Notte stralunata – di Mark Adin

Chi ci difenderà dal nero della notte? Dove attingere la vibrazione di luce, il sintomo vitale? E’ cruccio dell’insonne munirsi di una luce, schiodarsi dal coperchio buio, scardinare la volta del cielo e presto guadagnarne l’uscita. La luce artificiale, sparsa sovrabbondante su città stupide e proterve, inquina la visione delle stelle dissipando utile energia, cancellando il disegno che ci ha guidato nella profondità del tempo, desertificando la notte. Prosciugati i pozzi della luce, ci resta ultima, sul nero opaco e fondo, la prodigalità della luna.

Il trionfo della sua pienezza può sconvolgere, la sua forza immensa attrae maree, sì, ma soprattutto ci avvicina a sé, seduce. Bisogna lasciarla fare, non è imprudente esporsi, fossimo Pierrot Lunaire, piuttosto che pastori erranti dell’Asia, testimoni del lamento in morte di Ignacio Sanchez Mejias o recuperatori del senno di Orlando.

La soggezione alla maestà sorgente e declinante, durante il cui regno ci ammaestra di risvegli, di sussulti al sogno spezzato che ci mette angoscia, è la proiezione di un desiderio, come l’eruzione di un vulcano che credevamo sopito, nel mezzo della notte officina e spelonca, è l’appunto, scritto su un cielo fatto quaderno, delle storie che presto svaniranno, che perderò per sempre, al giungere dell’alba, al riaprire del sipario.

Cristallo di pura luce, levigato nel ruzzolare in orbite che sappiamo non essere eterne, avere dunque una vita che, comparata alla nostra, ci riporta all’insignificante destino perituro. Luna dei matti, dei licantropi, luna maieuta che invocano le donne nel divenire madri, occhio del coltivatore e del vinificatore. Suscitatrice di vita, lievito notturno.

Ma anche tormento degli amanti.

Trasformato in umile grondaia, raccolgo le sue iridescenze e lascio che si rapprendano in un suggerimento visionario. C’è un legame tra la pietra e la luna? Forse la medesima sensazione di freddo? Non so.

All’istante mi appare una vela.

Perché abbattere case, distruggendo con esse il loro contenuto di energia trasfusa da chi le ha nei secoli abitate e vissute, da coloro che da quei muri si sono fatti proteggere, ai quali intonaci hanno affidato le loro gioie e i loro sogni, sui quali pavimenti hanno versato lacrime e hanno fatto muovere i primi passi ai figli? Le case si intridono di vita delle donne e degli uomini che hanno sorvegliato, assistito, abbracciato. Non sono soltanto “cose”, hanno anime.

Ho abitato una di quelle case: toccandone i muri si potevano percepire storie, pareti come carte assorbenti impregnate di miseria e grandezza. Una casa che di notte restituiva palpiti e sussurri, urla e preghiere, disperazione e speranza. C’è forse vita in un mattone? Sono nascosti slanci, in un arco, che non siano necessariamente architettonici? Cosa nasconde un pezzo di intonaco che si stacca e cade a terra, sfarinando in polveri restituite alla pietà del suolo?

Guardare a terra, certe notti, spaventa.

Meglio tenere lo sguardo alto, cercare soccorso traguardando il cielo, andare verso la luce ove possibile, o semplicemente, in alternativa, scrutare un soffitto. Perché no? Certo, a questo punto della notte, tornerebbe utile una casa antica. Dove i soffitti non sono inutili biliardi, ma vele di navi che rapiscono e portano lontano, imbarcandoti in viaggi, di cui senti il bisogno proprio in quel momento stesso della notte, dalla Terra alla Luna.

Nella mia vecchia casa secentesca, che fu convento e lazzaretto, che fu ricovero di carrozze, cavalli e vetturini, che raccolse reduci delle guerre e profughi di più recente immigrazione, e tutti invariabilmente, secondo giustizia tratta dalla sua stessa destinazione d’uso, accolse ed ascoltò, nella sua solo apparente indifferenza, i soffitti erano fatti di vele, vele costruite da mattoni incastrati a spinta da mastri muratori, peraltro gonfie di vento soffiato da architetti, ma capaci di muovere la nave degli insonni e portarli con sé, puntando la prua verso il cielo e lasciandosi guidare dalla corrente stellare nel viaggio alla volta della luna.

Vele a crociera, aggettanti, le cui costole ne manifestavano la salda innervatura, che parevano tendersi ancora di più, raccogliere ogni forza naturale, strappare colonne e fondamenta e alzarsi in volo, nel titanico sforzo di sovvertire ogni rigore gravitazionale, facendomi sentire il profumo indescrivibile del superamento della soglia del possibile.

Una voce di troppo e, turbato, accendo la luce, spezzando qualcosa.

Un flash di luce artificiale.

Mentre fuggono, atterrite, le ombre in ogni direzione, e mi piacerebbe sapere dove finiscono, vado a bere un po’ d’acqua, ghiacciata di frigo, che scendendo allo stomaco mi scuote definitivamente dal sonno.

Alla finestra una striscia, color sangue, segna l’orizzonte: rimette nella parte diurna, forse quella sbagliata, del mio tempo assegnato. Incomincia un’altra rottura di palle.

Mi è molto utile sapere che è sempre lì, la luna, anche se non si vede.

Mark Adin

 

 

Redazione
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2 commenti

  • mi piace, una visione singolare e poetica

  • troppa luce e mal diretta non solo ci impedisce di vedere il cielo notturno, patrimonio di tutti; ci costa pure una cifra spropositata che paghiamo principalmente ai francesi che la producono con centrali nucleari appena al di là delle Alpi

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