«Occhio di gatto»

db si entusiasma per Zelazny (lo trovate in edicola) versione navajo

Anzitutto «Ya’àt’èeh» (*). Non posso purtroppo tenere lontano il corona virus da voi perchè non sono uno yataalii (*). Però ho provato, chiamando anche – ma invano – uno yei (*).

Per il più modesto obiettivo di fare una recensione non dispongo di un «kethan» (*) e di jisj (*) … eppure confido lo stesso di convincervi che «Occhio di gatto» di Roger Zelazny merita un salto in maschera fino all’edicola. Sto parlando dell’Urania numero 1677: 280 pagine (però c’è il trucco) per 6.90 euri oppure 4,90 se volete l’e-book. E’ un romanzo breve del 1982 – qui nella traduzione di Enzo Verrengia che deve aver sudato assai – rimasto inspiegabilmente inedito in Italia. Un evviva allora per chi ora ce lo propone.

Per i miei gusti è il più bel Zelazny: autore sempre bravo (6 Premi Hugo non si vincono per caso) ma raramente eccelso come qui.

«Occhio di gatto» appartiene a un sotto-genere molto particolare: quello che fa i conti con le “ombre rosse” cioè l’eterno ritorno dei nativi americani. In “bottega” ne ho già scritto (**).

Zelazny crea l’incredibile e dunque convincente «William Cavallo nero cantante»: un cacciatore, un sopravvissuto (ha 170 anni … in un discutibile conteggio) ma soprattutto è un viaggiatore fra mondi e tempi diversi. Un navajo. Ed è stanco. Forse il suo unico, antico nemico è se stesso. Un senso di colpa? «Un sogno di possibilità, un nulla».

La trama? Al solito non ve la dirò.

Solo accennerò che William incontrerà il sestetto forse più pazzo della fantascienza (pag 61 e seguenti) e per 7 giorni dovrà fare i conti con il cacciatore-preda più carogna che io ricordi…. nei libri. «Non ci sono regole nella caccia». William e il “gatto” sanno di avere molte cose in comune; forse soprattutto una: «ognuno di noi è l’ultimo della sua specie».

Non posso dirvi – fiiiiiiiguriamoci – come finirà. Semprechè questa storia abbia un termine che non sia un altro inizio.

Una cascata di frasi citabili.

Fra le mie preferite: «il tempo si era divertito nel suo gioco preferito, l’ironia». E c’è molto Zelazny in questo Cronos, o viceversa.

«In una di quelle occasioni cadde una foglia»: però la bellezza di questa semplice frase si capirà solo nel contesto.

Interessanti le purtroppo brevi osservazioni sulle particolarità e la capacità di evolversi del linguaggio navajo (***). E per quel poco che ho letto di miti navajo Zelazny non racconta frescacce. Ma se c’è chi ne sa più di me… grazie in anticipo per integrazioni o correzioni.

«Occhio di gatto» è una sorprendente, bella stranezza pur nei mondi dello strano. Leggendo non fatevi deviare dai discorsi interrotti, dai canti, dalle false piste. Oppure sì: anche grazie alla fantascienza abbiamo imparato che perdere il cammino è a volte il modo migliore di raggiungere la meta.

Aqalàni (*).

PS: «C’è un trucco» scrivevo all’inizio. Le prime 194 pagine effettivamente sono per «Occhio di gatto». Le altre 80 ospitano il racconto «Sorveglianti» di Massimo Lunati. Niente di male, anzi io vorrei più racconti (italiani e non) su Urania ma perchè non riportarlo anche in copertina? Per inciso «Sorveglianti» proprio non mi è piaciuto.

(*) tutte parole navajo… se devo credere a Zelazny.

(**) qui in bottega cfr Pellerossa, ritorno al futuro-1 e Pellerossa, ritorno al futuro-2 dove recupero un vecchio testo scritto con Riccardo Mancini. In altra occasione in “bottega” c’è stata una discussione sull’uso della parola «pellerossa» invece di amerindi o nativi.

(***) A proposito di lingua navajo qui c’è una storia (vera) divertente: «Codici e segreti»: un libro… E se vi fosse sfuggito, pochi giorni fa i nativi americani (Lakota ma anche Navajo) hanno ricacciato indietro  «il serpente nero», cioè un mostruoso gasdotto – Piccola, grande vittoria dei Lakota…– qui, nel mondo cosiddetto reale, dove io e voi abitiamo tutti i giorni (Marte-dì esclusi).

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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