Oltre il 15 ottobre: noi e loro? Ma noi chi?

di db più 4 (*)

Cinque persone a ragionare sul 15 ottobre ma soprattutto sul dopo. Se volete sapere “chi siamo” alla fine trovate un identikit di (mini-)gruppo. Sono appunti e riflessioni aperte, certamente incomplete e provvisorie e su qualche passaggio non c’è unanimità (abbiamo votato a maggioranza).

Questo è l’indice:

1 – Si discute per capire?

2 – Ha ragione Parlato?

3 – Goodman

4 – Sartre

5 – Angelo

6 – Prima di arrivare alla violenza di piazza san Giovanni….

7 – Mondi concreti e inventati

8 – Sparite

9 – Sparate (e cazzate)

10 – La violenza che verrà

11 – Mark, Giorgio, Bifo ecc

12 – Enrico, Maria, Gandhi

13 – Ma se invece quelli erano sbirri?

14 – Una torta (del tempo) per finire

15 – (*) Ammesso che ve ne freghi quasi un identikit

1 – Si discute per capire?

Partiamo con una citazione e una raccomandazione bloggistica.

Secondo il buon vecchio Dashiell Hammett «ci sono due tipi di persone: quelle che discutono per capire e quelle che discutono per avere ragione».

Noi cerchiamo (o così ci auguriamo) di essere del primo tipo. Tentate anche voi se volete interloquire. Discutiamo con tutte/i e ci interessa soprattutto capire: e dunque in primo luogo il confronto con chi non la pensa come noi. Però, è inevitabile, ci sono paletti; sull’autobus si può (forse si deve) trovare il tempo per spiegare a un fascistello o a un vecchio ignorante che Hitler “non aveva ragione” ma in blog non si può perder tempo a replicare a ogni palese bugia e/o insulto (mascherato da argomento). Quei falsi dibattiti tipo “tortura sì o tortura no?” non fanno per noi: tortura no, senza se e senza ma.

2 – Ha ragione Parlato?

E’ stato molto criticato «il manifesto» di domenica 16 ottobre per non aver titolato sulla “violenza” ma per aver accostato una immagine del corteo e il “fuoco” di piazza san Giovanni sotto la frase «Lettera alla Bce». Poco meno che linciato Valentino Parlato per aver scritto (sempre quel giorno nel’editoriale de «il manifesto» intitolato «Una nuova epoca») queste frasi: «A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile».

3 – Goodman

«Mano a mano che la società si fa più compatta e assoluta, un atto criminale può ben essere un muto gesto politico e una protesta politica è inevitabilmente considerata criminale» così Paul Goodman in «La gioventù assurda» del 1960.

4 – Sartre

E qualche anno dopo Jean- Paul Sartre: «Noi (intellettuali) non abbiamo più nulla da dire ai giovani. […] Abbiamo gridato, abbiamo protestato […] e poi alla fine eccoci qua: abbiamo accettato ogni cosa. […] Di dimissione in dimissione una sola cosa abbiamo imparata: la nostra radicale impotenza».

5 – Angelo

Db incontra per strada Angelo, un ventenne: operaio per campare e musicista per passione.

«Angelo come va?».

«Nulla di nuovo (bla-bla)…».

Db: «e la politica?».

Angelo: «Al solito. Sono anni che giriamo intorno. Sto pensando che è come il mulinello dell’acqua, quello nella tazza del cesso».

6 – Prima di arrivare alla violenza di piazza san Giovanni

Con l’aiuto metaforico di Parlato, Goodman, Sartre e Angelo (siamo in un gorgo) abbiamo discusso in 5 – a distanza, che fatica – della violenza prima, durante e dopo san Giovanni. Di cosa ci aspetta. Noi temiamo che Valentino Parlato abbia ragione, che Goodman, Sartre e Angelo abbiano ragione. Ma soprattutto siamo concordi nel ritenere che ci attenda un futuro tremendo, durissimo e ancor più pieno di violenza di quello che già viviamo; precisiamo: che viviamo ogni giorno non solo i sabati dei cortei. E’ brutto da dire, non ci piace affatto (speravamo in un mondo migliore per figli e figlie) … ma se così sarà il tacerlo, l’esorcizzarlo, parlar d’altro sarebbe peggio. A meno che non si presuma di salvarsi “da soli” e anneghino pure tutti gli altri e le altre. Non è il nostro caso: non possiamo e soprattutto non vogliamo salvarci da soli. Importa «onde vamos» ma ancor più «se que vamos todos». E che gli altri – ma chi sono? – «que se vayan todos», lontano da noi, come hanno cercato di praticare in Argentina mettendo insieme risultati non disprezzabili. Per questo modo di pensare nelle nostre vite abbiamo sempre (o quasi) cercato di costruire lavoro sociale e politico. Dunque ci sembra urgente, più che discutere del 15 ottobre, capire che fase stiamo attraversando, cosa accadrà , se ci sia davvero un «noi» (ma noi chi?) contro un chiaro «loro» (loro chi?). In che mondo viviamo? Da dove ricaviamo le informazioni (e le categorie) necessarie per interpretarlo? E’ possibile, come diceva un certo barbone tedesco, solo interpretarlo – in questo caso trattasi del migliore dei mondi realisticamente possibile – o è possibile, anzi necessario e urgente, cambiarlo, magari metterlo sottosopra? Come si fa? Non bastano poche/i ma dovunque andiamo l’importante è «que vamos todos».

7 – Mondi concreti e inventati

Come spesso ha scritto db su questo blog, citando Paul Watzlavick, «fra tutte le illusioni la più pericolosa è credere che esista una sola realtà». Perfino in questo sputo che è l’Italia noi viviamo in mondi diversi e incomunicanti; fatichiamo a confrontarci, a raccontarci perché oltretutto viene incoraggiato l’autismo (un discorso lungo, si farà un’altra volta), la cultura viene penalizzata, la curiosità punita, la paura sponsorizzata e premiata mentre latita la buona politica.

Dentro questi mondi differenti, molte/i fra noi subiscono – chi più e chi meno – il fascino e l’inganno della narrazione-informazione data dai grandi media: anche se non sono così idioti da credere a tutto quello che dicono i Grandi Cugini (cioè tv-Repubblica-Corsera-ecc) molte/i spesso finiscono per pensare vera una notizia, una tendenza, una parola che i grandi media ripetono ossessivamente. Soprattutto tante/i cascano nella trappola del finto dibattito: tutte/i a discutere di X per far dimenticare che la vera emergenza è Y. Il buon db le chiama notizie (e/o discussioni) “sparate” da contrapporre alle “sparite”, notizie e dibattiti da cestinare. Parolacce (sfruttamento, per dirne solo una) impronunciabili nei luoghi dove la sinistra per bene e la destra pure per bene fingono di informare e/o discutere. Ci formiamo le idee sul mondo in base a notizie sparate (perlopiù false e comunque parziali, decontestualizzate) e a molte altre, importantissime sparite che dunque non possono raccontarci altri pezzi del mondo o addirittura altri mondi. Se fermi una persona media per strada e le chiedi a cosa associa Nigeria risponde “prostitute” perché solo di questo i media riferiscono e “discutono”; se ci fossero altre informazioni molte persone a Nigeria assocerebbero petrolio, ricchezza e saccheggio, rifiuti tossici italiani scaricati lì o Ken Saro-Wiwa. E’ un vecchio trucco del potere far passare solo certe notizie e consentire solamente i falsi dibattiti ma in Paesi che si dicono democratici oggi il coro è diventato più ossessivo ed esclusivo che mai, dunque molto deboli gli strumenti cognitivi e culturali per farsi un’altra idea e… per resistere.

8 – Sparite

Qualche esempio? Una quintalata non basterebbe.

Sparisce a esempio la notiziola – migliaia di statistiche – che dall’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo in ogni Paese (con rarissime eccezioni) i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.

Sparisce anche l’informazione che il reddito viene redistribuito da tutti i governi verso i ricchi. Tutti i governi vuol dire che se si guarda il bilancio economico dei governi detti di sinistra o centro-sinistra in Italia, come in molti altri luoghi, si può verificare che durante gli anni in cui erano al potere le loro leggi e scelte politico-economiche non hanno in alcun caso favorito i lavoratori e tanto meno i “poveri” che dunque si sono ulteriormente impoveriti sia in denaro che in diritti che in speranze.

Ogni tanto i grandi media parlano di questi vecchi e nuovi poveri come pure fanno gossip ammirato e reticente verso vecchi e nuovi ricchi; però non capita mai che mettano in relazione le due cose. Con ogni evidenza se pochi si arricchiscono molti si impoveriscono; con ogni evidenza sono i pochi a derubare i molti. Lo si potrebbe dimostrare, quasi in maniera matematica, se si volesse: ma è tabù parlarne, fiiiiiiiiiguriamoci mostrare documenti, grafici, tabelle.

Dentro questa redistribuzione del reddito (a favore dei ricchi) deve essere smantellato il Welfare e ogni diritto. Per questo urge la sussidarietà cantano in duetto Cl e Napolitano; in realtà parlano di elemosina. Restando all’Italia (che meglio conosciamo) è evidente che da tempo è finito ogni tentativo di diminuire le diseguaglianze ma anche di garantire a tutte/i un serio diritto allo studio e alla salute. Lavoratori e lavoratrici in questi anni hanno perso salario reale e diritti; per rendere più facile il saccheggio sono spariti dalla scena informativa e delle discussioni politiche; per ostacolare la ribellione ogni paletto è stato messo contro chi vorrebbe liberamente organizzarsi.

A favorire il lavoro precario in Italia è stata soprattutto la “sinistra” (è un fatto storicamente verificabile non un’opinione) e dentro quel tremendo meccanismo è aumentata la quota di intermediazione criminale come quella di condizioni vicine allo schiavismo. Pochissimo se ne può parlare e comunque lo Stato non è interessato a intervenire. Un libro-reportage di qualche anno fa si intitolava «Morire a 3 euro» e raccontava appunto che – oltre a essere pagati nulla e a non essere garantiti – lavoratori e lavoratrici si trovano in condizioni di totale insicurezza il che significa rischiare la salute o perdere la vita… talvolta senza finire nelle statistiche dei morti sul lavoro perché ogni anno certamente centinaia, forse migliaia di cadaveri scomodi vengono fatti sparire o gettati in strada simulando incidenti. Morire sul lavoro e del lavoro appunto: se alcuni dei molti “omicidi bianchi” (noi li chiamiamo così perché sono i delitti in guanti bianchi della gente per bene, cioè di chi gestisce la macchina capitalistica) arrivano sui grandi media, quasi sempre si tacciono le vere ragioni, cioè le responsabilità, e quasi sempre si dice il falso sulle cifre vere giocando a confondere percentuali, statistiche e numeri calcolati in modi diversi e/o di comodo.

Quasi sparite le notizie del quotidiano mobbing di governo e istituzioni contro gli stranieri e le straniere. Se ogni 19 marzo i governi italiani finanziano attività culturali (talvolta meritorie) contro il razzismo, negli altri 364 giorni – o 365 se si tratta di anno bisestile – pagano e incoraggiano attività e leggi a favore del razzismo.

La violenza contro le donne torna a salire per molte e complesse ragioni ma di certo in molti Paesi (e in Italia in modo particolare) trova complici a livelli istituzionali e viene incoraggiata dall’incultura – ma anche dai comportamenti – del potere: sparite le notizie, le cifre, le analisi.

Si parla fin troppo di Borsa ma senza mai far cenno che a manovrarla sono poche persone, che in quel manicomio una delle poche cose comprensibili è questa: quando una grande azienda licenzia, le sue quotazioni salgono cioè si premia chi favorisce la disoccupazione.

C’è una tendenza generale purtroppo evidente a chiunque non si voglia accecare da sé: è che la guerra torna lo strumento “legittimo” per risolvere ogni controversia ma pure per favorire gli interessi (come le esportazioni) nazionali. Le guerre dell’Italia – diverse fra loro ma tutte guerre – sono così tante che alcuni non riescono a contarle ma i più incoraggiano … l’oblio. Uno dei pochi libri davvero necessari e sconvolgenti di questi anni fu, nel 2005, «Dizionario delle nuove guerre» di Marco Deriu. Da quelle notizie e da quelle analisi bisognerebbe ripartire per opporsi davvero al militarismo. Le fanciulle e i fanciulli che si pittano il viso di arcobaleno fanno simpatia ma risultano del tutto inutili.

Anche sulla catastrofe ambientale-climatica le notizie circolano (il meno possibile) sui grandi media ma quasi sempre vengono date in modi incomprensibili e senza individuare responsabilità. Perché l’assassino qui certamente non è il maggiordomo (o lo psicopatico oppure 10 piccoli Black Block) ma il sistema capitalistico: non è possibile pensarlo, figuriamoci dirlo in pubblico.

Si potrebbe continuare a lungo. Ma questo diventerebbe un libro.

In particolare le notizie più sparite di tutte sono quelle che riguardano chi racconta altre verità, chi si oppone a quanto detto sopra, chi pensa con la propria testa, chi fa altre proposte, chi tenta di metterle in pratica e talvolta ci riesce. Ha scritto sul blog Romano Mazzon: «dai bassifondi del lavoro precario non si alza alcun urlo, al massimo un fragore di macchina o di macerie». E’ tragicamente vero ma se invece qualche voce di resistenza si solleva, i media censurano, insultano, criminalizzano. Fra le tante cazzate (vedi sotto) che si son dette sul 15 ottobre c’è pure quella che i cattivi di Roma si sarebbero addestrati fra i “No Tav” in Val di Susa. Come ben spiega Romano è proprio il contrario: destra e sinistra hanno costruito in Val Di Susa un laboratorio dove insegnare alla gente che loro nulla contavano e dopo questa gigantesca violenza se molte/i si sono ribellati hanno detto che la violenza era di chi si opponeva all’arbitrio. Il variegato e contraddittorio movimento “No-Tav” è dunque un grande contro-laboratorio di ribellione e speranza.

9 – Sparate (e cazzate)

Le conoscete – no? – le loro “sparate”: notizie ingigantite, decontestualizzate o del tutto inventate.

Nel mondo inventato dai media il sabato sera fa sempre più morti sulle strade anche se non è vero; si parla del Medio Oriente intendendo il Vicino Oriente; si chiama premier il gangster che ha preso il potere in Italia; si chiama opposizione quella che non si oppone; si nomina la guerra come pace; Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e Saddam passano da buoni o cattivi come muta il vento; fa più notizia il gossip che il dramma di milioni di persone in Africa (e ora in Grecia, a due passi da qui); si dà notizia e ci si indigna per le donne violentate dagli “stranieri” ma quasi sempre si tace per quelle ammazzate o stuprate dagli italiani doc. E un altro libro si potrebbe fare su ciò, oppure basta leggere ogni tanto Eduardo Galeano.

Ci riferiamo proprio a quel Galeano che scrive di democrazie, dittature e di «democrature» cioè di strani ibridi nei quali formalmente vigono le tipiche regole democratiche ma di fatto sono assenti le vere libertà. Tanto per dirla semplice: 4 di noi – 4 su 5 – sono sicure/i che l’Italia sia da tempo una «democratura»; la quinta persona è “ottimista” (lo dice con ironia): cioè crede che manchino alcuni (pochissimi, forse due soli) tasselli al definitivo passaggio da democrazia limitata a democratura.

Per avvicinarci ai “fattacci” di Roma. Sui media molte le “sparite” e ancor più le “sparate” e le cazzate: i poliziotti si sono solo difesi; gli zaini pieni di armi; quelli venuti dall’estero; gli scontri del 15 ottobre violenti come mai (mentre purtroppo è passato solo un trentennio da una guerra civile o forse guerra sociale); nella narrazione compaiono una statua sacra danneggiata, un drogato, Draghi che si dispiace, zaini pieni di armi e cento altri esercizi letterari e stereotipi; i danni sono irreparabili (4 giorni dopo a Roma un temporale e la totale inerzia del Comune generano una catastrofe ben peggiore); nei commenti si spiega che così si favorisce la reazione… E ognuno può notare che prima del 15 ottobre (prima cioè che i Black Block, chiunque siano, lo favorissero) quasi mai il governo Berlusconi aveva varato misure inique, antipopolari, anticostituzionali, razziste, “ad personam” o a esclusivo vantaggio dei ricchi (oppure del Vaticano che i-n-c-o-m-p-r-e-n-s-i-b-i-l-m-e-n-t-e in Italia qualcuna/o osa criticare).

Ah, se invece il 15 ottobre a Roma tutto fosse filato liscio… allora i media sì che avrebbero dato voce (a chi?), Draghi non si sarebbe dispiaciuto, Ratzinger avrebbe finalmente pagato l’Ici e persino smesso di offendere chi non è d’accordo con lui, ovviamente Berlusconi si sarebbe dimesso e, dopo poche settimane, il Chievo avrebbe vinto il campionato.

Ah, db si raccomanda di non scrivere Berlusconi ma P2-1816; d’accordo.

10 – La violenza che verrà

Noi 5 – che stiamo qui ragionando – abbiamo amici e amiche che hanno un sincero orrore per ogni tipo di violenza, una repulsione quasi fisica, quasi non riescono a nominarla e pur accettando in teoria che ognuna/o di noi, in certe condizioni, può diventare una bestia… poi in pratica non riescono ad entrare in una relazione, in un progetto che possa confrontarsi con le mille facce della violenza dove spesso vittime, carnefici e complici si confondono o si scambiano di ruolo e dove comunque bisogna fare i conti con vite “segnate” e con la violenza strutturale. Brutte realtà. Nei film e nei libri si capisce che i violenti puzzano e schizzano sangue ma nell’incontro di corpi è molto più pesante. Noi 5 abbiamo un diverso atteggiamento – forse semplicemente storie, esperienze e condizioni sociali di altro genere – ma rispettiamo amici e amiche (come le tante persone sconosciute) che hanno questo sincero orrore per ogni tipo di violenza. In fondo le capiamo. Non abbiamo invece alcun rispetto verso chi ha disgusto solo per la violenza dei poveri e brutti, degli sfruttati e dei disperati, di alieni o stranieri, ma è sempre, sempre, sempre e sempre pronto a nascondere e giustificare la violenza dei potenti e dei militari, dei “nostri”, del sistema che produce morte, miseria, violenza e guerra ogni giorno. I grandi media sono con ogni evidenza tutti da inserire in questo secondo gruppo (escluso, al solito, il caso “eccezionale” del giornalista o della giornalista stile “panda”).

Ci stupisce anche lo stupore di chi si chiede – anche fra gli “indignati” – perché qualcuno possa prendersela con le banche o con le agenzie interinali. Chi ama il buon cinema ricorderà nel film «Una giornata particolare» Sofia Loren dire che «il tipo del secondo piano è antifascista» e Mastroianni risponderle «no, il fascismo è contro l’inquilino del secondo piano». Il discorso va appunto rovesciato. Le grandi banche sono contro di noi, usano ogni giorno violenza: qualcuno risponde bruciandole, forse sbaglia (3 di noi su 5 pensano che valga la pena discuterne prima di pronunciare scomuniche) ma sarebbe paradossale raccontare che le banche sono innocenti. In tutte le agenzie interinali si consuma ogni giorno lo sfruttamento a livello quasi schiavistico e una intermediazione da “caporali” cioè una rapina; in alcune di queste c’è in più anche una studiata (cioè preparata a tavolino) volontà di umiliare lavoratori e lavoratrici per renderli/e più malleabili. Non dovrebbero essere un obiettivo di chi si ribella? Di nuovo: si può discutere le forme della protesta ma che le agenzie interinali siano nemiche di ogni giustizia è incontestabile. Se no… chi è il nemico? Il solo Berlusconi?

Ma prima di vedere se davvero esiste un chiaro “noi” e un chiaro “loro” occorre fermarsi sulla violenza che verrà.

Nel dibattito aperto su «il manifesto», Franco Berardi – “Bifo” – il 20 ottobre ha scritto: «So che nei prossimi anni vedremo ben altro che un paio di banche spaccate e camionette bruciate. La violenza è destinata a dilagare dovunque. E ci sarà anche la violenza senza capo né coda di chi perde il lavoro, di chi non può mandare a scuola i propri figli e anche la violenza di chi non ha più niente da mangiare». Noi siamo convinte/i di questo. Accadrà. E presto. Non sarà bello, non ci piace ma inevitabilmente accadrà. E se pure questa violenza non prendesse una forma, pur vagamente, di piazza o magari “criminale”, in ogni caso la rabbia provocata dalla violenza strutturale – cioè di un dominio sempre più repressivo e schiavistico – esploderà fra noi: italiani contro stranieri (già ci si prova), settentrionali contro meridionali (c’è la Lega no?), capri espiatori vecchi (i rom) e nuovi (magari un Marco Pannella che, certo a modo suo, passa fra i “buoni” di un corteo i quali “buoni” però lo scelgono come colpevole di tutto e, a dir poco, lo sputazzano) con sempre più le donne e i bambini, i vecchi e i deboli da usare come bersaglio, pungisball e con il crescere dell’auto-lesionismo, del malessere psichico, della già quotidiana fatica del vivere. Questa violenza si può evitare solo se ha in mente un altro progetto, forte e davvero alternativo (al sistema cioè al capitalismo “reale”) in grado di parlare a questa gente disperata; per dirla con Bifo: «il nostro dovere è inventare una forma più efficace della violenza e inventarla subito, prima del prossimo G20 quando a Nizza si riuniranno gli affamatori».

Una forma più efficace della violenza… è possibile? Proveremo a rispondere al punto 12 ma prima tentiamo un altro passaggio sulla “nostra” violenza.

11 – Mark, Giorgio, Bifo ecc

Che la violenza sia anche fra noi, nelle nostre teste, dovrebbe essere ovvio. Il discorso è molto complesso e ci chiama in causa – tutte/i e ognuna/o – sotto mille aspetti. Purtroppo. Se ne riparlerà con calma e spesso, si spera. Intanto non serve ripetere quanto su questo blog hanno già scritto Mark Adin e Giorgio Monestarolo, nè nascondere le diversità fra loro (o nei vari commenti) come fra noi.

Proviamo a fare un altro passo?

Noi 5 – e crediamo la maggior parte delle persone intervenute in blog – nella vita quotidiana come nella politica non approviamo la violenza se non per difendersi eppure non ci diciamo “altro” dopo il 15 ottobre, non chiediamo più polizia contro i “cattivi”, non pensiamo che la nostra violenza (politica in questo caso) sia in futuro una impossibilità assoluta o l’errore più grave. Riprendiamo ancora Bifo: «Io sono tra i violenti e gli psicotici per la semplice ragione che là è più acuta la malattia di cui soffriamo tutti». Se non parliamo a loro, con loro beh ma con chi dovremmo confrontarci? Forse con il Pd che ha, con minime varianti, lo stesso progetto per affamarci e toglierci altri diritti? Dopo quella frase Bifo aggiunge: «vado tra loro e chiedo, senza tante storie: voi pensate che bruciando le banche si abbatterà la dittatura della finanza?». Noi, con Bifo, facciamo le stesse domande. Se l’obiettivo è comune – abbattere la dittatura della finanza – chi si ribellerà (anche in quei modi che noi 5 non crediamo “saggi”) è comunque la “nostra” gente, con loro dobbiamo trovare un’altra via. Non sarà facile, tanto meno divertente ma lì bisogna stare. Chi conosce un po’ di storia sa di quanto sangue grondi il Novecento (anche nei Paesi “democratici”) e quanto sia costato strappare un po’ di soldi ai ricchi e un po’ di diritti per tutte/i. Non sarà per niente divertente… ma esistono altre vie? Meno violente? Più facili? E che però ci consentano di fermare l’ingiustizia? E fermare l’ingiustizia, non farla crescere ci basta o bisogna anche farla regredire, abbatterla?

12 – Enrico, Maria, Gandhi

Ci interessa alemo accennare a quanto ha scritto ieri Maria G. Di Rienzo sul blog e al ragionare a caldo di Enrico Euli.

Maria fa una analisi che contiene molte scomode verità ma, secondo noi, mette in ombra quanto sia grande la violenza del sistema e contrappone i nostri “cattivi” ad altri – soprattutto altre – che operano in contesti diversi. Abbiamo davvero molto da capire sul potere «soffice» da contrapporre al potere «duro» e moltissimo da imparare dalle donne (dell’India, dell’Africa, dell’America latina) e dalla nonviolenza. Ma bisogna prima intendersi bene: di cosa stiamo parlando? A esempio la non violenza, che qui in Italia di solito si scrive appunto in due parole, è cosa diversissima dalla nonviolenza, tutta attaccata, gandhiana.

Noi 5 – pur in disaccordo su non poche questioni – siamo concordi nel ritenere che Gandhi fu un rivoluzionario, un sovversivo. La nonviolenza è una pratica ben diversa dall’astenersi da atti violenti. Se si assiste a una ingiustizia, a una violenza bisogna – molte volte lo ripete Gandhi – essere capaci di mettere in pratica o di organizzare la nonviolenza; ma se questo non è possibile, tra il non far nulla e dunque lasciare che si consumi l’ingiustizia o invece ribellarsi a essa sia pure con violenza … l’errore meno grave è il secondo. Qui è grandissimo il nostro disaccordo con molto del poco che si muove (o meglio si muovicchia) nell’area che in Italia si definisce nonviolenta dove pure 2 su 5 di noi in qualche modo sono – o sono state/i – concretamente impegnate/i. Ma è un discorso che si farà semmai un’altra volta.

Invece riprendiamo qui – quasi a mo’ di conclusioni e di indicazioni per il futuro prossimo – un lungo intervento di Enrico Euli (il suo testo è in corsivo) con il quale siamo del tutto d’accordo (magari lui non sarà contento che noi lo “usiamo” in questo contesto ma in caso… speriamo se ne riparlerà anche con lui).

SU ROMA, IERI

Devo dirvelo: alla terza macchina incendiata, ho girato canale.

Ai campionati mondiali di scherma, due atleti paralimpici si fronteggiavano a colpi di fioretto, dimenando goffamente il busto e le braccia, disperatamente ancorati ad una sedia a rotelle, che non permetteva loro ulteriori movimenti.

Ostaggi di sé stessi.

Si agitano tanto: si agitano i governatori e i banchieri nei loro G7,G8 e G20, alla ricerca di soluzioni (così dicono); si agitano gli ‘indignati’, con manifestazioni e cortei di protesta.
Ma, al momento, si confrontano due disabilità: quella del capitalismo protervo e boccheggiante e quella della tradizione democratico-pacifista, con i suoi rituali spenti e inadeguati.

Si prosegue, insomma, sulla strada di Genova: nessuna autocritica da entrambe le parti, nessun ascolto e cambiamento da parte di chi sta sopra, nessuna revisione delle pratiche di lotta da parte di chi sta sotto.

Intanto, in profondità, nella microfisica della vita quotidiana, una sostanziale collusione.

E, così come a Genova, come sempre, qualcosa riempie questo vuoto: la violenza aggressiva, nell’escalation fatale tra forze dell”ordine’ (che non sono mai imparziali né ignare) e del ‘disordine’ (che non sono solo 100 ragazzi col cappuccio (delinquenti, teppisti, balordi…), o pochi ‘compagni che sbagliano’; esiste un’ampia zona grigia, sia chiaro una volta per sempre…).

E’ lo stesso processo che è in corso su scala mondiale: il terrorismo e la guerriglia tengono in scacco gli eserciti ed i governi; la popolazione civile (pacifica ?) sta in mezzo, a prender botte, bombe e schizzi da entrambi.

E sarà sempre più così, in un’escalation distruttiva senza fine, soprattutto se i ‘pacifisti’ continueranno a proporre ‘Perugie-Assisi’ o passeggiate romane; e a coprire la passività, infiorandola ogni tanto con dibattiti, eventi culturali, proteste simboliche.

Il sistema non è mai stato tanto debole, indipendentemente da noi, e rischia un’implosione catastrofica. In una fase come questa, potrebbe anche decidere, pur di sopravvivere, di farci fuori tutti, comunque, anche se ci organizzassimo diversamente e facessimo delle scelte di lotta diverse e più efficaci. Ma credo che sia sempre meglio essere sconfitti tentando il nuovo che continuando ad organizzare manifestazioni per i black bloc e i poliziotti, o per salvarci l’anima.

Si dice che ieri ci fossero 300.000 persone in piazza. Domando:

-esistono in Italia 30.000 persone disposte a compiere azioni nonviolente di disobbedienza civile, anche illegali (occupazioni, blocchi, sabotaggi…), e disposte quindi, eventualmente, a finire in galera ?

-esistono in Italia 300.000 persone disposte a compiere azioni nonviolente di non collaborazione attiva (boicottaggi di aziende e banche, obiezioni fiscali mirate…) ?

-esistono in Italia 3.000.000 di persone disposte a sostenere le forme di lotta di cui sopra e a programmare un’astensione pubblica e motivata per le prossime elezioni?

Se non siamo capaci di andare a colpire i veri interessi dei nostri avversari (denaro e consenso-potere), se non siamo disposti a rischiare anche di perdere qualcosa per noi, non siamo all’altezza dello scontro in atto e, giustamente, non siamo credibili.

O la nonviolenza è ‘un equivalente morale della guerra’ o, semplicemente, non è.

O siamo capaci di compiere le nostre azioni nonviolente (e non banalmente ‘non violente’ ) con lo stesso grado di convinzione e radicalità con cui i black bloc, i kamikaze, i banchieri perseguono i loro interessi e le loro idee, oppure è del tutto inutile continuare a fare teatro.

Da tempo, attendo una risposta a quelle domande da parte dei movimenti in cui ho operato.

Ora l’attendo da voi, indignati.

Nell’attesa, continuo a stare – per una volta- alla finestra: a guardare sport, fuochi (cuochi) e fiamme in tv.

con affetto e attenzione

enrico euli

Siamo completamente d’accordo con Enrico (che si firma tutto minuscolo forse in omaggio a Bell Hooks, scrittrice del “margine”) tranne magari sulla provocazione di stare a guardare la tivvù… Secondo noi tutto è meglio di qualsiasi tv.

Ci pare che in gran parte Euli risponda anche alle nostre “domandone”: se esiste già un chiaro noi (e chi siamo) e se c’è un netto loro (solo la destra?). Intanto fornisce indicazioni – che noi 5 consideriamo preziose quanto praticabili quasi immediatamente – per noi contro gli altri, anche quelli che fingono di essere dalla nostra parte (il “cetone” e “il cetino” nella buffa terminologia di Giorgio Monestarolo). Lo ridiciamo rispondendo alle tre domande che Enrico pone con tanta chiarezza.

Noi 5 siamo “arruolabili” (il termine è ironico) fra le 30mila disposte a compiere azioni nonviolente di disobbedienza civile, anche illegali (cioè occupazioni, blocchi, sabotaggi…) disposte quindi a finire in galera.

Noi 5 ci candidiamo a esser parte delle 300mila persone disposte a compiere azioni nonviolente, di non collaborazione attiva (boicottaggi di aziende e banche, obiezioni fiscali mirate…) .

A maggior ragione noi 5 siamo fra i 3 milioni – si spera – di persone disposte a sostenere le forme di lotta di cui sopra e a programmare un’astensione pubblica e motivata per le prossime elezioni. (Per la verità una dellre 5 è contraria per principio all’astensione…. ma stavolta farà una eccezione, vista… “l’eccezionalità”).

La nostra proposta è che altre/i rispondano alla “chiamata”, che ci si organizzi e si faccia quel che si deve fare. Così si offre forse anche un’alternativa alle persone più disperate, a quell’altra «nostra gente» che non sa cosa fare e che ogni tanto esplode

13 – E se invece quelli erano sbirri?

A tutto questo nostro faticoso ragionare qualche sapientone e dietrologo potrebbe opporre un colpo (secondo lui) da ko. Del tipèo: “Quelle/i che voi 5 sciagurati avete definito ribelli o disperati erano provocatori, anzi poliziotti; c’è persino – su «il manifesto» – la testimonianza di chi ha visto un violento passare in mezzo ai poliziotti, battendo cinque. E allora dov’era la rabbia proletaria, eh?”.

Caro sapietone-dietrologo è compito di giornaliste/i indipendenti (ne sono rimaste/i?) raccogliere notizie, testimonianze, verificarle.

Noi già sappiamo, dalla storia e dalle nostre vite, che in moltissime manifestazioni ci sono i poliziotti travestiti e i provocatori pagati ma anche, ed è questione assai diversa, molte persone che (spesso sbagliando – forse non sempre) vogliono «alzare il livello dello scontro», che seguono differenti strategie politiche o che hanno un’altra idea delle forme di «autodifesa». Ci sono anche però – pur se non li si nomima come tali in tv – provocatori in giacca e cravatta che invece cercano di condurre cortei a battere le mani a leader di “sinistra” che poi si faranno guidare da un Montezemolo, un Draghi o da una Marcegaglia, cioè dai nostri nemici.

Insomma a san Giovanni ci saranno stati quasi di sicuro sbirri, forse provocatori, magari persino i mitologici Black Bloc (gli stessi di 10 anni fa? I loro figli? Cosa fanno nel frattempo, stanno in freezer?), di sicuro esteti della violenza, psicopatici, gente più incazzata che indignata…. Poi tante persone venute solo a fare «teatro», come scrive Enrico Euli, e tantissime confuse e senza una guida, senza un minimo progetto mentre la crisi (cioè l’offensiva guidata dalle banche) crea nuove tragedie ogni giorno. Sono gli ultimi di questa lista – persone incazzate, confuse e anche psicopatiche – che ci interessano.

Gli sbirri (o persino i bravi poliziotti che, 2 di noi lo sostengono, esistono pur se son pochi) e i provocatori hanno importanza quasi zero in questo discorso. Ben altra sarà la violenza (loro e “nostra”) con la quale bisognerà presto fare i conti.

14 – Una torta (del tempo) per finire

Di recente ha scritto in blog Gianluca Ricciato: «In questa epoca, se un gruppo di persone si ritrova a compiere l’atto elementare del raccontare e del raccontarsi, corre il rischio di essere percepito immediatamente come un gruppo che sta facendo terapia, o eventualmente, che si sta dedicando al teatro»; idem per chi oltre che a raccontarsi, vuole ragionare oppure – orrore degli orrori – confrontarsi su un lavoro sociale e/o politico. Forse questo va ribaltato. Per importante che sia la rete e/o facebook, tornare a incontrarsi fisicamente è necessario. C’è un gioco che db usa spesso nei suoi laboratori (fu Riccardo Mancini a ri-elaborarlo in questa forma) e che si chiama «la torta del tempo». E’ molto semplice: si chiede a ogni persona di disegnare su una settimana, la più tipica possibile, le sue fette del tempo. Su 144 ore quante ne passiamo in lavoro, in trasporti, in amore, in ozio, in relazioni o in studio, sport, tv, facebook o in politica? Volete provare? Quanto tempo avreste per “arruolarvi” fra i 30 mila o i 300mila del non-generale Euli? Come possiamo cambiare la nostra torta del tempo per ritrovare quella socialità che ci servirà per affrontare questo tragico momento ma anche per tornare insieme a ridere, giocare, ballare, sognare, imparare meglio tutto (compreso l’amore), costruire futuri veri? E quanto tempo dedichiamo a cambiare noi stesse e noi stessi che – come giustamente ricorda Maria G. Di Rienzo – è la più grande, urgente delle rivoluzioni? Si cambia davvero in mezzo agli altri e alle altre, non da soli in casa o seguendo il guru di turno: una fra le tante verità perdute.

15 – (*) Ammesso che ve ne freghi quasi un identikit

Curiose e curiosi di sapere chi siamo oppure no? A parte db (che ci ospita in blog e ci ha sollecitato a questo incontro fra 5 città diverse) siamo – in ordine alfabetico – Agnese, Eugenio, Marco “3”, Pupa (nonostante il nome ha da tempo passato ogni tenera età) e Sandrone (non è Dazieri se mai qualcuno pensasse a lui). In 5 facciamo la bella età di 288 anni giusti. Non proprio in fasce eh? Magari era più interessante se questa chiacchierata era di figli-figlie o comunque di 5 persone con età complessiva sui 128 o sui 94 anni. Beh, il blog è a disposizione. Fatevi sotto, zuvinot.

A completare l’identikit: nonostante “gli acciacchi” 4 persone su 5 si considerano abbastanza attive a livello culturale e/o sociale e/o politico. O meglio – chiarisce Pupa – «abbastanza impegnate rispetto alla media così bassa di oggi, negli anni ’60 o ’70 c’era proprio un’altra “torta del tempo” e soprattutto altri desideri».

La discussione ovviamente non ha toccato molti punti importanti oppure non c’è stato il tempo per chiarire e superare disaccordi che sembravano minimi (sulla forma “gangsteristica” che ha preso la politica soprattutto in Italia, sulla recente storia italiana, sui rischi della violenza “rivoluzionaria” eccetera) o invece abbastanza grandi (a esempio su movimenti e necessità di una organizzazione).

Ovviamente la sintesi è (quasi tutta) di db. E’ stato anche accolto da db (o almeno lui lo spera) l’invito di Sandrone espresso in questi termini netti: «e cerca per una volta di limitare al massimo le tue battute del cazzo».

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • grazie, picchiatelli/e! un resoconto davvero succoso. Ora che son passati un po’ di gg dal 15-ott, mi son riproposto di ragionare un po’ più approfonditamente su quanto acchaduto, su quanto accadrà e su cosa possiamo fare. M’avete cetamente aiutato ad avviare i ragionamenti. Ho trovato spunti (diversi ma parimenti stimolanti) anche nell’interminabile discussione nel blog di Wu Ming Foundation e nell’editorialino di Giovanni De Mauro su Internazionale di venerdì (“Creativo”).
    Tra le cose che scrivete non mi convincono molto le previsioni + catastrofiche su esplosioni e diffusione di violenza. Spero d’aver + naso io di Bifo e di tutt* voi. Invece, per… l’arruolamento nei 30mila che vogliono sperimentare forme di lotta nonviolente… sono… QUASI pronto.
    Ci ragiono ancora un po’ su (anche insieme al mio “giro” di Todo Cambia, Immigrati Autorganizzati e compagnia bella)

  • ecco l’editorialino di Internazionale a cui facevo cenno:

    Creativo

    I grandi cortei degli anni settanta e ottanta servivano a dimostrare che si era in tanti. C’erano i megafoni, il servizio d’ordine, gli striscioni, le bandiere, i
    volantini stampati col ciclostile, e alla fine un bel comizio dal palco. Ma oggi non hanno più senso. Bisognerebbe usare altri strumenti. Come al Cairo, dove migliaia di persone sono rimaste in piazza per giorni. O come a New York, dove si sono inventati il microfono umano – il passaparola della folla – per aggirare il divieto di usare i megafoni. Poco tecnologico ma molto efficace. Perché a Zuccotti park come a piazza Tahrir il problema è anche creativo: farsi venire idee nuove per sperimentare nuove forme di partecipazione. Anziché una grande manifestazione che dura un pomeriggio, mille piccolissime che durano una settimana. La politica italiana è fatta ancora di talk show, telegiornali, interviste, conferenze stampa, sondaggi, comizi. È così vecchia che basterebbe un tweet per spaventarla.
    Giovanni De Mauro
    settimana [at] internazionale.it

    .

  • Anche io ci sono fra i 30000!

    Un’analisi giustamente lunga e dettagliata per una complessità di fatti ancora poco decifrabile, che si distanzia sia dal cieco legalitarismo sia dal ribellismo inutile

    La pratica di alternative credibili di vita, non solo la teorizzazione, è quello che forse ci può salvare dall’escalation della violenza, in fondo lo sta dicendo anche Bifo da più parti in questi giorni. In fondo ce ne sono tante di via d’uscita da questa economia che a livello molecolare si stanno facendo da tante parti, dalle esperienze di decrescita e quelle comunitarie alle varie forme di vita e di economia alternativa, compresi i tentativi di rifonadare una socialità su forme di relazioni diverse e più libere. Non è sufficiente tutto questo, ma è condizione necessaria per non affondare nel nichilismo della lotta contro tutto.

    Sarebbe bello e utile ritessere le reti, ricominciare a dialogare tra esperienze uscendo dal proprio micro-orticello di esperienze da cui si criticano i micro-orticelli degli altri – è questo che io vedo alla base del “vuoto” del 15 ottobre – e costruire un nuovo mega-orto sociale e condiviso, diffonderlo e farlo diventare pratica di massa, portare in piazza non le sfilate e le bandiere ma le proprie pratiche!!

    In fondo di positivo in tutto questo forse c’è l’uscita da questo decennio di psicosi interiorizzate, finalmente

    Grazie dell’articolo

    Gianluca

  • care e cari,
    a parte i commenti stanno arrivando altri interventi: uno di Enrico Euli e poi uno di Maria G. Di Rienzo. Li posto su lunedì: a mezzanotte circa e la sera (in mezzo c’è l’appuntamento inderogabile con Mark Adin).
    intanto grazie a tutte/i (anche a chi scrive “in privato”) e, come sempre, abrazos y rebeldia
    db

  • leggendo questo post, di cui condivido i contenuti, mi vengono principalmente due pensieri:
    1) il 15 ottobre, così come è andato, è servito. in questo post non c’è una relazione fredda, quella che ho anch’io quando scrivo e pubblico qui. la discussione sta divenendo calda: 5 persone si sono confrontate e hanno prodotto un documento condiviso. + o -, tra loro. è, a mio avviso, il primo passo per formare i primi 3000;
    2) la torta del tempo mi ha agghiacciato. se la immagino, quando ho tempo da dedicare al conflitto non lavoro e mi incasino la vita. quando lavoro, a volte mi capita pure, non ho tempo per il conflitto. quella torta non può essere cambiata solo singolarmente, ci vuole un modo collettivo per riprendersi il tempo e per farlo vedi il punto 1.

  • Battiamo un colpo … ma poi entriamo

    Perché scriviamo?
    La mattina del 15 ottobre non mi trovavo a Roma ma nella comodità di casa mia, non tanto comodo a dirla tutta.
    Mi sono messo al pc e ho scritto della mia scomodità, ho scritto per comprendere meglio la mia po-sizione, ho scritto per condividere, per non sentirmi del tutto solo. (http://achimaie.altervista.org/intermittenze/rivolta-globale-nella-testa-ma-non-ancora-nella-vita/)
    Con altri amici facciamo questo da qualche tempo, ci incontriamo, discutiamo, ci confrontiamo, ci lamentiamo, manifestiamo (poco, sempre di meno), proponiamo e ci mettiamo a disposizione per momenti formativi.
    Non molto, poco anzi, ma è quello che riusciamo a fare; resistiamo con tutte le nostre forze alla deriva sconsolata di tanti come noi, delusi, paralizzati, spiazzati.
    Siamo stati a Genova, dieci anni fa, con i Gruppi di Affinità e abbiamo visto sciogliersi quell’embrione di rete per l’azione diretta nonviolenta che faticosamente si era creato nei mesi precedenti.
    Ci siamo persi e ritrovati, attorno alla crisi del dopo Genova e al bisogno, che non scompare del tut-to, di avere un luogo di condivisione, fosse anche della nostra incapacità di agire.
    Perché scriviamo, perché scrivo? Me lo sono chiesto, in questi giorni nei quali il dibattito sulla rete è ripreso fittissimo, in mille rivoli: analisi, critiche e riflessioni sulle modalità dell’azione politica e sull’orizzonte di senso che essa può avere oggi.

    Uscire dal copione
    Siamo prigionieri di un copione che ha ristretto le alternative dell’azione nell’abbraccio mortifero della polarità “violenza-dissenso pacifico” (http://achimaie.altervista.org/).
    Non solo questo credo, mi spingo più in là.
    C’è un altro copione, complementare al primo, nel quale ci siamo messi e dal quale forse è venuto il momento di uscire.
    E’ il copione della lamentazione e del cinismo. Di chi si è ritirato dall’azione, e con buone ragioni, ma non l’ha fatto del tutto; ogni tanto si agita, si mette alla tastiera e scrive, analizza, commenta, critica e poi si ritira.
    C’è qualcosa che stona, che non torna. Perché scriviamo, perché scrivo?
    Io lo so, per conto mio. Perché ho bisogno di agire, perché il bisogno è sempre lì, nonostante le delusioni, le incazzature, le incapacità.
    Uscire dal copione quindi.

    Dalla rivolta al programma costruttivo
    Uscire dal copione, ma come?
    Per agitarsi un po’, per sgambettare e riprovare l’ebbrezza dell’azione, per sentirsi di nuovo vivi, per vivere anche solo per un giorno? No, non mi basta e forse non mi interessa neppure.
    Enrico Euli pone tre domande – di quelle che rischiano di paralizzare invece di muovere – (“Su Roma, ieri” http://achimaie.altervista.org/).
    Al di là dei numeri, ne colgo il senso: abbiamo il desiderio, la voglia, l’energia per passare dalla lamentazione all’azione, dalla rivolta al programma costruttivo?
    Certo, dobbiamo condividere analisi e obiettivi, definire delle tappe e delle scadenze; dobbiamo verificare – nei luoghi dove viviamo – la possibilità di creare quella massa critica in grado di portarci dalla testimonianza alla incisività.
    Dobbiamo riprendere ad incontrarci, dobbiamo provarci. Altrimenti smettiamola di scrivere, io per primo, e che ognuno torni alle sue tranquille comodità casalinghe.

    Giuseppe Pinto

  • Per prima cosa complimenti per i moltissimi spunti lanciati su cui ragionare
    e per il faticoso lavoro di trascrizione!

    Devo ammettere che sono tra quelli rimasti perplessi dal famoso editoriale
    di Parlato, ma non tanto per la (giusta) scelta di passare oltre agli
    scontri e incentrare il suo pensiero sul senso della manifestazione, le cui
    ragioni sono state praticamente cancellate da quasi tutto il resto dei
    media, anche da alcuni che si definiscono “contro”. Credo però che in
    qualche modo si debbano fare i conti con coloro che hanno scatenato le
    violenze di Roma e capire chi sono realmente, perché anche lì per me c’è un
    fronte molto vasto, da gente realmente arrabbiata col sistema per buoni
    motivi a infiltrati passando per gruppuscoli che in queste circostanze
    cercano di sfruttare la piazza per aumentare il loro numero di adepti.
    Premesso che risulta irritante ilo pseudo-pacifismo dei nostri politici (che
    si indignano, ma come giustificano l’aumento di spese militari, le guerre
    umanitarie ecc..?), a chi giovano scontri come quelli della scorsa
    settimana? Non sono di quelli che esalta il pacifismo a tutti i costi, e
    nemmeno (per fortuna) mi sono mai ritrovato negli scontri ai cortei, ma, ad
    esempio, un conto è tagliare le reti di recinzione dei cantieri Tav,
    interviene la polizia e a quel punto è chiaro che gli interessi della gente
    in manifestazione e quello delle forze dell’ordine cozzano e gli incidenti
    ci possono stare, al pari dei tentativi di forzare eventuali zone rosse: in
    questo caso il diritto alla resistenza, o comunque alla disobbedienza civile
    è sacrosanto, come del resto avviene in Grecia, dove a prendere le
    manganellate della polizia ci sono persone normalissime che hanno perso il
    lavoro (penso ai 30mila dipendenti pubblici licenziati dall’oggi al domani),
    sono imbufalite e sfogano la loro rabbia. Ma incendiare banche (aldilà del
    simbolo che possono rappresentare), bruciare utilitarie (alcune degli stessi
    partecipanti al corteo, che magari la stavano pagando a rate.), distruggere
    un Crocifisso o un’immagine della Madonna che senso ha e cosa c’entrano con
    la rabbia antisistema? C’è chi dice che se non ci fosse stato casino sarebbe
    stato il solito corteo che non avrebbe prodotto alcun risultato concreto. In
    effetti i cortei pacifici, senza alcun tentativo di raggiungere i palazzi
    del potere, non hanno mai prodotto alcunché, è vero, ma i fatti del 15
    Ottobre cosa hanno prodotto? Hanno fornito un assist perfetto al governo e
    ai media più o meno istituzionali che fanno da sponda per il divieto dei
    cortei (a Roma ci aveva già provato Alemanno con gli operai di Termini
    Imerese), fare collegamenti assurdi tra il movimento No Tav e gli
    incappucciati, stilare liste nere più o meno poco credibili tra aree di
    movimento buone e cattive ecc., mentre per l’opposizione, parlamentare e per
    certi versi anche extra, gli scontri hanno rappresentato la scusa perfetta
    per defilarsi da un movimento che stava cominciando a crearle serie
    difficoltà. In definitiva, non credo che la rivoluzione sia un pranzo di
    gala, è chiaro che azioni forti e di rottura vanno messe nel conto, a
    cominciare dall’idea di prendere in considerazione quanto stanno facendo in
    Grecia, ma la soluzione alla violenza del capitale, alla progressiva
    cancellazione dei diritti e della precarizzazione della vita (non solo del
    lavoro), alle difficoltà economiche già alla terza settimana non credo sia
    risolvibile spaccando tutto ciò che troviamo sulla nostra strada. Infine,
    condivido molto l’idea di azioni pacifiche di disobbedienza civile, ma
    purtroppo sono mobilitazioni difficili da realizzare, se penso che anche gli
    scioperi più partecipati non riescono a bloccare la città o a creare disagi
    particolari, sarà difficile coinvolgere molte persone in questa forma di
    protesta, mentre non concordo granchè con l’idea dell’astensione: nonostante
    gli errori di percorso, le contraddizioni ecc.. credo che dovremmo
    adoperarci per far tornare in parlamento i due partiti della sinistra (per
    quanto divisi tra loro e frammentati anche all’interno) attualmente
    extraparlamentari.

  • Temo anch’io una recrudescenza della violenza, perchè le condizioni materiali degli italiani si stanno velocemente impoverendo e governi, giornali e altre istituzioni stanno mettendo poveri contro poveri, deboli contro deboli. Devo anche registrare una inconsapevolezza generale sulle nostre condizioni materiali, chissà se la fila al centro commerciale di Ponte Milvio non ne sia una dimostrazione. Per quanto mi riguarda, ho fatto una fila di 8 ore solo per acquistare un biglietto per un concerto di un tal Fabrizio De Andrè, mai mi sarei sognato di vedere persone in fila per altrettanto tempo solo per acquistare una lavatrice a 60 euro (il consumista per necessità) o l’ultimo iPhone a 500 (il consumista compulsivo).
    Nel mezzo c’è stata anche la grande manifestazione in Val Susa, dove il popolo No Tav ha dimostrato ancora una volta grande dignità, civiltà e determinazione. Queste caratteristiche non sono mancate agli organizzatori della manifestazione del 15, ci mancherebbe….temo si siano aggiunte altre incontrollabili variabili (black block, infiltrati, incapacità e/o non volontà dei poliziotti di garantire l’ordine, ecc…).
    Tuttavia penso che i protagonisti della guerriglia urbana non siano le nuove avanguardie del precariato, ma i figli dell’Italia del ducetto che si fa da solo, di mancanza di prospettive professionali, di un impoverimento non solo materiale e di una scuola pubblicata mortificata, insomma il prodotto di 20 anni di berlusconismo (anche per responsabilità dei governi di centro sinistra). Non vorrei che Parlato abbia confuso l’analisi con un suo desiderata. Temo che la violenza di quei giovani sia della stessa natura di quella che subiscono i licenziati di Termini Imerese, i lavoratori della cultura, i precari reclutati dalle agenzie di lavoro interinale (oggi si dice a somministrazione, come un’amara medicina). Non a caso i primi effetti della repressione gli hanno dovuti subire proprio gli operai di Fiat e Fincantieri.
    Temo che se si facesse una seria indagine sociologica sulle biografie di quei giovani scopriremmo non giovani rivoluzionari, ma giovani disorientati lontani da qualsivoglia pensiero politico antagonista e antisistema. Ad esempio porto le dichiarazioni di uno dei ragazzi accusato di aver dato fuoco al blindato. Per difendersi ha affermato di voler spegnere l’incendio con una bottiglia di COCA COLA!! Ma sapete da quanto tempo non compro una lattina di Coca Cola? Ma quale coscienza politica volete che abbiano Er Pelliccia e gli ultras delle curve italiane?
    Che fare? Innanzitutto continuare a parlare e discutere con le persone (suggerimento di db sempre validissimo) e cominciare a riflettere seriamente sulla mia torta del tempo.
    Ciao
    Andrea

  • sul “manifesto” del 3 settembre 2014 c’è una notizia tragica: il suicidio di Leonardo Vecchiola, detto Chucky.
    Era uno degli arrestati per gli scontri a Roma del 15 ottobre 2011: accuse gravissime (tentato omicidio, devastazione, saccheggio….). Il 16 novembre 2011 venne scarcerato perchè video e foto dimostravano che lui era altrove. Quella breve detenzione e il “massacro mediatico” erano stati molto pesanti, ne hanno segnato la vita. Su “il manifesto” (appunto del 3 settembre) una lettera (di Davide Rosci) più un breve articolo – dove si citano l’Osservatorio contro la repressione e i 99 Posse – ricordano che Leonardo Vecchiola era attivo contro l’inceneritore di Acerra e nelle lotte sociali.
    Il suo linciaggio il suo suicidio confermano che molto spesso “lo Stato è un terrorismo in grande”.

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