Olivagando

Tutti alle olive, con “riserva” fra Liguria, Umbria, Sicilia e Abbruzzo, per finire con Biamonti!

20esimo appuntamento con l’«Angelo custode» ovvero le riflessioni di ANGELO MADDALENA per il lunedì della bottega

Anche oggi (che scrivo) non siamo andati a raccogliere olive: troppa nebbia e troppa umidità. Ieri abbiamo provato ma abbiamo trovato le olive umide o bagnate e non va bene raccoglierle così perché poi si infradiciano nelle cassette, bisogna siano asciutte. Anche oggi quindi silenzio e solitudine: nebbia e umidità fanno stare cauti e più ritirati. Anche oggi scriverò.

Molti anni fa – quasi venti ormai – ero tornato alle origini, alla campagna: raccoglievo olive, mandorle, noci. Il mio primo racconto pubblicato da una casa editrice importante si chiama Acqua, cavalli e noci, nell’antologia «Selvatico e coltivato» (Stampa alternativa, 2003). Giorni fa ho ripreso in mano quel libro dopo tanti anni che giaceva nello scaffale della mia libreria (ha resistito, in teoria, a molti trasbordi, ma in realtà l’ho lasciato per quasi tutto il tempo a casa di mia madre in Sicilia, in attesa di una maggiore sedentarietà da poco assestata). Sono contento di raccogliermi e raccogliere i pensieri, piuttosto che le olive; anche perché, appunto, fa freddo e sono bagnate. Del periodo di quel “ritorno alle origini” ho conservate così tante suggestioni che ho cominciato a scrivere un romanzo, chissà se mai lo finirò. Il sunto di tutto però l’ho cantato, più che raccontato, in almeno tre mie canzoni dell’album della “svolta” cioè «Pani picca e libertà», autoprodotto nel 2014. Lì dentro si trovano molte canzoni scritte in campagna o rielaborando le esperienze campagnole successive alla laurea: Io le mandorle non le raccoglierò più credo sia la più appropriata al discorso che sto facendo, anche se ce ne sono altre: L’ecovillaggio, Insurrezione semplice e altre ancora.

La canzone Io le mandorle non le raccoglierò più continua a essere ricordata e cantata da giovani e giovanissimi: una prova che è entrata nel cuore delle cose, del mondo, la musica e il testo ovviamente, insomma il senso profondo, anche se non sempre tutto ciò è consapevole: l’arte , per quanto mi riguarda, o meglio, la poesia, ha e deve avere una componente irrazionale per penetrare negli animi, con contenuti forti e di senso, di spessore. C’è una strofa della canzone suggeritami da Attilio Del Vinco, che è il mio compagno di raccolta di olive di questi giorni: «una volta era bello perché conviviale». Qualche anno fa un ragazzo di estrazione sociale popolare mi disse che avrebbe voluto farsi fare una maglietta con quella frase, che forse non sapeva neanche cosa volesse dire la parola conviviale ma sentiva qualcosa in quelle parole che lo toccavano evidentemente.

Circa tre anni fa ho fatto uno spettacolo a Pescara, in un bellissimo teatrino della Compagnia dei guasconi (conservo ancora la maglietta). Qualche giorno dopo un altro a Penne, vicino Pescara, organizzato da Marco, un ragazzo che mi aveva conosciuto due mesi prima sempre a Pescara, in un circolo culturale che si chiama Scumm. Marco mi ospitò con tale generosità che giunse a darmi la sua casa dove abitava a Pescara in quanto studente, perché in quei giorni lui raccoglieva le olive a Penne dai suoi genitori. Cominciai a scherzare su questa cosa e a dire agli amici: «le olive mi perseguitano».

Dopo qualche mese, per andare incontro alla persecuzione, mi trasferii nella Liguria di estremo ponente, a Dolceacqua. Figuratevi a che punto arriva “l’amore” per gli ulivi e per la raccolta delle ulive; non lo avrei mai detto ma vi assicuro che ho sentito queste parole da un ragazzo di venticinque o trent’anni, a Dolceacqua: «Ho una voglia di ramare!». Lo diceva a un suo amico, poi ho scoperto che ramare da quelle parti vuol dire proprio questo: raccogliere olive dai rami (da qui l’origine del termine). La cosa mi colpì perché lo diceva quasi come se dicesse «Ho voglia di fare l’amore con le olive». Guarda caso, per dire la sintonia (poetica!) con questa “voglia di ramare”, il mio racconto Acqua cavalli e noci comincia con parole simili: «E’ la prima volta che faccio l’amore con l’acqua che cade dal cielo, qui alle Vagne». E’ ovvio che io sono uscito da quel “tunnel” – come dicevo prima – viaggiando e cantando… Perché dico questo? Non è mica un tunnel l’amore per la terra, per gli alberi, per la raccolta dei frutti. Eppure in tutto ciò si potrebbe trovare qualcosa di malsano o quanto meno di sospetto, che cercherò di spiegare.

Non è malsano quel ragazzo che ha voglia spasmodica di ramare, certo che no, mi dà solo la possibilità di prendere spunto da questo gesto per un discorso più ampio. Se non altro, citerò persone e un libro che mi aiutano a spiegare. Il libro è scritto dal figlio di un minatore siciliano costretto a partire dal suo paese del centro Sicilia ricco di ulivi, per andarsi a sotterrare otto ore al giorno nelle miniere di carbone del Sud del Belgio. Quando andavo in campagna a curare gli ulivi e lo dicevo a mia nonna paterna (ero tornato da poco da Milano dopo la laurea in materie letterarie, questo per dire il contesto) lei mi rispondeva così, un po’ sprezzante ma sempre con garbo e dolcezza: «Vidi stu viddanazzu!». Tradotto: “ma che cazzo vai a fare in campagna”. Oltretutto ci vai da solo! Non c’entri niente tu con la campagna (le dico grazie dalla terra al cielo, anche perché lei, figlia di uno scrittore e traduttore, sapeva che ero portato per la letteratura e non era il caso di perdermi in quei vagheggiamenti neoruralisti; una strofa della canzone “delle mandorle” accenna a tutto ciò) ma soprattutto portava una verità che avevo trovato nel romanzo «Rue des italiens», scritto da Girolamo Santocono, figlio del minatore siciliano di cui prima. Nella scena in cui il bambino che torna dal Belgio va col nonno in campagna (siamo nel Centro Sicilia dei primi anni ’60) un vicino di campagna del nonno se ne esce così: «Dopo di noi, la vita in campagna è finita». Lo diceva anche perché parlavano di un ragazzo che, invece di coltivare la terra del padre, aveva deciso di andare in fabbrica a Torino.

Eccoci arrivati al punto, o quasi. Una strofa della canzone “delle mandorle” dice: «Io le mandorle non le raccoglierò più / magari a tempo perso…/ come ho fatto l’anno scorso / ne ho raccolte un pochino (parlato nella canzone: 20 chili)/ le ho scricchiolate a mano». Così sto facendo con Attilio Del Vinco: un’ora o due ore, al massimo tre ore al giorno, con ritmo non “affannoso” (esempio: quando sono tentato di togliere tutte le olive dai rami in modo spasmodico, Attilio mi ricorda che un po’ possiamo lasciarle anche agli uccelli).

E’ ovvio che qui si parla di persone che non hanno una necessità stringente né di guadagnare soldi da quei frutti né un quantitativo superiore a 50 piante di ulivo da raccogliere. Ma è una questione di “meccanismo”. Quando mi scattò l’ispirazione per scrivere la canzone “delle mandorle” mi trovavo nel terreno di famiglia, dove ho abitato per un anno, fra il 2012 e il 2013: una casa antica e molto bella (ma piccolina ovviamente) dove non era stato nessuno dopo che mio padre la ristrutturò negli anni ’70. Mi stavo facendo prendere anche allora, dopo tanti anni, dalla “manìa” insulsa, in quel caso molto poco produttiva (le mandorle proprio quell’anno le pagavano anche meno del solito i grossisti, e in ogni caso si parla sempre di meno di 50 alberi produttivi!). Mi venne un’illuminazione e lasciai il bastone per terra, raccolsi le poche mandorle che avevo e le scricchiolai a mano con una mia amica (che poi diventò la fidanzata di quel periodo).

Il succo del discorso sta anche nel fatto che oggi non solo manca la convivialità ma è rimasta la solitudine dell’uomo… con le macchine! Negli ultimi anni vedo esseri umani da soli con un armamentario sul tetto della macchina, che serve a far cadere dall’albero mandorle e olive: funziona con il motore della macchina o del trattore. Io e Attilio raccogliamo a mano, senza motori. Ieri un signore che ha tante piante di ulivo ci diceva che fra motori e motorini, spese per manutenzione di quei motori, molitura e tutto il resto «mi converrebbe andare a comprarmi l’olio» (per non pensare alle spese per la potatura se non la fai tu ecc.).

Tutto ciò per dire cosa? Tralasciando le derive di romanticume e finta liberazione che la campagna ci potrebbe dare, vorrei tornare in Liguria col pensiero. Cosa ci dicono certe espressioni di “amore estremo” per la «ramata» del ragazzo ligure e di amiche mie di quei paesi? Persone che vivono in questo periodo una sacralità estrema tale per cui una donna di quasi 80 anni va a raccogliere olive anche se le costa tanta fatica (la mamma di una mia amica, l’anno scorso mi disse che quest’anno non glielo avrebbe permesso) e tale per cui non esiste la possibilità di andare in ferie in quel periodo e spostarsi dal paese anche minimamente. E’ chiaro che c’è anche una questione di attaccamento alla terra, alla “roba”, all’olio e ai soldi che si risparmiano (abbiamo visto che non sono neanche tanti) o si guadagnano. Ma attenzione: io per le due mie amiche parlo di famiglie benestanti le quali non vivono dell’olio che producono e fanno altri lavori di ufficio e di scuola. Cos’è allora questa manìa? Una malattia? E’ un amore estremo, disperato, forse malato, ma sempre amore è. Direi di più, c’è qualcosa di struggente: la Liguria, soprattutto di estremo ponente, è una terra estrema, in cui l’amore per gli ulivi è una forma di “aggrappamento” a qualcosa che forse rappresenta l’ultimo valore rimasto in un mare di fatica, di terra scoscesa e difficile da coltivare ecc. Non intendo che la Liguria sia una terra straziata né dilaniata ma forse dovrei dirlo: a me affascina tanto, e anche se per certi versi è una terra “avara” (depressa culturalmente a volte, scoscesa, isolata) io morirei per la Liguria. E il mio ultimo cd ha anche nel sottotitolo questo mio amore disperato.

Francesco Biamonti ha scritto capolavori che raccontano questa Liguria con la magìa e l’amore per il paesaggio dominato e addolcito dagli ulivi, lui che è nato a San Biagio della Cima, a pochi chilometri da Bordighera (esiste un parco letterario a lui intitolato). Forse sarebbe importante, per molti di noi, liguri e non, leggere e rileggere i libri di Biamonti, per amare, anche senza affannarsi nel “desiderio di ramare”.

PS: quando ero in campagna “affossato”, quindici anni fa, il dono di un’amica mi aiutò a capire che dovevo stare attento all’attaccamento radicale o fanatico alla terra, era il libro Walden o vita nei boschi di Thoreau. Proprio ieri leggevo un contributo di Mario Vargas Llosa sul fatto che ci sono anche molte persone che leggono oggi, ma solo “romanzetti”, roba di evasione o libri “Btelevisivi” mentre sarebbe importante leggere quel che fa viaggiare ma non evadere, che porta dentro la realtà facendoci sentire profondamente parte di essa, proprio come i libri di Francesco Biamonti. Faccio un po’ di “flusso di coscienza” e mi viene in mente Quel fantastico giovedì di John Steinbeck, letto anni fa: non si parla di vita in campagna ma in certe scene e slanci del protagonista ho trovato un senso di selvatico, il bisogno struggente di vita “selvaggia” o qualcosa del genere. Appresi leggendo quel libro che uno scrittore vero ti può fare vivere (e magari superare il bisogno infantile di vita selvatica) in modo molto più completo, profondo e liberatorio di anni in campagna ma con una vita ritirata, sterile e autodistruttiva. Ne ho visti molti di casi simili, chissà se riuscirò a metterle dentro quel libro in cantiere; o forse già l’ho fatto con le canzoni.

13 novembre 2018, San Feliciano sul Trasimeno

PS DELLA “BOTTEGA”

Qui un’fferta di Angelo… ma entro il 20 novembre, A.

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QUESTO APPUNTAMENTO DEL LUNEDI’ (SARA’ MICA POCO UN LUNEDI’ A SETTIMANA?)

Mi piace il torrente – di idee, contraddizioni, pensieri, persone, incontri di viaggio, dubbi, autopromozioni, storie, provocazioni – che attraversa gli scritti di Angelo Maddalena. Così gli ho proposto un “lunedì… dell’Angelo” per aprire la settimana bottegarda. Siccome una congiura famiglia-anagrafe-fato gli ha imposto il nome di Angelo mi piace pensare che in qualche modo possa fare l’angelo custode della nuova (laica) settimana. Perciò ci rivediamo qui – scsp: salvo catastrofi sempre possibili – fra 168 ore circa che poi sarebbero 7 giorni, mi dicono da qualche  regia. In realtà questa settimana mi servivano due lunedì perchè Angelo mi ha inviato due post ma io ero “preso” (oltre che miscredente) e non sono riuscito a moltiplicare pane, pesci e neppure lunedì. Ritenterò [db]

Redazione
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