i neri che bazzicano nelle strade dei nostri negozi danneggiano le nostre attività commerciali». E’ lo stesso sindaco che ha approvato un’ordinanza dove prevede multe e avalla repressione nei confronti di chi aiuta con cibo e sostegno materiale i migranti.

P. dice che è un modo per pulirsi la coscienza anzi per pulirsi la faccia. P. ha partecipato quest’estate all’università di Liverpool a un convengo sul tema dei migranti e della frontiera, quindi le chiedo di dirmi qualcosa al riguardo. Lei mi spiega il tipo di intervento che ha fatto e lo riassume con queste parole: «L’intervento per intero sarà pubblicato su una rivista di teologia, tieni conto che era un convegno di teologi, questa è la parte finale del mio intervento: Abitare al confine per me significa vivere a pieno la condizione umana. Abbiamo bisogno di confini per costruire la nostra identità, ma abbiamo bisogno di superarli per essere pienamente noi stessi e realizzare il nostro dover essere. Varcare le frontiere è ciò che facciamo da quando nasciamo, nascere infatti è passare la frontiera tra l’essere e il non essere. Il frutto del superamento di questo limite è il dono della vita. Se continuiamo a vivere in una dimensione donativa ogni giorno costruiamo la nostra identità varcando la frontiera tra noi e gli altri assumendo la responsabilità di ciò che facciamo, di quello che gli altri hanno fatto di noi. Abbiamo bisogno di confini, di limiti per scoprire come è bello superarli coltivando il desiderio dell’oltre, dell’altrove sull’esempio di Gesù. Lui ha varcato con l’incarnazione la frontiera tra il divino e l’umano: si è fatto per noi la strada per varcare la frontiera tra l’umano e il divino nell’essere l’amore vivendo il comandamento nuovo dell’amarci gli uni gli altri come Lui ha amato noi».

(*) inizio ottobre 2016, Ventimiglia

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