Old – M. Night Shyamalan

(visto da Francesco Masala)

A seguire la recensione dell’unico film di Libero De Rienzo regista, visibile online: con diversi modi di ricordarlo e parlare (di lui e dell’eroina)

se cerchi un film che ti tiene attaccato alla poltrona del cinema “Old” è per te.

come sempre si inizia con tanti sorrisi e allegria (diffidare, non andrà a finire bene, un po’ di volte).

una bella vacanza, una gita esclusiva, per gente speciale, in un posto da sogno (o da incubo, fra le altre cose non c’è campo per i telefonini).

un bambino, che è bambino per tutto il tempo, dà un aiuto decisivo, per salvarsi dal complotto nel quale i turisti scelti vengono imprigionati.

il tempo ha un ruolo fondamentale nel film, dura due ore, che per alcuni è quasi una vita.

M. Night Shyamalan appare, fa l’autista e il controllore dell’esperimento, sa bene la sua parte.

film un po’ thriller, un po’ complottista, ma qualche vittima per il progresso, in nome della scienza, ci vuole, per il bene di tutti, pare.

Spielberg e Hitchcock sarebbero contenti, e anche noi lo siamo.

buona visione

https://markx7.blogspot.com/2021/07/old-m-night-shyamalan.html 

 

qui la recensione dell’unico (bel) film di Libero De Rienzo regista, del 2005, visibile su Vimeo.

Sangue – la morte non esiste – Libero De Rienzo

una volta non basta, l’ho visto due volte, a distanza di qualche giorno.

la prima volta resti stordito, è troppo, la seconda volta si apprezza in tutta la sua grandezza.

un film (l’unico) di un regista che ha 28 anni, attore bravissimo fino alla morte, con un protagonista (Elio Germano) giovane di 25 anni all’inizio di una brillante carriera e un’attrice bravissima (Emanuela Barilozzi) che meritava una brillante carriera.

tutto si svolge in una giornata, a una velocità folle e ben gestita (e quei poliziotti sembrano usciti dalla mattanza di Genova 2001, in ottima forma), con una fine che non ti aspetti.

un piccolo grande film, da non perdere (meglio vederlo due volte)

https://markx7.blogspot.com/2021/08/sangue-la-morte-non-esiste-libero-de.html

Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo – Boris Sollazzo

Libero De Rienzo, attore straordinario. Libero De Rienzo, padre amorevole. Libero De Rienzo, amico geniale.

Potevate scrivere parole così, colleghi. Potevate raccontarlo da vivo, lui che in pochi anni ha illuminato l’arte cinematografica italiana, come interprete incredibilmente versatile e regista di un unico grande film, Sangue – La morte non esiste. Sottotitolo beffardo oppure incredibilmente vero, chissà.

Sono un suo amico. E sono un giornalista. Conosco sua moglie, i suoi figli, molti suoi amici. E conosco pure i miei colleghi, molti direttori, troppi caporedattori. E so che l’attore di sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend topic, il Seo, le ricerche su google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le fake news o solo il particolare scabroso. Mentre ridevamo dei tabloid, l’informazione italiana è diventata spazzatura e noi giornalisti non siamo neanche capaci di fare i netturbini, siamo quelli che la danno alle fiamme.

Con Libero De Rienzo, che non aveva la corazza protettiva del grande maestro a cui il servile giornalismo nostrano si inginocchia anche da morto né faceva paura come quel boss romano a cui, in condizioni analoghe, non è stato riservato lo stesso trattamento, l’intera filiera della cronaca nera ha dato il peggio.

Intendiamoci, quello del cronista di nera è un mestiere ingrato, bastardo, ambiguo. Da sempre. Chi ha qualche anno in più sa che prima dei profili social, i più sgamati dei colleghi saccheggiavano le case delle vittime di atti violenti, magari intervistando i congiunti e rubandosi da un portaritratto la foto giusta. Ma almeno consumavano suole di scarpe e neuroni, avevano rispetto del lettore e delle persone coinvolte, operavano riscontri e torchiavano le fonti.

Ora i giornalisti di nera – ma vale anche per quasi tutti gli altri, pensiamo alla giudiziaria – sono cassette della posta. In cui procure, questure e non solo infilano le loro veline. E con la schiena piegata non dal duro lavoro, ma dalla sudditanza, si prestano a far da altoparlante, megafono, strumento di toghe e divise. Siamo in zona ventennale del G8 di Genova: ricordate la trasmissione di Vespa sulla morte di Carlo Giuliani? Se sì, sapete di cosa parliamo – l’ipotesi più credibile di quel Porta a Porta? La pallottola più pazza del mondo, un incrocio tra quella che uccise Kennedy e raccontata da Kevin Costner in JFK – un caso ancora aperto e una gag di BeepBeep e Willy il Coyote – non c’è bisogno di dire altro.

Con Libero De Rienzo facciamo un po’ schifo tutti. Anche i lettori, che cercano, vogliono, consumano questa spazzatura come fosse caviale. I caporedattori e i direttori che chiedono certi titoli, certe notizie, i colleghi che si sono dimenticati quanto e cosa hanno studiato per fare l’esame da professionisti. Che la deontologia l’hanno buttata insieme al rigore in quella spazzatura di cui prima.

Il sospetto, a volte bisogna avere lo stesso coraggio di Picchio nel dire le cose come stanno, è che nell’accanimento attuale contro un giovane uomo che al talento univa la voglia di ingaggiare battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato, le ingiustizie sociali, il pessimo giornalismo – ci sia una gran voglia di vendicarsi di tutte le categorie coinvolte.

Altri – il boss succitato (e giustamente, tutti devono essere tutelati nei propri diritti fondamentali e la privacy è uno di questi), ma anche manager e imprenditori – sono stati protetti, perché un’autopsia non è un avviso di reato, ma su corpi giovani è necessaria. Eppure non si vede l’ora, qui, di aprire un’inchiesta, le forze dell’ordine sono state subito un colabrodo di indiscrezioni (“polvere bianca tra salotto e cucina, crack, una dose in una bustina di cellophane” neanche parlassimo della serie Narcos, con tutte le testate, dalla più importante al sitarello più spregiudicato a scrivere tutto, sotto dettatura), ipotesi (“non si può escludere che” è una frase schifosa in italiano, figuriamoci in un articolo su un padre morto così giovane), improbabili testimonianze non riscontrate di chi lo aveva visto nelle ultime ore.

Sì, Libero De Rienzo era mio amico. Libero è mio amico. Ma vale per tutti gli indifesi, da una ragazza giovanissima morta sul lavoro a poveri villeggianti su una funivia, ostaggi anche da morti delle trattative Stato-stampa, baratti “rattusi” in cui una vita viene esposta e sezionata dai curiosi per fare un favore a chi potrebbe passarti un giorno, in anticipo rispetto agli altri, un’ordinanza, una soffiata su un’inchiesta dal nome evocativo, il luogo di un arresto illustre.

Eravamo i cani da guardia della democrazia, ora siamo solo topi di fogna che si accontentano delle briciole, dei rifiuti, dei resti putrefatti del Potere.

da qui

Morte di Libero De Rienzo, ecco perché abbiamo scritto (e continueremo a scrivere) dell’eroina – Marco Mensurati

Ci sono un paio di domande che in queste ore da più parti ci vengono poste con una certa insistenza (e con diversi gradi, diciamo così, di civiltà).

Era proprio necessario raccontare tutti i dettagli della morte dell’attore Libero De Rienzo? E poi ancora, e forse soprattutto, non si poteva omettere il dettaglio del ritrovamento dell’eroina?

La risposta, ovviamente, è sì, era proprio necessario. E no, non si poteva omettere un particolare così rilevante. Possiamo discutere sui toni e le forme – che nel caso di Repubblica pensiamo siano state inappuntabili – ma sulla necessità del racconto giornalistico non ci sono dubbi.

E il motivo è semplice. I giornali pubblicano le notizie. Devono farlo, è la loro missione, il loro senso, il loro valore.

A volte questo paradigma rende il mestiere di giornalista duro, difficile, scomodo. Anche antipatico. Succede soprattutto con la cronaca nera, la specialità più difficile. È successo anche stavolta.

Muore un attore bravissimo e amato come De Rienzo, un padre di famiglia, un insolito e laterale intellettuale della malconcia scena italiana, e il suo pubblico, i suoi amici, i suoi affini, non vorrebbero altro che stringersi nel dolore in una composta e silenziosa celebrazione.

Il compito di un giornale e di un giornalista, però, non è quello di celebrare. Ma di raccontare i fatti. E se la notizia, come in questo caso, è una bustina di eroina trovata nella casa dell’attore, non pubblicarla sarebbe un errore. Grave. E pericoloso. Perché salterebbero i meccanismi di controllo e di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori.

Il giorno in cui i giornali dovessero smettere di pubblicare le notizie, o peggio dovessero scegliere quali pubblicare – anche se lo facessero usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato – sarebbe un giorno un po’ più simile alla notte.

Colpisce in particolare che molte delle critiche arrivate ai giornali provengano da una ben determinata categoria di persone. Intellettuali del cinema, professionisti della comunicazione, persone per dirla in breve che avevano una frequentazione diretta e personale con De Rienzo e con la sua famiglia.

In molti di questi casi l’impressione che si è avuta è che gli amici stessero implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più.

Nessuno di loro, diciamolo per inciso, ha sollevato un sopracciglio quando abbiamo raccontato, con la medesima professionalità, la vicenda della giovane Maddalena Urbani, figlia di Carlo Urbani, il medico eroe che isolò la Sars.

Parlammo del ritrovamento del suo corpo, della morte per probabile arresto cardiaco, del sequestro dell’eroina e degli psicofarmaci, scrivemmo dell’autopsia e delle indagini partite dalle analisi del suo telefonino e infine raccontammo dell’arresto dell’uomo che le aveva dato la droga.

Nessuno del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali ci trovò niente di strano. Quelle erano notizie, noi stavamo facendo il nostro mestiere. E loro non erano amici di Maddalena.

da qui

Quella reazione “isterica” dei giornaloni su Libero De Rienzo – Boris Sollazzo

Sarebbe stato ingenuo da parte di chi scrive e chi pubblica questo giornale pensare che il pezzo “Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo” non avrebbe provocato un terremoto, soprattutto nell’ambito giornalistico.

La diffusione dell’articolo, condiviso da migliaia di persone, ha fatto il resto.

Più sorprendente è però la reazione scomposta e più o meno isterica dei due grandi giornali, mai citati esplicitamente nell’articolo  ̶  ma ovviamente, nessun problema a specificarlo, ci riferivamo in particolare al modo in cui Repubblica e Corsera avevano trattato la vicenda e loro si sono riconosciuti  ̶  e esplicitata in due editoriali a firma Alessandro Trocino e Marco Mensurati.

Il primo più garbato inizia furbescamente citando un passo di Fortapasc e poi con una prosa elegante e insinuante chiude dicendo che “chiedere un trattamento di favore per qualcuno, solo perché è amico, o di sinistra, o scomodo, questo sì, sarebbe ingiusto”, il secondo più muscolare, dice che loro questo tipo di giornalismo lo fanno da sempre e che nel caso di Maddalena Urbani (figlia di Carlo, medico eroe che isolò il virus Sars) nessuno “del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali” reagì male. E poi anche lui non resiste e sostiene che “gli amici” stiano “implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più”.

Ora, qui crediamo nella forza del confronto e della dialettica, e proveremo a fare quello che i due illustri colleghi non hanno fatto: rispondere nel merito. Nel caso del pezzo del Dubbio c’erano riflessioni circostanziate che i due hanno dribblato preferendo l’attacco personale (Trocino ha avuto il buon gusto di citare autore e articolo, Mensurati no), cavalcare una populista accusa di opportunismo elitarista contro la casta dei cinematografari piuttosto che provare a costruire un dibattito adulto, responsabile, maturo. E soprattutto necessario a una categoria che ha perso conoscenza e orientamento tra i punti cardinali della professione.

Proviamo a farlo noi, pur riconoscendo ai due giornali un’ottima capacità strategica. Trocino scrive un editoriale nella newsletter del giornale (Il punto) per giocare in casa con un pubblico di parte, Repubblica sceglie Mensurati, uno dei pochi cronisti che affronta onorevolmente il proprio conto, perché a difendere l’indifendibile mandi sempre quello che non ha scheletri nell’armadio.

Vecchie tattiche che però danno poco al dibattito, che è quello che interessa a noi (e infatti chi scrive ha usato spesso la prima persona plurale: il problema è di sistema, non solo della categoria).

Partiamo dall’accusa di “amicizia”. Cari colleghi, chi scrive ha dichiarato la propria amicizia per un eccesso di zelo, per quell’onestà intellettuale dimenticata da troppi nel nostro lavoro. Se tutti dichiarassimo chi ci ha passato cosa (va bene proteggere una fonte, ma vi guardate bene anche dal far solo intuire da che ambiente arriva la notizia) o appunto l’amicizia con chi è il protagonista dei nostri scritti, i nostri lettori avrebbero tutte le possibilità di giudicare e giudicarci. Invece la maggior parte dei nostri articoli sono figli di un’imparzialità tutta presunta: siamo cittadini e uomini e abbiamo il dovere di essere sinceri con chi ci legge. Io l’ho fatto, per dare a tutti la possibilità di giudicare con obiettività sia l’autore sia cos’aveva scritto.

E infatti vi ha dato la possibilità di accusare “il circolo intellettuale”, “gli amici del cinema”. Voi lo fate? No, mai. Ed è sbagliato, soprattutto in un giornalismo così suddito come il nostro.

Trocino poi, dopo aver tirato di nuovo fuori Siani piuttosto a sproposito, parla della richiesta del lettore di non essere sgradevoli e fa intendere che no, la cronaca e in particolare nera, non può non esserlo perché tale è la realtà. Mensurati, che al posto del fioretto ha inforcato la spada, si vanta semplicemente del fatto che il suo giornale è stato altrettanto sgradevole con Maddalena Urbani, appena maggiorenne. Affascinanti modi di giustificare la violenza gratuita e pretestuosa di certi articoli. Siccome sono giornalisti ricordiamo loro i fatti: ad ora non si è riuscita neanche a stabilire la causa della morte. Ma loro senza entrare in casa del morto, hanno scritto di strisce bianche tra salotto e cucina, di buste di cellophane con eroina dentro, di “non si può escludere che”. Qui non si tratta di sgradevolezza, si tratta di obbedire a due regole base, che nell’articolo precedente non abbiamo sentito il bisogno di ricordare per un eccesso di fiducia nel genere umano e nella categoria: dopo i frequenti dibattiti degli ultimi anni sul segreto istruttorio, eravamo convinti che anche ai più duri di comprendonio dei colleghi fosse entrata in testa che non li vogliamo gradevoli, ma solo operanti nella legalità. E che il diritto di cronaca ha il suo argine nel non condizionare l’inchiesta e il buon esito della stessa. E dovendo prendere per buone le indiscrezioni dei loro articoli, il presunto spacciatore omicida avrà avuto ogni possibilità di fuga, inquinare prove e testimonianze. Non vi chiediamo gradevolezza, ma correttezza. Non vi accusiamo di aver scritto che la procura lavorasse sull’ipotesi investigativa di “morte come conseguenza di altro reato”, siamo indignati per aver esposto al pubblico ipotesi che non potevano non essere che frutto di veline di inquirenti e forze dell’ordine, non notizie. Perché il nostro è un mestiere di fatti, non di “si dice”, di “polveri bianche”.

Il problema è che citando Siani (siamo bravi anche noi a farlo) ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati. E aggiungiamo noi, giornalisti stenografo. Quelli che ricopiano fedelmente le parole, le indiscrezioni, i pareri di una delle parti in causa. Di quelli che dovrebbero essere oggetti dei loro controlli. Abbiamo appena scavallato il ventennale di Genova 2001: immaginate se di fronte alla Diaz i cronisti si fossero bevuti la balla delle molotov o delle ferite pregresse.

Hai ragione Trocino, ci sono anche giornalisti-giornalisti. Ma il sistema premia gli altri. Il nostro è un albero pieno di mele marce e dovremmo nasconderci dietro quel dieci per cento di frutta non guasta?

Tornando a Mensurati, che ha la sventura di scrivere per un quotidiano che la bussola l’ha persa da parecchio, il suo pezzo è piuttosto spericolato. Ha la furbizia di non citare il sottoscritto, ma un generico “circolo intellettuale” – pescare a strascico evidentemente è un vizio, cosa viene su poco importa -, ma dimostra di non essere informato (la stessa penna che si è scagliata contro i giornalisti che hanno affrontato l’affaire De Rienzo si è indignato per il trattamento a Silvio Berlusconi e Lapo Elkann, non proprio l’identikit che darebbe dei propri “amici”) e di ignorare le regole elementari della professione. Si trincera dietro Maddalena Urbani e il fatto che il circolo dei cinematografari non l’abbia difesa, un benaltrismo carpiato che lascia basiti solo a ripeterlo. Con retorica grillina insinua che la élite se ne freghi della gente normale, ma non risponde nel merito.

Sì, cari colleghi, perché quello che manca nelle vostre editorialesse permalose e risentite sono le risposte.

Diteci, è vero o no che i cronisti di nera sono cassette della posta che attingono per le loro notizie quasi esclusivamente da ciò che gli elemosinano le forze dell’ordine? Curiosamente a questo non avete risposto.

E ancora, come mai nei vostri apodittici “le notizie vanno date, perché sì, pappappero” non citate capisaldi della nostra società civile, del nostro ordinamento e della professione come il rispetto del segreto istruttorio (ah, se la risposta è: lo fanno tutti, avete la risposta sul perché a malincuore ho sottolineato che da cani da guardia siamo diventati topi di fogna).

Non ci sono carte deontologiche che proibiscono il 70% delle cose che avete scritto nei vostri pezzi?

Sfruttare il peso della propria firma e della propria testata per fare bullismo a un collega che solleva un’autocritica su cui dovremmo confrontarci, su un ambiente ferito che ha reagito compostamente, è davvero il compito del giornalista?

E ancora, se è vero che per voi i morti sono tutti uguali, perché un grand commis dello Stato italiano che si suicida viene trattato con (giustissimo) rispetto e così il tentativo di suicidio di una dirigente di un ministero di cui erano tutti amici (qualcuno come me ha avuto il buon gusto di dirlo), e in entrambi i casi c’erano lati inspiegabili della vicenda o comunque di difficile interpretazione? Non sarà che il trattamento di (s)favore lo fate voi? L’attore con dipendenze, nella penuria di notizie di luglio, con simpatie politiche scomode e battaglie anche più antipatiche per Stato e istituzioni, può essere trattato con meno empatia dei potenti da proteggere? Ci sono morti più uguali delle altre per cui ci si può dimenticare più serenamente le regole che con quel tesserino ci impegniamo a rispettare? E pure il codice penale?

Poi, facciamo un gioco, vi va? Prendiamo i pezzi usciti sui maggiori giornali e siti. Togliamo gli autori. Presentiamoli come compiti al prossimo esame da giornalisti professionisti. E vediamo chi e quanti verranno bocciati. Mensurati dice che se i giornali smettessero di dare le notizie “usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato – sarebbe un giorno un po’ più simile alla notte”. No, è già notte perché per dare delle non notizie, per farvi megafono di altri, al dolore arrecato neanche pensate. Tra il potere e i deboli scegliete il primo, pure fieri.

No, con Picchio non stiamo proteggendo un amico, noi vogliamo difendere tutti. E sì, il dolore di vederlo schiacciato in un personaggio funzionale di bassa lega, un brutto racconto d’appendice, ci ha ferito. Come ci ferisce quando un femminicidio diventa un romanzo Harmony “in cui lui l’amava troppo”.

Colleghi, riflettiamo. Se questa (auto)critica ha così colpito l’immaginario di tutti, è perché il problema non è Libero, ma anni in cui si è fatta carne di porco del nostro mestiere, prima per qualche copia, poi per qualche click in più. E una supercazzola isterica e affatto argomentata come risposta non aiuta. Se i nostri lettori – i nostri primi referenti, ricordiamolo, a cui non dobbiamo obbedire ma che dobbiamo rispettare – si indignano così e da tanto, troppo tempo, abbiamo un grosso problema. Ma vuol dire ancora che non si sono arresi, loro. Se si arrabbiano, sperano ancora in un’informazione migliore.

Torniamo degni di chi ci ha insegnato il mestiere, torniamo degni della nostra passionaccia. Confrontiamoci, invece di replicare le dinamiche di potere di una società che dovremmo raccontare, migliorare e non assecondare nei suoi bassi istinti.

Sì, Picchio era mio amico. Ma rimango un giornalista.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

2 commenti

  • Mariano Rampini

    Sono stato giornalista. Di piccole cose come la politica sanitaria, quella farmaceutica. Ho scritto di e per gli infermieri professionali. Ho scritto di professione e, fin troppo spesso, ho dovuto non-scrivere per far sì che gli equilibri di un mondo nel quale le cose non sono sempre in luce, restassero tali. Sono stato giornalista in piccole redazioni, talmente piccole che, alla fine, ero il caporedattore (così venivo spesso presentato) di me stesso. Non sono mai riuscito a ottenere la tessera professionale (?) : quando iniziai il “mestiere”, nelle piccole realtà in cui lo andavo imparando, vigeva ancora la severa regola della presenza in redazione di sei professionisti per un praticante. A sognarseli. Poi quando finalmente la regola fu attenuata, era passato troppo tempo per potermi assicurare una pensione decente e non avevo certo i soldi necessari a convertire i “vecchi” contributi Inps in contributi Inpgi. I colleghi dei quotidiani (in particolare gli amici de Il sole 24 Ore sanità) mi prendevano un po’ in giro per questo ma non hanno mai messo in dubbio la qualità del mio lavoro. Ora leggo di questa ennesima diatriba sul dire o non dire, sul sottolineare o non sottolineare. E mi viene un po’ di rabbia perché per tanto, troppo tempo (praticamente quasi fino alla pensione) il non dire, il non sottolineare è stata una regola alla quale ho dovuto giocoforza adattarmi. Non fosse altro per poter portare la “strozza” a casa. Mi si dirà: ma il morto in questo caso era certamente scomodo. Vero: in un tempo come quello che ci scorre attorno, la scomodità a qualcuno piace, a molti fa comodo perché la stessa morte diventa un’arma, qualcosa con cui “titillare” i ben pensanti e trasformare il defunto in un fenomeno caratteristico di chi la pensa come lui. E allora come risolvere il problema senza innescare una guerra intestina? Come dare una notizia, con tutto il suo corollario di tristezza e di cupio dissolvi che a volte avvolge chi scompare? Credo ancora una volta che si debba fare – chi vuole, almeno – un passo indietro. Tornare a raccontare la realtà per quella che è, brutta o bella che sia. Avvenne, lo ricordo bene, lo stesso per un artista che amai di molto in mezza gioventù: Andrea Pazienza. Eppure l’arte di Andrea è stata tanto forte da superare quell’ultima siringa. E, a mio avviso è questo che conta. Perché oggi se si parla di Pazienza, non si parla di un drogato che morì per un buco. E lo stesso, probabilmente, sarà per De Rienzo. Perché le cose vanno oltre noi stessi, ci superano e ci sovrastano lasciando impronte difficili da cancellare. In questo caso è merito di chi non c’è più. E a loro dobbiamo essere grati. Valutando ciò che ci hanno lasciati e non puntando il dito sull’inutilità di una morte che, forse, ci ha privati di quanto altro avrebbero potuto fare. Discutere sul fatto che ci fosse una busta di eroina o dieci o cento non cambia la sostanza dei fatti. E dovrebbe riportarci a ricordare la pietas degli antichi. Che da troppo tempo giace dimenticata e che, al contrario, dovrebbe lei essere la fonte prima a cui si pensa quando si scrive di una morte.

    • Francesco Masala

      sono del tutto d’accordo con quello che scrivi.
      il fatto che si possa scrivere di tutto non significa che si deve scrivere di tutto, la pietas non è più contemplata.

      se qualcuno nel momento della morte sporca il lenzuolo, e succede, noi lo ricordiamo per quello?

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