Obama, Putin e la Storia dalla parte sbagliata

di Gennaro Carotenuto (*)    

Gli speechwriter inventano belle frasi per i politici: «Mosca è dalla parte sbagliata della Storia» hanno fatto dire all’Obama cool che cerca anche in una crisi potenzialmente bellica come quella della Crimea di esercitare un po’ di soft power. Belle frasi, anche intelligenti, che hanno il difetto di far riflettere su di un mondo nel quale princìpi per secoli basilari come autodeterminazione e nazionalità sembrano avviarsi alla loro “fine della Storia” senza che sia chiaro come possano essere sostituiti.

Ispira timore e anche repulsione un espansionismo russo che sa per metà di cannoniere e d’impero zarista e per l’altra di Paesi fratelli da salvare come nel ’68 a Praga. Ovunque siano le ragioni e i torti, e qualche ragione Mosca ce l’ha, è solo la forza l’argomento che mette in campo. Anche per il Cremlino, non da oggi, il principio nazionale è un verso che si modula secondo convenienza, carezzevole verso i crimei, inumano verso i caucasici sterminati nella sostanziale indifferenza del mondo, che li vede attraverso il prisma falsato della guerra al terrorismo come tutti barbuti.

Viene da dire che magari Obama avesse ragione e che sia solo la Russia ad andare nel verso sbagliato della Storia. Viene da dire che magari fosse tutto così semplice e che i confini dell’Ucraina, come stabiliti e riconosciuti appena nel 1991, siano davvero così sacri e inviolabili da valer la pena morire per Sinferopoli. Purtroppo il nostro passato recente si è incaricato di dire che mentre la dissoluzione dell’impero sovietico fu più pacifica di ogni previsione, proprio quelli che avevano predetto «la fine della Storia», e se ne mettevano al centro col loro dio protestante, alla Storia stavano torcendo il braccio. Hanno usato a loro beneficio vecchie cannoniere e nuovi droni, provocato guerre civili, riportato nazioni intere (cit.) «all’età della pietra», imposto satrapi colorati e buoni, magari dalle bionde trecce, al posto di satrapi cattivi o presunti tali. Non sono solo gli Stati Uniti, anche la Germania può intendersi con la Russia. Come un tempo fecero con la Polonia anche oggi possono aver reciproca convenienza a spartirsi l’Ucraina. Anche della Yugoslavia a Berlino interessava solo la metà settentrionale, disinteressandosi alle conseguenze che portarono anni di sangue. Hanno già frammentato Paesi in piccole patrie insostenibili. È una nazione il Kosovo? Esiste ancora un Iraq? Sarebbe [stata] nazione quel pezzo di Bolivia che volevano separare dagli indigeni andini di Evo Morales che, per Donald Rumsfeld, erano anch’essi tutti terroristi?

Vent’anni fa potevamo illuderci che tutto fosse in ordine, magari un ordine che non ci piaceva, ma in ordine. E da italiani, occidentali sia pur periferici, potevamo illuderci di esserne al centro e che questo ci favorisse. L’Europa, non per una fatalità ma perché strangolata nel suo percorso verso un’unione politica dalle esigenze euro-atlantiche dell’epoca Bush-Blair, non è, non esiste. Intanto, il soft power degli USA poco può dove, come in Crimea, non può essere accompagnato dal bastone di Teddy Roosevelt. Non c’è nessun nuovo ordine mondiale, tanto meno con al centro l’Occidente. Vogliono espellere la Russia dal G8. Gli stessi proponenti sanno che è un’arma spuntata cacciare Mosca da un organismo che gli stessi grandi giornali dell’establishment mondiale considerano contare ormai poco, come tutto ciò che ancora rivendica una centralità occidentale. Meglio il G20, meglio i Brics, dei quali la Russia è nerbo, meglio perfino l’Onu. Ciò ammesso e non concesso che tutti questi autorevoli consessi, figli dell’idea di diplomazia invalsa dal 1648 ai giorni nostri, e che vedeva al centro Stati sulla via di divenire nazioni, decidano oggi più del consiglio di amministrazione di alcune banche d’affari. Il destino manifesto del «nuovo secolo americano», si è rivelato incarnato – a qualunque cultura e latitudine – nel solo dominio della ricchezza, non già del dollaro, sempre più mera unità di conto, ma sì della finanza. Tutto ciò può non piacere ma è pur sempre una parvenza di ordine a-democratico. Si può perfino far finta di votare e si può perfino rinunciare al progresso e alla giustizia sociale (a patto di non esserne completamente esclusi) come destino lineare dell’umanità in cambio di un minimo di sicurezza.

La cosa che più spaventa è che quello che è in crisi fino a perdere di senso, in Europa e in Africa ma anche in Asia, è quel principio di nazionalità sul quale abbiamo creduto di costruire tutta la nostra modernità negli ultimi due secoli. A volte le separazioni appaiono indolori, come tra Praga e Bratislava, altre volte drammatiche, ma davvero pensate che dividere la Scozia da Londra o lasciare Sebastopoli con Kiev sia soluzione a qualcosa? Sia giusto o sbagliato?

La risacca della dissoluzione neoliberale dei tessuti sociali che tenevano insieme le nazioni lascia sul bagnasciuga i residui di un mondo che non c’è più, di legami disfatti e ricostruiti altrove, di identità sempre più liquide e artificiali. Non solo in Africa, non solo negli ex-imperi coloniali sono troppi i confini segnati sulla sabbia. E anche dove le frontiere appaiono ancora ben definite da fiumi, coste, catene montuose, lingue e religioni, le linee delle migrazioni e quelle energetiche, quelle delle autostrade dell’informazione e dell’influenza culturale ed economica, testimoniano quanto poco tempo resti a quelli che sembravano princìpi inviolabili.

Ieri si poteva ancora vivere e morire per la Patria sul Carso o sulla Somme. Oggi questa appare sempre più una convenzione. Il mondo post-napoleonico della nazionalizzazione delle masse è ancora vivo, ma continua a esplodere in mille crisi regionali e perfino mondiali dove la nazionalità è al più un pretesto per giustificare o aborrire. Lo Stato nazione stesso è un malato terminale. Paesi come gli Stati Uniti o il Brasile che fanno di identità cangianti e in evoluzione la loro essenza, costruzioni dissolte dalla storia come l’Impero austro-ungarico o quello ottomano con i suoi mille contrappesi, progetti arditi come l’integrazione latinoamericana immaginata da Kirchner e Chávez, la nostra Europa politica sognata dagli Spinelli e tradita dai banchieri, sarebbero esperienze meglio attrezzate a governare il nostro presente degli attuali Stati nazionali, prigioni di popoli che non sono più tali e non sono ancora altro. Lo sapessi davvero, caro Obama, qual è il lato giusto della Storia.

(*) Ho ripreso questo post, datato 4 marzo, da «Gennaro Carotenuto, giorenalismo partecipativo (on line dal 1995»).

 

Redazione
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Un commento

  • Buon articolo quello di Carotenuto, da leggere, meditare e diffondere. Nello stesso tempo che in Europa e nel mondo intero si celebra il centenario della grande guerra/grande massacro vi sono somiglianze tra lo stato della geopolitica globale e gli incendiari conflitti e tensioni che portarono al 1914. Non c’è regione nel mondo che non sia un potenziale focolaio di conflitto mondiale. E’ la causa è l’ imperialismo.

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