Ogni atto di violenza è una scelta

da www.awid.org (26 maggio) : autrice non menzionata, traduzione di Maria G. Di Rienzo   

Durante un incontro per raccogliere idee sulla Campagna globale “16 giorni di attivismo per mettere fine alla violenza contro le donne”, una delle sue fondatrici Charlotte Bunch ha reiterato un punto base femminista (ora sottinteso nelle leggi e nelle politiche basate sui diritti umani che concernono la violenza sessuale) e cioè il fatto che “lo stupro riguarda il potere, non il sesso”. Riconoscendo come vera questa premessa, che lettura diamo delle violenze sessuali che si danno durante i conflitti e cosa dobbiamo fare per prevenirle?

Durante gli ultimi tre giorni, le partecipanti alla conferenza promossa da “Nobel Women’s Initiative” si sono interrogate sulla questione delle violenze sessuali in guerra e nei conflitti a sfondo politico, discutendo delle risposte date sino ad ora e generando idee per azioni ulteriori. Durante il dibattito sono emerse tre “arene” in cui la violenza è perpetrata.

La prima è quella maggiormente visibile e discussa della violenza sessuale perpetrata da eserciti formali e forze ribelli contro donne e ragazze, e qualche volta contro uomini e ragazzi, nel contesto del conflitto e/o come parte di un’aperta tattica di guerra.

La seconda concerne violenze sessuali e sfruttamento e abuso sessuale commessi da forze armate e agenzie umanitarie dispiegate per proteggere e sostenere le popolazioni civili in contesti di conflitto. Su tale questione, l’emergere delle prove che attestano il coinvolgimento di “peacekeepers” delle Nazioni Unite e di membri di staff umanitari nell’abuso di donne e bambine nell’Africa dell’ovest, causò una significativa controversia nei primi anni dopo il 2000.

La terza si concentra sulle violenze sessuali e di genere che si danno all’interno dei settori di sicurezza e delle stesse forze armate.

Sebbene i violatori vestano in modo differente – l’uniforme impeccabile del soldato addestrato, la t-shirt del volontario umanitario o gli abiti di seconda mano del ribelle – la realtà è che praticamente la totalità dei violatori sono uomini.

A livello di vulgata, gli stupratori sono spesso descritti come uomini incapaci di controllare i loro “naturali” impulsi sessuali. Al peggio, quest’idea getta il biasimo sulla persona che è stata violata per aver incitato o creato un’opportunità a cui l’uomo non ha potuto “resistere”. Ciò riguarda molti eserciti, dove il “conquista, saccheggia e stupra” è ancora latente. Sebbene la violenza sessuale sia certamente usata come orchestrata arma di guerra, è importante ricordare che atti individuali non sono sempre guidati da un’agenda tattica o hanno un impatto strategico. Per cui la violenza sessuale può non essere semplicemente un altro attrezzo nell’arsenale a disposizione del soldato o del ribelle.

La premio Nobel Jodi Williams, nota per aver guidato con successo la campagna contro le mine anti-uomo, ma ella stessa sopravvissuta alla violenza sessuale agita contro di lei da un membro di una squadrone della morte in Salvador, ha chiaro che la nozione dello stupro come di un inevitabile aspetto della guerra è falsa: “Ogni atto di violenza è una scelta.”

Quindi, perché gli uomini scelgono di violare le donne? Jocelyn Kelly, che ha passato un bel po’ di tempo “sul campo”, intervistando i ribelli Mai Mai congolesi responsabili di alcuni degli stupri di massa più infami nel loro Paese, sostiene che vi è un intero spettro di fattori in gioco, dai training disumanizzanti dei campi dei ribelli al desiderio vendicativo di agire la violenza perché la si è subita. Per quanto riguarda gli eserciti, Anja Ebnoethe, vicedirettrice del Centro per il controllo democratico delle forze armate (di Ginevra) sottolinea che l’indisciplina e la corruzione sono entrambi fattori chiave che abilitano la violenza sessuale e la relativa impunità che essa gode negli eserciti nazionali e nelle forze di peacekeeping.

Tuttavia, il passaggio da un senso di inadeguatezza personale, dalla rabbia o dall’indisciplina all’agire la violenza sessuale in forme che vanno dallo stupro di gruppo all’incesto forzato, dalla schiavitù sessuale allo stupro con bottiglie e fucili, richiede ulteriori analisi.

E’ sufficiente considerare la violenza sessuale solo un’altra forma di violenza interpersonale? O le sue basi di genere ci dicono qualcosa anche sulle cause che sono sottese alla violenza?

L’attivista birmana per la democrazia Aung San Suu Kyi dice che “la violenza comincia nella mente”, come aspetto profondamente pervasivo della cultura patriarcale che si manifesta nel senso di superiorità degli uomini e nel loro indiscriminato accesso ai corpi delle donne, e nel senso di impotenza e subordinazione che le donne provano.

Questo contribuisce a spiegare il progetto di creare e sostenere alti livelli di decisioni politiche su cui lavorare per fermare la violenza contro le donne, e di non occuparsi solo del provvedere risorse. Per fare un esempio, la “Rete degli uomini leader impegnati a metter fine alla violenza contro le donne”, creata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, ha un numero ancora relativamente basso di firmatari.

Sebbene le politiche, le riforme legali e il provvedere servizi siano tutti aspetti necessari ed essenziali del confrontarsi con la violenza sessuale, lo scopo di mettere fine ad essa richiede un livello più profondo di trasformazione, ciò che l’attivista guatemalteca Patricia Ardon chiama “un cambiamento nell’immaginario sociale”.

Noi sappiamo che mentre alcuni uomini e ragazzi stuprano, altri non lo fanno e non lo farebbero mai. In effetti, vi sono uomini e ragazzi che rigettano attivamente la nozione della violenza sessuale come legittima espressione della loro mascolinità, e agiscono per difendere questo principio nelle loro case, nelle strade e persino, come Cynthia Cockburn ha scritto su OpenDemocracy, nel contesto della guerra.

Affermare una visione del mondo e delle scelte individuali che rispettano anziché violare i corpi delle donne e delle bambine è un passo critico per questo cambiamento, e si situa al cuore della prevenzione della violenza sessuale. A Suchitoto in Salvador, le attiviste e gli attivisti si sono presi il compito di operare questa trasformazione profonda e stanno sfidando le attitudini sociali con una campagna basate sulle famiglie, con persone che incollano sulle loro porte di casa una decalcomania che recita: “In questa casa vogliamo una vita libera dalla violenza contro le donne”.

Questo è solo un esempio nella serie di campagne comunitarie in atto che contrastano l’accettazione della violenza, campagne che gettano una luce che interroga coloro che non prendono posizione contro le violazioni e preferiscono dirigere lo stigma su coloro che sono violate.

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