Nuova Siria, nuova spartizione

di Alberto Negri (*)

La vecchia spartizione della Siria non ha retto, è già iniziata la nuova.
Ha cominciato Israele nel Golan. Il cambio di regime implica la ricostruzione dello stato, della società civile e di quella politica in un Paese ridotto a condominio militare di grandi potenze e di mille fazioni

Nessuno può uscire indenne da mezzo secolo di dittatura, come hanno dimostrato la tragedia dell’Iraq, invaso nel 2003 dagli americani, e quella della Libia di Gheddafi, attaccato nel 2011 dalla coalizione Francia-Usa-Gran Bretagna. Nessuno può uscire indenne da una guerra civile che in Siria ha frantumato il Paese in mille pezzi con milioni di profughi: oltre 12 milioni di siriani in questi anni hanno dovuto lasciare le loro case, metà fuggendo fuori dai confini.

PAESI TRA I PIÙ FORTI E RICCHI del mondo arabo in una generazione si sono disintegrati e in Siria il regime è evaporato senza opporre resistenza: un segnale positivo – non ci sono state troppe vittime – ma anche negativo perché significa che lo stato si è dissolto quando lo hanno abbandonato i suoi sponsor principali, Russia, Iran e Hezbollah.
Questo significa che il suo esercito non ha combattuto perché sapeva di battersi per un clan, quello degli Assad, e non più per una nazione e uno stato. L’esercito si è liquefatto, come quello iracheno nel 2014 davanti all’Isis, anche prima dell’offensiva dell’Hts e dei suoi alleati filo-turchi: aveva perso motivazione, è stato umiliato da servizi segreti che trattavano i generali come camerieri al servizio del clan al potere.
La Siria è stata ridotta a una scatola vuota, desertificata come i corridoi abbandonati del palazzo di Assad, svalutata come le banconote razziate alla Banca centrale di Damasco.
Un finale triste perché con il regime è stato archiviato per sempre il partito Baath.
Fondato in Siria nel dopoguerra da un greco ortodosso, Michel Aflaq, e da un sunnita, Salah Bitar, il partito Baath era nelle mani insanguinate degli Assad mentre quello iracheno di Saddam Hussein era stato sciolto, con l’esercito, dagli Usa. Non restava quasi nulla dell’ideologia socialista e panaraba originaria – che aveva segnato negli anni Sessanta il riscatto dei più poveri di fronte alle strutture feudali – se non il principio della laicità dello stato. Un giorno qualcuno lo ricorderà.

SI PONE QUINDI IL PROBLEMA urgente che abbiamo visto altre volte: il cambio di regime implica la ricostruzione dello stato, della società civile e di quella politica in un Paese già ridotto a una sorta di condominio militare di grandi potenze e di mille fazioni.
In realtà è già iniziata una nuova spartizione, perché quella precedente non ha retto.
Israele vuole la sua “fascia di sicurezza” e ha cominciato a prendersi a sud il versante siriano del Golan – non accadeva dal 1973 – e a bombardare ogni bersaglio “utile”: prima erano pasdaran iraniani e Hezbollah, adesso caserme, basi aeree e depositi di armi, affermando che non devono cadere in mano a gruppi «ostili».
Tra gli ostili non ha nominato Hts, il movimento salafita di Al Julani sponsorizzato dalla Turchia, ma è chiaro cosa pensa lo stato ebraico: la Siria, come l’Iraq, come la Libia – e un giorno forse l’Iran – non deve avere un apparato bellico che possa minimamente minacciarlo.
Israele sta massimizzando la guerra lanciata dopo il 7 ottobre: ha steso al tappeto la mezzaluna sciita, gli Hezbollah vengono martellati ogni giorno nel Sud del Libano, ha sbriciolato con l’attacco del 26 ottobre le difese aeree iraniane. Assad è caduto anche per questo e gli effetti si sentiranno a breve in Libano.

LA CADUTA DI ASSAD ha suscitato reazioni forti in un Paese con una lunga storia di interazioni complesse con il vicino siriano. Politici e leader religiosi libanesi hanno commentato l’evento con dichiarazioni che riflettono non solo i sentimenti legati alla fine del regime siriano ma anche le implicazioni che potrà avere sul futuro. Il Libano con una fragile tregua non è uscito ancora dalla guerra e come in passato può entrare nella centrifuga dei conflitti interni.
La spartizione della Siria coinvolge in pieno la Turchia sponsor dei ribelli jihadisti e non da oggi. Erdogan, come Israele, vuole ampliare la sua “fascia di sicurezza” di almeno 40 km fino alla periferia di Aleppo e puntare verso i curdi che secondo i suoi piani non devono avere uno stato e neppure un’autonomia nel Rojava. Intensi scontri armati sono in corso nel nord della Siria al confine con la Turchia tra le fazioni filo-turche e i rivali curdi.
Questi erano anche alleati degli Usa nella lotta al Califfato ma Trump – che già in passato li aveva lasciati alla mercé dei turchi – dice di non volere essere coinvolto. Ma gli Usa, che hanno un contingente in Siria, sono sempre attori di primo piano in Medio Oriente e la Turchia è un Paese Nato mentre Israele è il maggiore alleato degli Usa. Solo uno sprovveduto può pensare di stare in Medio Oriente affacciato a un balcone a guardare gli eventi.

COSA CONTROLLA OGGI Al Julani che ha nominato il nuovo premier Mohammed al Bashir promettendo che le donne non dovranno portare il velo e l’amnistia per i soldati? Una parte importante della Siria, ma lo attendono milizie alauite, druse e quelle dell’Isis, oltre ai curdi. E soprattutto dovrà pagare la cambiale con Erdogan.
La Siria ha di fronte sfide proibitive, dal rapporto con le potenze straniere al rientro dei profughi in un Paese dove l’80% vive sotto la soglia di povertà. Il rischio è che i nuovi governanti saranno a capo di una mini-Siria sempre sotto l’incubo di rivalità e spartizioni.
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(*) Tratto da Il Manifesto.
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alexik

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