«Oltre il Capitale»
Recensione di Gian Marco Martignoni al saggio di Istvan Meszaros, fnalmente tradotto in italiano
Dopo ventuno anni dalla sua pubblicazione londinese, è stata finalmente editata anche nel nostro Paese – grazie all’accurata traduzione di Nunzia Augeri – l’opera fondamentale di Istvan Meszaros «Oltre il Capitale» (Edizioni Punto Rosso; pagine 914 per euro 40).
Che un’opera così ardita e complessa sia stata letteralmente “ignorata” dalle politiche editoriali di case editrici quali Einaudi, Feltrinelli o Laterza è indicativo sia degli effetti della deideologizzazione imperante sia delle evidenti difficoltà di ricezione determinate dal tracollo di quel marxismo storicista, che è stato egemone per un lungo periodo del Novecento.
Allievo di Gyorgy Lukacs (al quale dedica un appassionato confronto nella seconda parte del libro, a partire da una lettura critica di «Storia e coscienza di classe») e membro della famosa scuola di Budapest, Istvan Meszaros dimostra con questo formidabile contributo che la crisi del marxismo può essere affrontata abbandonando l’atteggiamento difensivo – quello che lui definisce «la linea di minor resistenza» – e rilanciando una adeguata strategia socialista, volta a delineare una coerente transizione, come recita il sottotitolo del libro.
D’altronde, la dinamica dell’ordine metabolico-sociale del capitale è illimitatamente espansionista, incontrollabile sul piano della produzione e intrinsecamente auto-distruttiva e distruttiva rispetto al genere umano, anche per via del ruolo predominante riservato al complesso militar-industriale.
Le contraddizioni che tale ordine genera, sia nel rapporto uomo-natura che in quello uomo-donna, tendono ad acuirsi stante la crisi strutturale che ha investito il sistema del capitale.
L’assolutizzazione del valore di scambio e la tirannia del mercato – attraverso la smisurata creazione di bisogni artificiali e la «tendenza decrescente del valore d’uso dei beni» – produce un doppio sfruttamento dei lavoratori, come produttori e come consumatori, al fine di perpetuare il processo dell’accumulazione capitalistica.
Altresì, mediante l’esaltazione della concorrenza e della competitività, il capitale oltre a scomporre e frammentare la forza lavoro, incrementa i fenomeni della disoccupazione e della precarizzazione di massa, anche in ragione del minor bisogno di lavoro vivo e della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Pertanto, la disgregazione dei legami sociali prodotta da questi fenomeni incrina – unitamente al degrado ambientale e alla degradazione del lavoro conseguente al tasso differenziale di sfruttamento sulla base delle varie aree geografiche del globo – le condizioni della riproduzione sociale del sistema.
Senonché il comando del lavoro da parte del capitale e il funzionamento della società nel suo complesso non potrebbero avere quella apparente stabilità e coesione che dimostrano se non si mettono a fuoco per Meszaros sia il ruolo dello Stato come elemento che garantisce le «condizioni necessarie per l’estrazione di pluslavoro» sia il peso storicamente esercitato dalla divisione gerarchica del lavoro.
Ciò non toglie che l’insostenibilità sociale del sistema del capitale e la sua minaccia per la sopravvivenza dell’umanità siano ormai una realtà più che evidente.
Di qui la inderogabile necessità, dopo il riassorbimento da parte del mercato delle società post-rivoluzionarie e la bancarotta delle socialdemocrazie, del superamento della sua logica dominante, mediante una radicale ristrutturazione del processo di ricambio sociale; ovvero attraverso una nuova relazione tra produzione e consumo, nonché combinando l’esigenza di una autentica pianificazione con l’affermazione di una contabilità socialista.
Nell’ontologia del lavoro prospettata da Meszaros l’emancipazione dell’umanità si coniuga con il Marx dei «Grundrisse», laddove cioè «la ricchezza dell’uomo è data dal tempo disponibile» e l’affermazione del concetto di produzione comune individua una diversa dimensione dell’utilità sociale.